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Antonietta De Pace, pasionaria del profondo sud

Ritratti
Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all'Unità d'Italia. Donne protagoniste nell'economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell'attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

Antonietta De Pace, pasionaria del profondo sud

Rinchiusa in uno stanzino di un metro quadrato. Senza potersi sdraiare, lavarsi, uscire. Ore interminabili passate guardando la porta serrata. Di giorno, vicinissima, dilatata nella torrida aria estiva, la vociante vita del popolo di Napoli a farla sentire, con rabbia, ostaggio del suo oppressore. Di notte, quando stremata si ripiega in un angolo, l’improvviso aprirsi del chiavistello davanti al ghigno del commissario Campagna che la costringe a lunghi interrogatori per farle confessare di essere una sovversiva. Ma lei, Antonietta De Pace, sa che loro, la polizia borbonica, non ha prove. I due proclami di Mazzini che si portava in petto li ha appallottolati e mangiati quando, il 26 agosto 1855, ha visto i gendarmi entrare in casa di Caterina Valentino, per arrestarla. Masticando la carta, davanti ai poliziotti, ha sorriso beffarda dicendo che era una medicina. Loro sospettano che sia una delle tante affiliate della Giovine Italia. Invece lei ne è, nel Meridione, uno degli ingranaggi più importanti. Da quando il fratello di Caterina, il mazziniano Epaminonda Valentino, cognato di Antonietta, è morto in carcere dopo la repressione borbonica dei moti del ‘48, lei ha preso in mano tutta la rete cospirativa che lui aveva intessuto, da oltre un decennio, tra il Salento e Napoli. Antonietta, trasferitasi nel ‘49 dalla natìa Gallipoli a Napoli - insieme alla sorella Rosa rimasta vedova ed ai figli, il tredicenne Francesco e Laura, di otto anni - aveva subito creato un comitato segreto di donne che avevano i familiari patrioti nei carceri borbonici - Montesarchio, Santo Stefano, Procida e soprattutto il più duro, Montefusco, lo Spielberg italiano -, per riuscire a tenere i legami con loro: c’erano Antonietta Poerio, zia di Carlo, Raffaella Faucitano, moglie di Luigi Settembrini, Alina Perret, moglie dell’ufficiale Filippo Agresti. Ma Antonietta diventa il diretto tramite per l’esterno di tutti i 42 imputati politici sotto processo per i moti napoletani del 15 maggio ‘48. Su quelle barricate - erette quando si era sparsa la voce che il borbone “Re Bomba” voleva ritirare la bramata Costituzione che era stato costretto a concedere dopo la rivolta siciliana - c’era stata anche lei, travestita da uomo. A dare battaglia al suo fianco tutta la mente pensante della Giovine Italia pugliese che, solo un decennio prima, la guardava con sospetto quando il cognato Epaminonda la portava alle loro riunioni segrete. A quell’epoca l’avvocato tarantino Nicola Mignogna, i leccesi Giuseppe Libertini e Liborio Romano, i gallipolini Bonaventura, Emanuele Barba, Giuseppe Libertini, Achille dell’Antoglietta, non credevano che Antonietta, la più piccola delle quattro figlie di Gregorio De Pace - l’ex banchiere e sindaco di Gallipoli fondatore della setta carbonara “L’Utica del Salento”, morto in circostanze misteriose, forse avvelenato dal segretario – fosse decisa a sacrificarsi per la causa della libertà piuttosto che cercarsi un buon partito. Perché i mazziniani pugliesi si trovavano davanti una avvenente ragazza dai lunghi capelli neri, che lo sguardo fiero rendeva ancora più attraente, con modi eleganti che si mescolavano ad una disinvoltura spavalda che quasi li intimoriva, capace di alternare a dolci sorrisi battute di ironia fulminante. Si accorgono subito che, più delle collane di perle, lei vorrebbe una sciabola al fianco, come sospirava proprio sua madre, Luisa Rocci Girasoli, nobildonna d'origine spagnola, vedendola da bambina scalmanarsi nei giochi maschili. La morte del padre, quando lei aveva 8 anni, aveva fatto piombare la sua agiata famiglia nell’improvvisa miseria, ridotto alla pazzia la fragile madre e costretto Antonietta e le sorelle a vivere nel monastero di Gallipoli, diretto da una loro parente badessa. La più grande, Chiara, aveva finito per sposare lo zio, l’altra sorella, Rosa, solo 15enne, aveva iniziato dal 1830 una relazione clandestina con Epaminonda Valentino, che sposerà solo nel 1838, con già un figlio di 2 anni fatto nascere di nascosto. In questi anni difficili Antonietta era stata molto vicina a Rosa ed era così diventata la segretaria degli affari segreti dell’ardente cognato mazziniano, la cui madre, come anche quella di Antonietta, aveva partecipato alla Repubblica napoletana del 1799. Accanto al veemente Epaminonda Antonietta sentiva di potere combattere la sua battaglia contro le ingiustizie sociali la cui necessità si era rivelata in lei a 13 anni, quando aveva conosciuto la miseria dei contadini di Ugento, diventando amica di un bambino del popolo, Vincenzo Veltrò. Lui è malato di malaria, la malattia che ha ucciso la madre e che, per colpa delle paludi infette, miete vittime di continuo, insieme al tifo ed alla tubercolosi, alimentati dalla fame, dalla mancanza di acqua potabile, dall’igiene disastrosa che opprimono il popolo. Antonietta cerca di aiutare il bambino, orfano anche di padre, pescatore inghiottito da una tempesta. E la stessa cosa fa con Tonina, una donna ridotta a vivere come una bestia. Il marito la bastona, la costringe a vivere in un tugurio fuori di casa, le dà da mangiare gli avanzi, che però lei non riesce a mangiare perché ha perso tutti i denti. Antonietta le porta dei vestiti ed anche un temperino per potersi tagliare il cibo e riuscire così ad ingoiarlo. Ma, con quel temperino, la ferina Tonina, durante l’ennesimo litigio, uccide il marito e finisce i suoi giorni in carcere. Antonietta vive da vicino la disperazione di questi derelitti, inizia a studiare testi di legge, matura una coscienza sociale che ora, nelle riunioni segrete di Epaminonda, si innesta sulla sua tempra rivoluzionaria, della quale darà quindi prova, a 30 anni, sulle barricate di Napoli, accanto ai compagni salentini, che negli anni hanno imparato a conoscere la vera natura, indomita e battagliera, che si cela dietro il dolce volto della gran dama. Malgrado abbia visto come l’artiglieria borbonica abbia avuto la meglio in solo un’ora sui rivoltosi delle barricate di via Toledo, Antonietta non si mostrerà affatto abbattuta. E subito tornerà in Puglia, comincerà per sollevare la rivolta che scoppierà poche settimane in terra d’Otranto, organizzando in prima persona il circolo patriottico di Lecce con il cognato Epaminonda, Bonaventura ed il duca Sigismondo Castromediano. Ma anche qui calerà presto il feroce pugno della repressione. Solo un anno dopo il cognato morirà, a 38 anni, tra le braccia di Castromediano, in una fetida cella del carcere leccese dell'Udienza, invocando aria, soffocato da una crisi cardiaca.

