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Le poetesse / 1 - L’Arcadia e le “Corinne” d’Italia

Ritratti
Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all'Unità d'Italia. Donne protagoniste nell'economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell'attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

Le poetesse / 1 - L’Arcadia e le “Corinne” d’Italia

Un mito vivente che ne ritrae altre due. Quando Angelica Kauffmann mette sulla tela fattezze e anima di Fortunata Fantastici e Teresa Bandettini lei è la caposcuola dell’arte romana di fine ‘700. Loro, le sue “modelle”, sono le maggiori poetesse improvvisatrici dell’Arcadia - Fortunata Fantastici, alias Temira Parraside  e Teresa Bandettini, alias Amarilli Etrusca -, entrambe toscane, le prime donne letterate la cui erudizione è diventata spettacolo di gesti e parole, in quello che Metastasio chiamava l’“inutile e meraviglioso mestiere”, alchimia di potenza creativa e abilità oratoria, che trasforma il verseggiatore dei classici in un aedo rapito da furore poetico. Entrambe vengono celebrate con delle odi da un ammirato Vincenzo Monti. Fortunata Fantastici è stata, nel 1782, anche confidente di un suo giovanile amore. “Mia dolce amica, rendetemi giustizia presso la mia amante, informatemi dei suoi sentimenti, inspiratele le vostre virtù oltre tutte l'altre che del proprio fondo possiede, ed io vi sarò debitore della mia felicità” l’ha supplicata il futuro poeta di Napoleone perché interceda presso la bella conoscente Carlotta Steward. Fortunata lo fa, ma senza successo e Monti finisce per sospirare del volto amato con l'ode “Alta è la notte” (dalla quale Leopardi, che pure criticava il classicista poeta, trarrà ispirazione per il celeberrimo verso delle “vaghe stelle”). A Teresa Bandettini, invece, proprio nell’anno in cui Kauffmann la ritrae, nel 1794, un Monti più maturo dedica dei versi ancor più celebrativi:Auspice un tanto Dio, sciogli tranquillo Ninfa divina il canto, e l’alme scuoti ai severi difficili nipoti di Curio e Camillo”, “teco vien la pieta, teco il diletto, teco eleganza ne’ bei modi ardita”. Il poeta ha poi modo di ascoltarla, a Roma dove, per otto volte, improvvisa a richiesta sullo stesso argomento e sempre con metro e forma diversi. Dopo l’esibizione, non riesce a dormire e si sfoga scrivendo, di notte: “Quali in me si adropar magici inganni? Chi tal potere sul canto mio si arroga? Donna, il cui carme gli animi soggioga, rimar mi fa, benché tal rime io danni: ma immaginoso poetar robusto, pregno di affetti tanto odo da lei scaturirne improvviso e in venusto, che or di splendida palma i’ mei terrei pe’ suoi versi impensati andarne onusto, più che mai speri da’ pensati miei”. Eppure il talento di Fortunata e Teresa - ed in un certo senso anche della cosmopolita Angelica, tra i fondatori della Royal Academy di Londra, adorata da Goethe, eletta membro onorario dell'Accademia di belle arti da Tiepolo e contesa per i suoi ritratti dai potenti d'Europa -  finirà nel cono d’ombra della produzione artistica “maggiore”, ossia quella maschile. Il loro nome, se ricordato, destinato a rimanere rappresentativo solo della produzione letteraria “minore” - per quanto ricchissima - delle donne cui il secolo dei Lumi per primo riconosce il diritto allo studio e le permette di tirare fuori dai cassetti i loro componimenti per declamarli in pubblico e offrirli alle prime stampe.

