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Sulla versione di Prodi
rifletta anche Renzi

Sulla versione di Prodi <br> rifletta anche Renzi

di Michele Marchi

C’è da chiedersi se il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che dal palco del meeting riminese di CL ha parlato del fallimentare ultimo ventennio della politica italiana, abbia almeno sfogliato il recente libro intervista realizzato da Marco Damilano con l’ex premier ed ex presidente della Commissione europea Romano Prodi (R. Prodi, Missione incompiuta. Intervista su politica e democrazia, a cura di M. Damilano, Laterza, 2015). Il padre fondatore dell’Ulivo ricostruisce il suo percorso intellettuale, culturale e politico, ma in realtà tratteggia una sua versione della storia d’Italia e della politica internazionale dagli anni Sessanta del Novecento ai nostri giorni. Ebbene la “versione di Prodi” è di notevole interesse proprio quando entra nel vivo di quell’ultimo ventennio citato da Matteo Renzi, epoca che lo ha visto tra gli indiscussi protagonisti.
Il primo passaggio di rilievo è quello riguardante il giudizio di Prodi su Mani pulite. L’ex premier non teme di andare controcorrente, o di avallare una lettura spesso avversata nell’area di centro-sinistra, quando parla della stagione delle inchieste milanesi di inizio anni Novanta come di un momento di grande opportunità per lottare contro il malaffare e la corruzione, ma allo stesso tempo come l’incubatore del virus di un “populismo senza freni”. Mani pulite e i metodi “giustizialisti” ad esso connessi si tramutano nei facilitatori per l’instaurarsi di un clima di sospetto e di attacco nei confronti non solo di quella parte di classe dirigente politica corrotta, ma più in generale del ruolo della politica in quanto tale.
L’effetto delegittimante indiscriminato avrebbe finito per favorire la proposta di Berlusconi che, nell’ottica di Prodi, non solo si rivelerà deludente sul fronte della necessaria modernizzazione del Paese, ma favorirà un meccanismo di auto-assoluzione perpetrato dalla maggior parte della popolazione, per nulla disposta a trarre reali insegnamenti dall’indispensabile lotta alla corruzione.
Di fronte ad una definizione di berlusconismo di questo genere, Prodi vi aggiunge poi il possibile “antidoto” e cioè la nascita dell’Ulivo. Anche su questo punto la riflessione è interessante. Si può affermare che Prodi storicizzi il berlusconismo (sulla falsariga della lettura di Giovanni Orsina nel suo interessante Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, 2013) e lo inserisca nella storia nazionale come uno degli ennesimi momenti di “auto-illusione”, così caratteristici dei nostri 150 anni di vita unitaria. L’Ulivo, almeno così come è definito dal suo creatore, è l’opposto. Pragmatico ed anti-ideologico ma in particolare riformista e modernizzatore, questo l’Ulivo che all’illusione e all’autocompiacimento sostituisce una coerente, studiata e complicata strada per cambiare il Paese. Ancora una volta è l’estrema attualità politica ad emergere dalle pagine dell’intervista. Come spesso ama ricordare l’attuale presidente del Consiglio, quello trascorso è stato il ventennio delle “mancate riforme”, prima di tutto di natura istituzionale. Sembra paradossale ma ancora oggi il nostro Paese si trova a metà del guado in termini di modernizzazione del processo decisionale, in particolare rispetto alle altre democrazie occidentali. L’Ulivo in questo quadro diventa (o perlomeno avrebbe dovuto rappresentare) il garante del bipolarismo da costruire dopo la fine della Guerra fredda. Quel sistema che al di là della specifica scelta elettorale (uninominale, doppio turno, proporzionale corretto, ecc) o della formula istituzionale (premierato, semipresidenzialismo, cancellierato, ecc…) dovrebbe essere in grado di garantire alternanza e stabilità. L’Ulivo, nella concezione di Prodi, avrebbe dovuto essere il baluardo per opporsi a Berlusconi, dunque presentare una dimensione contingente, ma anche strutturarne una sistemica, da concretizzarsi proprio nella strenua difesa del bipolarismo.
Impossibile a questo punto non interrogarsi su due elementi più controversi relativi a questa parte della ricostruzione di Prodi. Da un lato il tentativo almeno formalmente più serio di riforme istituzionali prima dell’avvio del renzismo e cioè l’epopea della Commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Alla precisa domanda provocatoria di Damilano, Prodi risponde senza tentennamenti difendendo il progetto e la scelta di non impegnare il governo direttamente sul tema delle riforme. Ha certamente ragione Prodi quando ricorda che l’“emergenza” del momento era l’ingresso del Paese nel gruppo di testa della moneta unica. Più discutibile si rivela la scelta di non aver assunto in prima persona la bandiera della riforma istituzionale, una volta esauritasi la forza propulsiva del “traguardo europeo”, anche perché proprio da quel momento la carica riformatrice dell’esecutivo dell’Ulivo parve smarrire la sua ragion d’essere, che al contrario avrebbe forse potuto essere trovata nella riforma del sistema istituzionale, passaggio imprescindibile per qualsiasi reale modernizzazione del Paese. Dall’altro lato, sempre legato all’asse Ulivo-bipolarismo-riforme, Damilano sollecita Prodi direttamente a proposito della fine della prima esperienza di governo e in generale relativamente al cosiddetto “fallimento politico” dell’Ulivo. Interessanti i due distinguo dell’ex premier. Prima di tutto egli non accetta la definizione di “fallimento” e preferisce quella più neutra di “sconfitta”. Ma soprattutto Prodi ammette che alla base di questo complessivo insuccesso deve essere ascritto il mancato investimento sulla dimensione organizzativa e partitica. In definitiva l’Ulivo sarebbe stato da una parte attaccato dai partiti che lo formavano in quanto coalizione e dall’altro sarebbe imploso per non essersi sostituito ad essi, non essendosi strutturato come moderna forma partitica. Anche qui è inevitabile porsi una domanda (che un Damilano non rivolge a Prodi): chi avrebbe dovuto svolgere questa operazione di tabula rasa e ricostruzione di un nuovo soggetto politico? Chi possedeva la leadership per ottenere questo obiettivo? E soprattutto era possibile ottenere un risultato di questo genere senza porsi direttamente alla guida di un tale progetto?