Anche in questo frangente Antonietta, sfuggita all’ondata di arresti nel Salento, non si dà per vinta. Fingendo relazioni sentimentali e familiari, riesce ad entrare nel carcere di Procida per ricevere, insieme alla biancheria di detenuti conniventi, preziose informazioni dai compagni incarcerati. Poi, grazie all’aiuto di un cameriere sulle navi della tratta Napoli-Marsiglia, invia le sue relazioni a Nicotera, rifugiato a Genova, che poi le trasmette agli esuli di Lugano e che quindi arrivano direttamente nelle mani di Mazzini, a Londra. Antonietta scrive messaggi cifrati. Gli stessi che la polizia borbonica, all’epoca del suo arresto, nel torrido agosto del 1855, trova nella sua cella nel convento di San Paolo, dove figura come insospettabile corista. Ha convinto la superiora, con i suoi modi intraprendenti, a farla uscire alla ricerca di finanziatori per la costruzione dei bagni per le suore. Ma, ormai da un anno, per prudenza, ha smesso di andare a casa della sorella Rosa e raggiunge invece la casa di Caterina, sorella di Epaminonda, dalla quale riesce a mobilitare il suo gruppo femminile e a tenere i contatti tra il Comitato segreto napoletano, guidato dall’amico Nicola Mignogna, e tutti i movimenti politici meridionali. È direttamente con lei che Carlo Pisacane, reduce dalle barricate romane, prende contatto mentre progetta la tragica spedizione di Sapri, sognando di sollevare in una unica ondata le correnti di insurrezione del Meridione.

