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Ma Prodi che altro
avrebbe dovuto dire?

di Paolo Pombeni

Lo confessiamo subito: non si riesce a resistere alla tentazione di mettere in rilievo le stranezze argomentative (argomentative si fa per dire) che circolano in questa disastrata campagna elettorale. L’ultima riguarda le reazioni che si sono avute ad un banale intervento di Romano Prodi che, interrogato su come guardava alle forze in campo in vista delle elezioni, ha espresso la più ovvia delle considerazioni, naturalmente dal suo punto di vista: 1) sono per favorire la governabilità e nell’ambito dell’area della sinistra chi può operare in questa direzione è la coalizione che si è formata intorno al PD; 2) Liberi e Uguali non vuole dare, né è in grado di dare un contributo in questa direzione.
Che da un uomo di governo, se non vogliamo usare l’altisonante formula di statista, venisse una risposta del genere non dovrebbe meravigliare. Che altro poteva dire? Che si augurava una vittoria dei campi politici con cui non si è mai identificato (una volta si chiamava la teoria del tanto peggio, tanto meglio: non ha portato molta fortuna) o che gli andava bene vedere una situazione di ingovernabilità facendo finta che ci fosse davvero chi poteva presentarsi come guardiano di non si sa quali sacri principi?
Si sarebbe potuto cogliere che Prodi si esprimeva a pro di una coalizione e non del partito più forte in essa. Invece si è prevalentemente parlato d’altro. La cosa veramente strana è però la risposta che gli è venuta dai rappresentanti di Liberi e Uguali: ma così a Bologna dovrà votare per Casini anziché per Errani. Se uno non conoscesse la storia di questo paese potrebbe pensare che sarebbe stato costretto a scegliere un bieco figuro anziché un luminoso esempio di puro rivoluzionario. Questo è l’argomento subliminale che si offre alla pancia degli elettori meno informati, perché razionalmente nessuno si sentirebbe di sostenerlo. Casini è un politico di lungo corso che ha militato in varie formazioni, ma non risulta che si sia macchiato di chi sa quali obbrobri. Errani è un politico di altrettanto lungo corso che ha sempre militato nel PCI e suoi succedanei facendo una politica che di rivoluzionario non ha avuto nulla, anzi cercando sempre un dialogo piuttosto ampio con tutti i gruppi dirigenti dell’Emilia-Romagna.
Tuttavia il punto non è questo. La questione è più radicale e coinvolge il problema della liceità delle alleanze in politica per raggiungere alcuni fini. Una volta De Gaulle, quando gli rimproverarono il dialogo con i ribelli algerini, accusati di terrorismo, ribatté che la pace si fa con i nemici. Lo stesso vale per le alleanze in politica: si fanno allargando il proprio campo di reclutamento e dunque con coloro che prima avevano visioni diverse.
Ora che a respingere questa banale verità siano gli eredi del PCI suona quasi ridicolo. Sono tutte persone che si sono formate negli anni del compromesso storico di Berlinguer, quando il leader comunista, colpito dalla tragedia del Cile di Allende, abbandonò l’idea che la sinistra avrebbe vinto col 51% alle elezioni e teorizzò che invece si doveva trovare un’ampia intesa con quelle forze che sino a poco tempo prima erano definite “borghesi” e nemiche. Sull’onda di quella teoria ci si spinse ad un accordo con la DC sino ad allora rappresentata come la sentina di tutti i mali e di tutte le deviazioni possibili: anzi si scoprì che anche la DC aveva dei contenuti progressisti (e lo si fece anche con molta generosità nel tralasciare elementi che sarebbero stati imbarazzanti).
IL PCI e poi i suoi succedanei non hanno mai abbandonato la tesi delle “larghe intese”. La stessa scelta di Romano Prodi come leader per la campagna elettorale per la conquista del governo, Prodi definito all’epoca il “papa straniero” (sull’esempio della svolta di Wojtyla), fu inventata, tra gli altri anche da D’Alema, nella convinzione che la sinistra non poteva andare al potere proponendo un leader ex comunista. L’Ulivo tanto rimpianto e peggio ancora l’Unione sono state alleanze elettorali larghe che hanno inglobato esponenti che provenivano da tradizioni politiche che solo con molta buona volontà si potevano definire “di sinistra” nel senso che adesso tanto piace a Liberi e Uguali.
Insomma, un banale ragionamento dovrebbe portare ad esser soddisfatti se un esponente di rilievo degli avversari attraversa il ponte e si schiera con chi ha combattuto sino a poco prima: significa che, almeno in quel momento, ritiene che la soluzione ai problemi del paese non stia più là dove aveva operato un tempo. Di solito spostamenti di questo tipo vengono salutati come la prova che alla fine convergono sulle proprie posizioni anche gli avversari e ciò è benaugurante per il successo finale delle proprie proposte.
Purtroppo in questa stagione ormai senza logica a dominare è invece, un po’ dovunque in verità, l’assioma integralista per cui il mondo è dei duri e puri e gli altri sono tutti dei dannati da evitare accuratamente. Questo almeno fintanto che si devono serrare elettoralmente le proprie fila: non scommetteremmo che una volta conosciuti i risultati delle urne non tornino i più terreni desideri di consolidarsi ad ogni prezzo, anche di alleanze oggi disprezzate (e, diciamolo, i propositi di evitare – per responsabilità si capisce! - che la legislatura finisca in fretta obbligando tutti a lasciare le vituperate, ma tutto sommato comode poltrone).
(da .mentepolitica.it )

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