Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

Non è mai troppo tardi
e a volte è utile piangere
sul latte versato

Non è mai troppo tardi <br> e a volte è utile piangere <br> sul latte versato

Luisa Verdi

Ho rivisto in tv il film di Virzì “La pazza gioia” già pluripremiato.  Lo avevo già visto e apprezzato  appena uscito sul grande schermo e nel rivederlo ieri sera avevo pensato ad una visione  di piacere ma senza grandi scoperte. Invece nel ripensare e rielaborare le sensazioni e impressioni già avute la prima volta ho potuto apprezzare meglio il messaggio implicito di un film molto dolce, molto umano e molto meno favolistico di quanto si possa immaginare.

Ho ripreso da poco tempo gli studi di Psicologia, materia amata fino dalla giovinezza  più per istinto che per scelta razionale.   Ebbene l’istinto non falla e il sentire nelle  parole della protagonista   citazioni del DSM   (manuale diagnostico  condiviso da psicologi e  psichiatri di tutte le scuole) o l’elenco preciso, imparato a memoria, delle terapie farmacologiche della ragazza madre, corredate dagli orari di assunzione, è  stato illuminante: il manuale, i sedativi e ogni altro intervento non servirebbero  a niente in assenza  di un sano e rigoroso contesto terapeutico,  di  un buon rapporto, una buona empatia  o ancora una buona relazione diadica tra terapeuta e paziente e  anzi sarebbero quasi ridicoli o addirittura nocivi.

E’ questo il messaggio del film: non ci sono terapie e aiuti possibili senza affetto e amore e i terapeuti del film  lo sanno e praticano quel messaggio

I reincontri delle due amiche “matte”  con le figure parentali e con i rappresentanti  dell’altro sesso conosciuti  prima dell’insorgere della patologia mostrano senza ombra di equivoco  la povertà di quelle persone,  la loro lacuna abissale nella possibilità di amare e offrire affetto.

E invece sono le due malate che sono “possibilitate” , nonostante l’interferenza nello scambio delle  rispettive sofferenze,  a fare amicizia e a stabilire un rapporto di solidarietà e di comprensione reciproca.

La citazione di “Thelma e Luoise”  non inficia l’originalità del messaggio:  loro sono sofferenti e non è la rivalsa, sia pure giusta, che cercano o la morte, in mancanza di essa,   ma un modo per sanare le proprie ferite.

Beatrice riesce a pronunciare la parola “amore” in un contesto talmente umiliante da far risentire gli astanti ma per lei quella parola è la propria sopravvivenza.

La ragazza madre, definita pazza pericolosa, che riesce per un soffio a sfuggire all’Ospedale psichiatrico giudiario,  è in realtà una persona che non “può” distruggere  il legame profondo che la lega al proprio bambino e che lui stesso , senza saperlo e senza ricordare i dettagli, ricambia.

La ragazza può compiere un atto riparatore che nessuna buona adozione e nessuna  pena severa potrebbero compiere:  lei si tuffa di nuovo insieme con il bambino,  vanno sott’acqua, come quando lei aveva cercato  di “fuggire” da questo mondo  ma la stessa situazione diventa un  gioco, una terapia magica che sostituisce una  pulsione   di odio (contro se stessa e l’oggetto del suo amore!)  con una di amore. E stavolta sarà per sempre perché come lei dice potranno reincontrarsi.

Dunque forse  “disseppellire il cadavere” (l’orrendo rimosso!)  sepolto nell’odio e nella clandestinità  del proprio inconscio e dargli onorata e regolare sepoltura può far tornare alla vita ciò che sembrava morto  e sepolto senza  appello.

E’ questo che fanno o cercano di fare i terapeuti della “psiche” e di questo, il film, ne dà loro atto.

(© 9Colonne - citare la fonte)