Ora, rinchiusa, nella celletta del commissariato di polizia del complesso del Carminiello al Mercato, nel cuore di Napoli (del quale una strada laterale le è oggi intitolata), si susseguono in lei ricordi e sensazioni di anni di speranze e lotte. Risente il fragore della batteria a cavallo che irrompe sulle barricate, le selvagge urla dei rivoltosi che respingono l'assalto e poi i micidiali colpi di artiglieria del colonnello fiammingo Jieniens che fanno strage del popolo insorto. Il sangue delle vittime (saranno almeno 2mila), i palazzi che intorno si incendiano, la fuga, gli arresti (che saranno oltre 500), rivivono nella sua mente e le danno la forza per resistere, per 15 giorni, nell’allucinante stanzino. Viene quindi rinchiusa nel carcere di S. Maria ad Agnone. Ne esce 46 volte per deporre al processo che la vede imputata per cospirazione repubblicana. Un processo che fa epoca. Per il collegio di difesa composto dai maggiori avvocati napoletani - Castriota, Longo, Lauria, Pessina -, per la presenza in qualità di osservatori degli ambasciatori inglese, francese e sabaudo, per la stampa sabauda - ma anche il Times - schierati a sua difesa. Ma soprattutto per le risposte sarcastiche che Antonietta - bella, coraggiosa, aristocratica - lancia dal banco degli imputati e che la fecero presto diventare la beniamina del popolo napoletano, che rumoreggiava in sua difesa durante le udienze. Quando l’accusa chiese la condanna a morte il popolo gridò all’infamia, le potenze estere ritirarono i loro ambasciatori per protesta, lasciando a Napoli solo agenti consolari. Tre giurati su sei si pronunciarono contro la condanna e Antonietta venne liberata, dopo un anno e mezzo di prigionia, e posta sotto la tutela del cugino Gennaro Rossi, barone di Capranica, nel suo palazzo di Napoli. Ma, malgrado la sorveglianza della polizia, lei fin dal 1857 riattiva il suo gruppo femminile, mettendolo in diretto collegamento con il comitato mazziniano genovese. Dall’anno dopo ne diventa segretario un suo vicino di casa, Beniamino Marciano, un giovane liberale, ex prete. Nel 1859 lascia la casa del cugino e si fa più ardita. Ormai conosce Napoli palmo per palmo. Quando si sente pedinata si rifugia nelle chiese delle quali conosce le uscite posteriori e riesce ogni volta a far perdere le sue tracce ai mastini borbonici. La spedizione dei Mille ormai si avvicina. Insieme a Beniamino si lancia anima e corpo nella raccolta di fondi ed adesioni. E i due scoprono di amarsi. Nell’attesa dell’arrivo di Garibaldi, i due amanti attivano a Salerno un comitato d'azione, in casa dell'avvocato Nicola Ferretti. Qui Antonietta, il 6 settembre 1860, stringe la mano al generalissimo. Lui la ringrazia con queste parole: “Sono felice di essere venuto a spezzare le catene ad un popolo generoso, il cui governo non aveva rispetto nemmeno delle donne”. E riceve anche la genuflessione di Liborio Romano, intanto diventato ministro dell’Interno borbonico che aveva segretamente preso contatti con Cavour, all’insaputa dell’inetto re Francesco II. Il giorno dopo, quando Garibaldi entra trionfalmente a Napoli, insieme ai suoi 28 ufficiali, ha al suo fianco solo due donne: una è la moglie di Ferretti e l’altra Antonietta, vestita con i colori della bandiera italiana. L’eroe dei due mondi, per i sacrifici patiti, le decreta la concessione di una pensione e le affida la guida dell'ospedale del Gesù, mentre la direzione di tutti gli ospedali la mette in mano all’amica inglese Jessie White Mario, l’infermiera dei garibaldini. L’anno dopo, a Torino, per