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Lina Wertmüller, regista metallurgica di sette bellezze

Ritratti
Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all'Unità d'Italia. Donne protagoniste nell'economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell'attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

Lina Wertmüller, regista metallurgica di sette bellezze

La cornice che ha scelto come definizione di sé stessa, va cercata nei famigerati occhiali bianchi, dietro ai quali Lina Wertmüller sta vivendo i suoi otto decenni di donna straordinariamente eclettica nel variopinto mondo dell’audiovisivo nostrano. Era il 1963 quando per la prima volta mise piede sul set di “Otto e mezzo”. Il debutto a fianco di Federico Fellini fu in doppia veste, come aiuto regia e come co-sceneggiatrice. Aveva trentacinque anni, età in cui oggi si comincia a pensare di uscire da casa di mamma e papà. Nello stesso anno, tanto per prendere certi esordi come trampolini, idea, sceneggia, dirige e doppia in otto personaggi, il suo primo film, che è “I basilischi”. L’eclettismo spesso è il rifugio dei mediocri, che le tentano tutte nella speranza di azzeccarne una, cosa che la Wertmüller confuta sempre nei fatti, bastasse il fatto che oggi è Commissario Straordinario del Centro Sperimentale di Cinematografia. Eppure iniziò dall’abc, con un genere che viene da ridere a ricordarlo: coi burattini, la prima teatralizzazione che i bambini dell’era pre-televisiva conoscevano. Poi il teatro vero, poi la radio, poi la tv, poi il cinema. Da “Canzonissima” a “Mimì metallurgico ferito nell’onore”. Da “Gianburrasca” a “Film d’amore e d’anarchia, ovvero: stamattina in Via dei Fiori nella nota casa di tolleranza”. Due cose sono state tipiche nel lavoro della regista romana, una è stata sicuramente l’individuazione della coppia Mariangela Melato – Giancarlo Giannini, che rappresenterà di lì in poi le dinamiche dell’italianità per antonomasia, e la seconda la lunghezza dei suoi titoli, puro gioco linguistico, una ridondanza metalinguistica (Film d’amore e d’anarchia, ovvero…) con il fine sdrammatizzante, per abbassare di tono questioni sempre toccate con troppa sacralità, come l’amore, come l’anarchia. E la “sacralità” non permette conoscenza mentre la “ferita” dell’onore di Mimì metallurgico, sì. Mettici pure che con “Pasqualino Settebellezze” è la prima donna che sbarcata nel mercato americano, ottiene per questo film quattro nomination all’Oscar. E poi ci sono i temi sociali, che sono il rovescio di quelli politici, vedi per esempio l’attualizzazione del conflitto di classe messa in scena in “Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e di politica”: un operaio di rifondazione comunista in cassa integrazione contro una parrucchiera leghista. Se oggi avesse in mente di farne un altro su questa scia, vedremmo “Un operaio di Mirafiori militante della Fiom nel giorno del referendum, invaghito di Lapo Elkann (e ricambiato)”, e sarebbe un gran film, ma ci vorrebbe la sua mano, la mano unica della Wertmüller, ed il suo coraggio, per fare un film così, che non se ne fanno più. Ora si può dire che sia una regista come si dice “impegnata”, e che ormai l’impegno non ha più la stessa attrattiva dei decenni scorsi. Lo avrà pensato anche Lina quando ha diretto “La storia di Belle Stai” con Elsa Martinelli: un western.

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