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direttore Paolo Pagliaro

Mettiamo in salvo
l’Unione Europea

di Cesare Merlini

Il quadro dell’Unione Europea, Ue, profondamente scosso dall’esito del referendum inglese del 23 giugno scorso, è quasi quotidianamente reso ancor più oscuro da nuovi sviluppi, fra i quali abbiamo registrato di recente l’annuncio di due altre consultazioni popolari, entrambe per la data del 2 ottobre: una in Ungheria contro l’immigrazione e contro le regole europee per organizzarla e una in Austria per la ripetizione del ballottaggio onde eleggere il Presidente della Repubblica, così riaprendo l’accesso alla carica ad una personalità dell’estrema destra xenofoba.
Ma non meno preoccupante è il contenuto dell’intervista a Wolfgang Schaeuble, apparsa recentemente sul Corriere della sera. In essa il Ministro dell’economia tedesco, dopo aver ribadito la sua sostanziale opposizione agli investimenti per la crescita, afferma che questo “non è certo il momento giusto di lavorare a una maggiore integrazione dell’eurozona”. 
Per aggiungere che, “se la Commissione non collabora” e poiché non “preoccupa la gente se il Parlamento europeo abbia o meno un ruolo decisivo”, è bene che “risolviamo noi questi problemi tra i governi, al di fuori delle istituzioni”. È la consacrazione del dominio dell’approccio intergovernativo che, forzando i Trattati in vigore, discende dal vertice della piramide geopolitica reintrodotta nel Vecchio Continente.
In tale contesto non sorprende che il dibattito sul futuro dell’integrazione europea assuma un carattere esistenziale, vagando fra un estremo, quello del “ritorno ad Altiero Spinelli” per risuscitare ipotesi di unità federale, e l’estremo opposto, quello della restituzione della piena sovranità agli stati che in numero finora crescente hanno aderito al processo integrativo, ora dato per prossimo al coma terminale. È certo poco ragionevole, e per alcuni potenzialmente controproducente, attribuire molte chance al primo scenario, e ciò non solo per la suddetta indisponibilità, o incapacità di leadership, del maggiore stato membro dell’Unione.
Quanto al secondo, l’idea di rimettersi nelle mani esclusive delle “nazioni” in sostituzione delle istituzioni comuni sembra trarre nuovo alimento non tanto da nazionalismi tradizionali, quanto dalla spinta composita, se non contraddittoria, di percezioni di declino e di impotenza, nonché di xenofobie, separatismi e paure identitarie, alimentate da tabloid e social media, senza che però si delineino schemi politici e sociali, nazionali e internazionali, alternativi.
Quel che sta succedendo nell’agone politico e nel complesso economico e finanziario della Gran Bretagna al solo delinearsi di una procedura di exit futura dall’Unione anticipa e aiuta a comprendere quello che sarebbe l’esito di un dilagante ciascun per sé. Stati nominalmente sovrani e indipendenti infatti non tornerebbero semplicemente a un’Europa libera dall’apparente guazzabuglio brussellese di corpi istituzionali, politici e giuridici, ma a una situazione di nuovo, grave rallentamento economico e di ulteriore perdita di peso geopolitico di tutti e di ciascuno, forse anche a una democrazia che rischia la morte per indigestione.
Come infatti già notato in precedenti commenti apparsi su AffarInternazionali, la crisi dell’Unione europea rientra in un più esteso e spesso non meno profondo travaglio dell’intero sistema liberal democratico. Non ne è esente la stessa nazione leader di tale sistema, come lo svolgimento delle elezioni primarie in vista della scelta del nuovo Presidente statunitense ha dimostrato. Né lo sono paesi lontani come l’Australia, o pretesi avamposti mediorientali come Israele, o sperate nuove acquisizioni come la Turchia.
Anche per questo lo stato del multilateralismo transatlantico (come dimostra il Ttip periclitante), della governance globale a influenza occidentale (come dimostra l’impasse del G20) e del controllo della sicurezza internazionale a guida americana (come dimostra il moltiplicarsi di minacce “ibride”) non è solo molto insoddisfacente, ma in via di deterioramento, così come si è sopra detto dello stato dell’integrazione europea. Fermare questa deriva generale, rovesciarla se possibile, è compito che appare spesso e scoraggiantemente al di sopra delle capacità delle attuali leadership.
Tuttavia le possibilità residue di riuscirci traggono beneficio dal riconoscimento dei vantaggi restanti degli istituti in essere, a cominciare da quelli europei, e dall’utilizzo dei margini esistenti di salvare il salvabile più che dalle ipotesi di buttare tutto alle ortiche, come certi ibridi politici di finte sicurezze passatiste e di improvvisazioni nuoviste sembrano volere, magari col supporto di scuole politologiche ammantate di Realpolitik.
Può sembrare una ricetta da vecchi, ma quei giovani che, guardando al futuro, hanno votato in maggioranza per il Remain nell’Unione europea potrebbero averci dato una lezione di saggezza.

(da affarinternazionali.it)

 

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