i funerali di Cavour, Antonietta viene festeggiata dai patrioti meridionali seduti ora nel Parlamento italiano. Nel 1862 Garibaldi tornerà a ringraziare, lei e le sue compagne, per la loro raccolta di fondi per la terza guerra di indipendenza: “Degno del vostro cuore è il generoso sussidio mandato ai miei compagni. Voi donne, interpreti della divinità presso l'uomo, molto già avete fatto per l'Italia: molto ancora dovete operare per l'avvenire. Molto confido nelle donne di Napoli”. In quella guerra, nell’estate 1866, a 30 anni, nella battaglia di Bezzecca, morirà, colpito al petto, il figlio di Epaminonda, Francesco, amato da Antonietta come un figlio. Dopo questo dolore seguiranno anni di ripiegamento interiore. Ma presto lo spirito rivoluzionario torna ad ardere in lei. Dopo la breccia di Porta Pia Antonietta fonda a Napoli un Comitato di donne per l’annessione di Roma al regno d'Italia: insieme con lei anche una grande reduce della battaglia della Repubblica romana, Enrichetta Di Lorenzo, compagna dello sfortunato Pisacane. La polizia pontificia la arresta in treno mentre viaggia alla volta di Firenze dove porta al governo un piano segreto di Nicotera di attacco nell'agro romano. Adocchiati gli agenti nello scompartimento fa in tempo a sbarazzarsi dei fogli compromettenti. Per le proteste sabaude viene subito liberata. Paolo Emilio Imbriani, intanto eletto sindaco di Napoli, nella sua riforma dell’istruzione, la vuole ispettrice scolastica. E negli anni successivi, con Beniamino intanto diventato assessore all’Istruzione a Napoli, si dedicherà in particolare a sostenere l’educazione delle donne, via primaria per la loro emancipazione. Ai piccoli scolari amava dire: “Noi abbiamo fatto l'Italia, voi dovete conservarla, lavorando a farla prospera e grande". Questi ed altri episodi sulla vita di Antonietta li ha tramandati lo stesso Beniamino in un diario che rimarrà però dimenticato per anni in un cassetto segreto di un mobile antico, ereditato da una nipote di Antonietta. A sua volta una nipote di quest’ultima, Emilia Bernardini, insegnante liceale leccese, riordinando questo mobile, pochi anni fa, ritroverà l’ingiallito quadernetto. In esso l’innamorato marito narra di come Antonietta le muore tra le braccia, nella villa estiva di Portici, a 76 anni, uccisa da una forte bronchite. Il giorno prima l’anziana battagliera ha l’improvviso desiderio di bere dello champagne in un calice. L’ebbrezza la rende euforica, ricorda le battaglie del passato. Lui la rivide come la indomita pasionaria della quale si era innamorato, 36 anni prima. E come nei primi anni del loro amore lui le chiede: “Antonietta, mi ami?". Lei gli sorride e gli sussurra: "E me lo chiedi?". Poi tace. La mattina del giorno dopo, il 4 aprile 1893, spira tra le braccia del marito che nel suo diario ne lascia questo ritratto: “Svelta, intelligente, ardita e prudente insieme, dimenticò il mondo femminile, e tutta l’anima versò nel proposito di concorrere a liberare la patria dalla servitù”. Nel museo civico di Gallipoli, che ha dedicato ad Antonietta una strada, è conservato il suo ritratto giovanile, dipinto a Napoli, quello del nipote Francesco e dello zio Antonio, astronomo, che aveva avviato Antonietta agli studi liberali. Nel 1959 le è stato intitolato l'Istituto professionale femminile di Lecce. Del diario di Beniamino, scoperto per caso da Emilia Bernardini, è nato il libro “Antonietta e i Borboni”, edito nel 1998 ed oggi alla sua terza edizione.  (Marina Greco)

 

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