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Islam, come reagire
al terrorismo di prossimità

Islam, come reagire <br> al terrorismo di prossimità

di Leila El Houssi

(5 agosto 2016) In poco più di un anno e mezzo e più precisamente dal 7 gennaio 2015, giorno dell’attentato alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo, l’Europa è brutalmente entrata in nuova epoca. Sembra essersi concluso il periodo di effimera tranquillità nel quale le democrazie europee assistevano da lontano agli attentati terroristici che sconvolgevano la vita quotidiana di Kabul, Baghdad, Algeri, Beirut, Damasco, Aleppo. Il susseguirsi di attacchi nel cuore dell’Europa ha visto l’ascesa di una nuova forma di minaccia che il sociologo Khaled Fouad Allam definiva “terrorismo di prossimità”. Una minaccia che può manifestarsi in qualunque momento e che traccia una situazione estremamente complessa in cui l’inquietudine assume il ruolo di protagonista. In tal modo le società europee sembrano precipitare nella pericolosa trappola della confusione tra Islam e islamismo che inesorabilmente rimanda ai drammatici avvenimenti dell’ 11 settembre 2001.

Negli ultimi mesi l’accelerazione di eventi drammatici tra i quali l’attacco alla capitale dell’Europa Bruxelles, la strage di Nizza e il più recente sgozzamento di alcuni ostaggi tra cui un prete in una Chiesa di Saint Etienne diffonde quel senso di paura che potrebbe far piombare in un altro terrore che l’Europa ha purtroppo già conosciuto e che porta il nome di totalitarismo. L’incertezza, il timore producono in ognuno di noi una sorta di corto circuito che ci fa vacillare e ci costringe a richiedere un senso di sicurezza che non riusciamo più a percepire. In questo quadro molti politici europei legati a frange estremiste vicine alle destre pronunciano con forza nelle loro dichiarazioni termini come “sicurezza, vigilanza, lotta al terrorismo” e inveiscono contro i migranti, i rifugiati o i richiedenti asilo. In tal modo si vuole generare il consolidamento del conflitto tra gli “occidentali” e gli “altri” rimandando a quello scontro di civiltà prefigurato da Samuel Huntington nei primi anni novanta e che ha riscontrato successo all’indomani degli attentati del 2001.

In tutto questo si ripresenta puntualmente il j’accuse verso i musulmani che vivono in Europa che vengono criticati perché non prendono posizione contro coloro che sostengono di agire in nome della loro religione. A proposito di questo non posso non condividere ancora una volta il pensiero di Khaled Fouad Allam, il quale affermava che in questo frangente “il passaggio dalla colpevolezza individuale a quella collettiva sembra quasi avvenire naturalmente” .

In realtà sappiamo che molti musulmani europei si oppongono con forza al jihadismo e si battono quotidianamente per una via democratica all’Islam attraverso i social network, i giornali, le televisioni e i libri. Pensiamo ad esempio alla campagna Twitter e Facebook #Notinmyname che ha visto l’adesione di migliaia di giovani musulmani o alle dichiarazioni anti-terrorismo pronunciate da tanti Imam che guidano la preghiera in molte moschee d’Europa.

Tutto questo però potrebbe non essere sufficiente e uno scrittore di valore come Tahar Ben Jelloun ha lanciato un appello sul giornale Le Monde ripreso da Repubblica in cui afferma con forza che “non basta insorgere verbalmente, indignarsi ancora una volta e ripetere che "questo non è l'Islam". Non è più sufficiente, e sempre più spesso non siamo creduti quando diciamo che l'Islam è una religione di pace e di tolleranza. Non possiamo più salvare l'Islam - o piuttosto - se vogliamo ristabilirlo nella sua verità e nella sua storia, dimostrare che l'Islam non è sgozzare un sacerdote, allora dobbiamo scendere in massa nelle piazze e unirci attorno a uno stesso messaggio: liberiamo l'Islam dalle grinfie di Daesh.” L’appello lanciato da un intellettuale come Ben Jelloun conosciuto e stimato a livello internazionale è stato condiviso da molti.

In questo quadro se volgiamo lo sguardo all’Italia abbiamo alcune voci importanti di giovani appartenenti alle seconde generazioni che utilizzano forme di comunicazione originali come le piazze virtuali per denunciare il terrorismo di Daesh che è in primis un nemico dell’Islam.

Un esempio tra i tanti è sicuramente quello della giovane Chaimaa Fatihi, che da un post pubblicato su Facebook ha visto la nascita del volume “Non ci avrete mai” nel quale sostiene che “ chi uccide non è un vero fedele dell'Islam - una religione basata sui valori della pace e della gentilezza -, ma un efferato criminale”. Un altro esempio è Takoua Ben Mohamed la graphic journalist che attraverso il fumetto interculturale vuole “costruire un dialogo e abbattere muri che separano culture” sottolineando “l'impegno di entrambe le parti”. Esistono quindi musulmani che si oppongono a quanto accade, e tra questi, moltissimi sono giovani uomini e donne che si rifiutano di comprendere quei coetanei che sembrano subire una fascinazione dell’ideologia islamista.

Come afferma Ben Jelloun pur “appartenendo alla stessa nazione non sono fratelli” ma non possiamo non chiederci come mai, tra questi giovani, che spesso hanno abitato e condiviso gli stessi luoghi e le stesse scuole, c’è chi subisce questa fascinazione e chi no.

Non c’è dubbio che tra loro esiste una profonda differenza che si rivela nell’interpretazione dei processi. La griglia di lettura degli eventi storici, ad esempio, è profondamente diversa. Per la maggioranza dei giovani musulmani nati e /o cresciuti in Europa la lettura della storia dei paesi di origine è “consapevole”. Sono indubbiamente spinti da un’immensa curiosità nel comprendere quanto sia accaduto nei paesi dei loro avi durante la colonizzazione e nella fase post coloniale, quando i regimi governavano. Nel contempo, appartengono alla generazione dei diritti umani che hanno accompagnato nel grido di libertà e dignità i loro coetanei che manifestavano nella riva sud del Mediterraneo durante le primavere arabe e che provano indignazione nei confronti del conflitto in senso ampio. Non sono la generazione dell’omogeneità culturale, come si vorrebbe far credere, ma pur professando la loro religione, condividono quei valori di libertà e di solidarietà che li accomuna con le società secolarizzate. Sono fermi oppositori del terrore perché molti di loro hanno familiari che sono stati vittime di repressione negli anni bui dei regimi.

Chi invece subisce la fascinazione dell’ideologia islamista e decide di entrare nelle fila del terrorismo tende a ricostruire la propria fede in breve tempo immaginando di “purificarsi” e ipostatizza la storia facendo, ad esempio, degli accordi Sykes-Picot un mito negativo alla base della riscossa/vendetta islamista. Come affermava K. F. Allam “la storia è sempre suscettibile di subire il fascino della sublimazione ma così la sua verità è travolta e si passa facilmente dalla verità all’utopia. Tuttavia si sa che l’utopia può spingere all’assenza di critica e paralizzare il suo superamento”.

In questo quadro, per garantire la sicurezza a tutti dobbiamo agire anche attraverso l’approccio culturale e si rende fortemente necessario l’insegnamento della storia del Medio Oriente e del Nord Africa nelle scuole e nelle università affinché i giovani possano avere gli strumenti critici per interpretare gli eventi.

(da mentepolitica.it )

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