Come detto però quello di Prodi è tour d’horizon che ha come centro l’Italia, ma non trascura la dimensione europea e più in generale quella globale. Se i giudizi non lusinghieri sulla leadership europea di Angela Merkel sono noti per chi segua l’ex premier nelle sue puntuali analisi su Il Messaggero, di estremo interesse è il suo punto di vista quando anticipa la “crisi” europea almeno di due anni rispetto al referendum francese sul Trattato costituzionale del 2005. Dal suo punto di vista il vero spartiacque è rappresentato dallo scontro e dalla successiva profonda divisione (con Francia e Germania da un lato e Regno Unito, Spagna e Italia accanto a George W. Bush dall’altro) a proposito della scelta statunitense di invadere l’Iraq di Saddam Hussein nella primavera del 2003. Da quella frattura intra-europea, prima ancora che euro-atlantica, il Vecchio Continente, e nello specifico l’Ue, hanno avviato una progressiva discesa verso la marginalità internazionale e l’anomia geopolitica che le successive e recenti crisi sul fronte orientale e su quello mediterraneo non hanno fatto altro che confermare e se possibile accentuare.
Dall’osservatorio di Prodi, tutto centrato sulle direttrici africana ed estremo orientale, il declino del modello europeo si concretizza nella sempre minor considerazione che il Vecchio Continente riscuote presso i cosiddetti Paesi emergenti, ma soprattutto presso il “dragone” cinese che, al contrario, dimostra attenzione (quando non infatuazione) per il modello di soft power Usa nella versione portata avanti da Obama. Con gli Usa sempre più propensi a riproporre una versione aggiornata della dottrina Monroe (l’apertura a Cuba si inserisce in questo quadro) e a consolidare un pivot to Asia che lo stesso Obama ha accentuato e con una Cina legata a doppio filo alla ripresa Usa e ai destini del suo immenso debito, l’Europa è sempre più marginale e periferica. A tal proposito Damilano avrebbe potuto forse spendere qualche pagina per interrogare Prodi a proposito del TTIP, quell’accordo commerciale transatlantico che per i suoi sostenitori potrebbe rappresentare l’ultima possibilità per evitare il definitivo allontanamento tra le due sponde dell’Atlantico.
Le ultime pagine riportano il lettore all’interno dell’agone politico nazionale. Prodi, anche se mai direttamente, torna a dialogare a distanza con l’attuale inquilino di Palazzo Chigi. Affascinante è la definizione che egli offre delle difficoltà che i principali leader politici si trovano oggi ad affrontare in quella che egli definisce la “democrazia barometrica”, cioè quell’evoluzione “patologica” dei sistemi democratici oramai dominati da continui appuntamenti elettorali, anche minori, il cui peso è amplificato a dismisura dallo strapotere assunto dalla dimensione mediatica (televisiva e dei nuovi media). Pur volando alto, Prodi non disdegna alcune “punzecchiature” al giovane premier. Egli infatti definisce “anomalo per il processo democratico” l’alternarsi alla guida del Paese negli ultimi quattro anni scarsi tre presidenti del Consiglio, nessuno dei quali chiaramente e direttamente investito dal voto popolare. Si dice poi contrario al cosiddetto “partito della Nazione”, ribadendo che la dimensione della cosiddetta “grande coalizione” non può essere accettata come la norma, né tanto meno presentata come un’alternativa alla dinamica bipolare. Infine non disdegna di offrire la sua versione a proposito della mancata elezione al Quirinale. Al di là dei giudizi specifici (peraltro molto pacati) ad essere interessante è il commento che egli dedica al colloquio avuto con Renzi nel dicembre 2014, a proposito di una sua possibile “seconda chance” dopo l’infausta gestione dell’elezione presidenziale del 2013. Pur ribadendo la sua indisponibilità, l’ex presidente del Consiglio ed ex presidente della Commissione offre il suo personale punto di vista a proposito della mancata investitura da parte del “suo” Partito Democratico. La ragione è semplice: egli non avrebbe garantito “controllabilità assoluta”. Difficile non essere d’accordo con Prodi, anche alla luce della prima parte del settennato di Mattarella, che tale “controllabilità” pare davvero garantirla.
Molti altri spunti potrebbero essere tratti da questa “versione di Prodi”. E l’attuale inquilino di Palazzo Chigi, costantemente e anche meritoriamente impegnato a riflettere sulle prospettive future, non farebbe male ad occupare un po’ del suo tempo, magari tra un tweet e l’altro, nel riflettere sul recente passato del nostro Paese. Nella “versione di Prodi” potrebbe trovare un utile rimedio a due tra le più fastidiose tendenze dell’attuale congiuntura politica nazionale: il culto del presente e quello della semplificazione a tutti i costi

(da mentepolitica.it )

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