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Renzi sotto assedio
gioca la carta del fisco

di Paolo Pombeni

Il tentativo di Renzi di spostare l’asse del dibattito politico sulla questione della riforma fiscale è ancora al momento in attesa di decollo. La stagione non aiuta e l’incertezza sulla realizzabilità di un progetto molto ambizioso, ma di cui non si vedono chiaramente le basi finanziarie aiuta ancora meno. In compenso emerge sempre più chiaro che la maggiore palla al piede del premier è la situazione del suo partito. In passato gli era riuscito di marginalizzare il fenomeno con l’appello diretto ai simpatizzanti e agli elettori: così era stato nella campagna per l’elezione a segretario, così per le elezioni europee. Quando alle urne si è potuto imporre la conformazione del referendum pro o contro Renzi il successo non è mancato. Il fatto è che non si può avere una elezione ogni due o tre mesi e che poi quando le elezioni non riguardano direttamente il consenso al leader le cose non vanno lisce: vedi le ultime regionali.

E’ a questo punto che il premier deve fare i conti non tanto con un consenso che i sondaggi danno in contrazione (queste sono altalene più o meno normali per chi è al governo) quanto con un partito che è più concentrato sulle sue lotte di potere intestine che sul sostegno all’azione dell’esecutivo ed ai progetti di riforma che sono stati messi in campo. A rafforzare questo clima sono intervenute le crisi al comune di Roma ed alla regione Sicilia dove si è visto che il sistema di investitura elettorale diretta dei vertici dei governi locali ha privato i partiti di un ruolo autentico di gestione della sfera politica. Naturalmente i due casi citati non sono gli unici: in maniera meno eclatante sul territorio nazionale si moltiplicano le situazioni in cui risulta difficile ricondurre le dinamiche locali del PD ad un orizzonte di governo del paese. Ciò rafforza le dissidenze interne, che si stanno consolidando proprio perché mancano al premier le occasioni per fare un appello diretto agli elettori tale da ridimensionare le pretese dei vari capi corrente.

Questa situazione sta avendo una ricaduta immediata su quella che doveva essere la riforma istituzionale chiave della nuova fase renziana: l’abolizione del senato elettivo e la fine del bicameralismo paritario. Quella che sembrava una battaglia facile, perché la critica al bicameralismo paritario è stata continua e sostanzialmente unanime nel corso dell’esperienza repubblicana e perché l’idea di far risparmiare soldi abolendo una intera casta politica si riteneva incontrasse grandi favori popolari, si sta rivelando progressivamente impervia. Innanzitutto non sembra che l’opinione pubblica sia particolarmente interessata a questa riforma, mentre crescono le perplessità sulla concentrazione dei poteri in una sola assemblea, per di più dominata dal premio di maggioranza previsto dalla riforma elettorale.

Non ci vuol molto a capire che una parte delle resistenze ha radici non molto nobili, perché viene da un ceto politico preoccupato di perdere una quota di poltrone, ma non tutto è riducibile a questo. Le debolezze del disegno di legge predisposto dal ministro Boschi esistono e il non averle volute vedere per tempo è uno dei tanti guai che ha procurato a Renzi l’attitudine a chiudersi nel fortino dei suoi cerchi magici. Ora tuttavia il governo fatica a trovare una via d’uscita onorevole, che salvi ufficialmente il suo disegno pur concedendo qualcosa all’obiezione che affidare una seconda camera ad un gruppo di sindaci e consiglieri regionali auto selezionati da rispettivi corpi di appartenenza non è di questi tempi una prospettiva tranquillizzante.

Se invece il governo accetterà, come si tende a suggerirgli, la via di ricominciare l’iter (come succederebbe con una modifica degli articoli già approvati), per Renzi sarebbe una sconfitta molto pesante. Sembra che proprio a questo mirino i suoi oppositori, convinti che così si arriverebbe ad un nuovo governo, o guidato dallo stesso Renzi ma depotenziato e con una compagine su cui non potrebbe più fare conto, o addirittura guidato da un’altra personalità (anche se nessuno sa dire quale sarebbe poi in grado di raccogliere la fiducia nei due rami del parlamento).

La via d’uscita di una vittoria ai punti dell’attuale premier, cioè di una approvazione della legge per il rotto della cuffia grazie all’appoggio di un po’ di transfughi raccattati qua e là, si rivelerebbe come la classica vittoria di Pirro: metterebbe le ali tanto alla opposizione interna al PD, che contro questa eventualità ha già fatto barricate preventive, quanto ai suoi nemici esterni da Salvini al M5S (per non parlare del vantaggio che concederebbe ai tentativi di compattamento dei reduci all’estrema sinistra).

Al momento non è chiaro come Renzi pensi di rompere questo assedio. L’arma di minacciare il ricorso anticipato alle urne è oggi meno forte che nel recente passato, perché il blocco di consenso intorno al riformismo del leader si è fortemente indebolito. Certo il lancio della prospettiva di una incisiva riforma fiscale potrebbe coagulare consensi, ma probabilmente a prezzo di una scissione non piccola all’interno del PD e senza alcuna garanzia che questa sarebbe compensata da una consistente conquista di voti al centro. Perché sulla prospettiva di avere meno tasse non è difficile raccogliere consenso, ma sinora non è mai stato possibile raccogliere una vera maggioranza elettorale concentrata solo su chi l’ha proposta.

(da mentepolitica.it)

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