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Iran, hostess velate
e memorie coloniali

Iran, hostess velate <br> e memorie coloniali

di Anna Vanzan

(27 aprile 2016) Il riavvio delle relazioni diplomatiche e, soprattutto, economiche, tra i Paesi occidentali e la Repubblica islamica d’Iran ha comportato la riapertura da parte di molte compagnie delle rotte aeree verso Teheran e altre città iraniane. Alla generale soddisfazione per queste opportunità non partecipa l’Air France, le cui assistenti di volo si sono dichiarate contrarie ad atterrare in Iran perché lì sarebbero soggette alla legge locale che impone che tutte le donne, straniere comprese, coprano i capelli e osservino un codice d’abbigliamento che non riveli le forme del corpo e non scopra nudità. La compagnia di bandiera francese ha annunciato che sulle tratte iraniane verranno impiegate solo le lavoratrici che accetteranno il codice di vestiario richiesto dalle autorità di Teheran.

Pare quindi di assistere al trionfo della laïcité e di una battaglia vinta in quella guerra al velo che la Francia ha dichiarato almeno fin da tempi del suo dominio coloniale in Algeria. Nel Paese nordafricano, infatti, Parigi aveva costruito una campagna volta a far abbandonare alle donne locali gli abiti tradizionali, in nome della modernità. Anzi, il velo era divenuto un oggetto essenziale nella strategia coloniale, tanto che nel 1958, in un tentativo di rafforzare la stretta su una situazione che stava sfuggendo loro di mano, i francesi avevano orchestrato imponenti manifestazioni nelle piazze algerine, chiamando le donne a bruciare il velo e a invocare una “Algeria francese”.

Non solo il progetto fallì, ma questa ossessione per il velo (dipinto come strumento di oppressione della cultura locale - leggi, musulmana - nei confronti delle donne) spinse molte algerine che lo avevano abbandonato a riprenderlo, in segno di protesta contro gli invasori francesi.

Nel 1989 ci fu una ripresa della guerra francese al velo, questa volta condotta sul patrio suolo: l'affaire du voile islamique vide dapprima protagoniste tre ragazze musulmane, sospese dalla scuola pubblica perché indossavano, appunto, il velo. L’episodio provocò grandi discussioni nella società d’oltralpe, che si divise tra fautori del bando del velo nella sfera pubblica - soprattutto nelle scuole - e sostenitori della libertà di vestiario.

Ma i sondaggi dimostrarono che la stragrande maggioranza della popolazione era favorevole a proibire il velo nelle scuole, tanto che nel 2003 l’allora presidente della Repubblica Jacques Chirac decise di approntare una legge che bandisse ogni ostentazione di simboli religiosi - velo incluso - e che il Parlamento approvò l’anno successivo.

La sempre più tesa situazione internazionale, le guerre in Medio Oriente, gli attentati ‘islamisti’ in Europa e la dilagante islamofobia non hanno certo favorito un approccio più sereno da parte dei francesi (e degli occidentali in genere) nei confronti del velo.

Anzi, il velo è stato trasformato nel quasi esclusivo simbolo visivo della radicale differenza tra la cultura musulmana e quella occidentale/europea. Al bando del velo a scuola ne sono seguiti altri tesi a eliminare l’uso di abiti che impediscono l’identificazione di chi li indossa, come il niqab, che copre il volto a esclusione degli occhi.

È indubbio che il velo agisca come catalizzatore di occhiate e di riprovazione in quanto rappresenta la prova dell’aderenza a quella fede “colpevole”, agli occhi occidentali, di promuovere e fomentare violenza. Inoltre, sempre secondo la più diffusa opinione, il velo non sarebbe mai una scelta, neppure nei casi in cui le interessate affermano il contrario, ma sempre e comunque segno di coercizione, di persuasione più o meno occulta da parte dei maschi di famiglia e della comunità, di servaggio al patriarcato.

Poco importa se molte musulmane velate lamentano di essere discriminate per il loro copricapo proprio in quei Paesi europei - Francia in primis - che le accusano di aderire a una “fede contro le donne” che le emarginerebbe privandole del diritto di ‘agentività’.

Le regole del gioco democratico sono dettate in modo univoco dall’Occidente, il quale ha deciso che le scelte delle musulmane, e non solo il velo, non sono mai tali, e si arroga l’arbitrio di impedire la libertà di indossarlo a scuola o di praticare sport in tenuta ritenuta consona al concetto di modestia islamica, impedendo così, di fatto, l’accesso alle musulmane ai luoghi di istruzione, di socializzazione, di benessere fisico.

Ma, a proposito di libertà, torniamo alle assistenti di volo dell’Air France, le quali hanno ovviamente diritto a vestirsi come preferiscono, almeno fuori servizio, perché la divisa è già una coercizione. Il loro rifiuto a indossare il velo in Iran potrebbe essere letto come un’affermazione di femminismo e di rispetto per i diritti umani. Ma quelle stesse hostess, come si sentono quando atterrano a Dubai, a Abu Dhabi o a Doha? Il fatto di potere rimanere in gonna corta e a capo scoperto fa loro dimenticare che in quei luoghi molti diritti sono negati alla popolazione locale, donne incluse? E si pronunciano mai a favore dei diritti dei cittadini di quei Paesi africani stretti nella morsa di dittatori spesso tenuti in vita proprio dagli accordi con i governi occidentali, incluso quello francese?

Questa ennesima opposizione al velo sa di sterile protesta contro un simbolo trasformato da molti nell’emblema dell’incompatibilità tra occidente e mondo musulmano, mentre con immutata ipocrisia si rifiuta di vedere dove risiedono i problemi di quel mondo e, di conseguenza, pure del nostro. E questa è una trappola in cui molti, femministe incluse, rischiano di cadere.

(© 9Colonne - citare la fonte)