A dare loro la necessaria ribalta mondana la nascita dei primi salotti tenuti da comunicative nobildonne - nuove “corti” in cui il potere è quello culturale dato dalla presenza di eruditi, scienziati ed artisti - e l’accesso permesso alle donne nelle decine di “colonie” che nell’arco del ‘700 faranno dell’Arcadia (l’accademia fondata a fine ‘600 dall’entourage di letterati romani della trasgressiva regina Cristina di Svezia), la prima “repubblica” nella divisa Italia: ad unire i suoi “cittadini” il comune intento di stillare dal culto dei classici l’antidoto per liberare le arti dalla boria del barocco e dalla ampollose metafore. “Esterminare il cattivo gusto; e procurare che più non avesse a risorgere, perseguitandolo continuamente ovunque si annidasse, o nascondesse, e in fino nelle castella e nelle ville più inote e impensate” il guerresco e poco bucolico “manifesto” del fondatore dell’Arcadia, il marchigiano Giovanni Maria Crescimbeni cui pure l’altro fondatore, il calabrese Gian Vincenzo Gravina, sbatterà la porta in faccia per fare una accademia di fronda quando il programma iniziale della ricerca di un nuovo umanesimo si annacquerà in quelle “pastorellerie” d’evasione che, graditi ai gesuiti per i vaniloqui cui si dedicano così gli intellettuali, faranno rifiutare a Metastasio gli allori arcadici, ispirare le burle di Goldoni (seppure arcade lui stesso, ma per calcolo) e faranno parlare a Benedetto Croce di “pseudopoesia”. Ma, nell’astratta Arcadia che dava patria ai letterati travestiti da pastori (e pastorelle), tutti riuniti sotto la siringa del dio Pan, il giocare in versi su temi galanti, satirici, scientifici o celebrativi permise comunque la nascita della prima élite femminile intellettuale, seppure con un misogino regolamento che esigeva dalle donne la regola della “nobiltà dei costumi”, l’età minima di 24 anni ed una generale pratica poetica, laddove agli uomini era richiesta la patente di “erudito”. Furono 450 le “pastorelle” che per tutto il ‘700 popolarono gli idealizzati boschi virgiliani ed essenzialmente nobildonne sposate e con la disponibilità di un salotto letterario. I più famosi, a Roma, furono quelli di Elettra Citeria (la contessa Prudenza Gabrielli Capizucchi, nipote e cognata di cardinali, prima donna, a 41 anni, nel 1695, a cinque anni dalla fondazione dell’accademia, ad entrare nell'Arcadia), di Aglauro Cidonia, la bellissima Faustina Maratti, figlia del ricco pittore barocco Carlo Maratti che, considerata una eroina dopo essere sfuggita al rapimento da parte del duca Duca Sforza Cesarini, nel 1704, a 25 anni, diventa “pastorella”, sposa l’arcade Giambattista Felice Zappi e anima un celebre salotto ad Albano, sui castelli romani, che vede passare Haendel e Scarlatti. E si ricordano ancora i cenacoli di Semira Epirense (la marchesa Margherita Sparapani Gentili Boccapadule, che il suo amamte Alessandro Verri descrive, nel 1767, “la sola europea di Roma"). E altrove furono celebri quello fiorentino di Ipsinoe Cidonia (Teresa Carniani Malvezzi, che nel 1826 accolse Leopardi), quello napoletano di Lucinda Coritesia (la principessa Aurora Sanseverini Gaetani, protettrice di Scarlatti), quello ferrarese di Amarilli Tritonide (la marchesa Matilde Bentivoglio Calcagnini, “dama di virtù e morali e scientifiche ornatissima”). E, se non tutte le “pastorelle” avevano reali meriti poetici, (come d’altronde molti “pastori”) e tante sono rimaste solo dei nomi  (Getilde Faresia, Almiride Ecalia, Nosside Ecalia… salvati da un database nato in Svizzera: www.rose.uzh.ch/crivelli/arcadia) - molte ricevettero il dovuto onore. Anche se solo in vita. Se Angelica Kauffman (che, anche se “pastorella” non era, è considerata la massima esponente dei principi dell’arcadia filosofica), dovrà passare il titolo acquisito di maggiore esponente del classicismo all’amico Antonio Canova (che farà da “regista” al suo funerale, facendo sfilare in parata le sue opere, come accadde solo per Raffaello), le sue amiche poetesse Fortunata Fantastici e Teresa Bandettini, saranno praticamente dimenticate dai posteri. A differenza di Monti e di Vittorio Alfieri, altro loro grande estimatore, pur avendo poco da invidiare al maggiore poeta tragico del ‘700. Del loro poetare puro e aggraziato rimangono le loro poche composizioni date alle stampe, che non rendono onore alle loro estemporanee improvvisazioni, che non venivano trascritte. Suona beffardo il passo della dedica che Fortunata invia ad Angelica per ringraziarla del ritratto: “I nostri nomi, o mia diletta, andranno, se a te son cara, anche all'età future. E forse fia che un giorno invidia desti l'udir che te cantai, che me pingesti”.

La livornese Fortunata e la lucchese Teresa, entrambe talenti precoci delle lettere, sacerdotesse dell’improvvisazione colta, sono ritratte da Angelica Kaufmann - la prima nel 1792, la seconda nel 1794,  - come delle muse. Ed esattamente con lo stesso abito: una tunica bianca scollata e bordata d’oro, una stola di colore azzurro - identica a quella della sibilla cumana di Michelangelo - un rotolo di pergamena al fianco, la corona d’alloro, entrambe con un braccio alzato. Ma Fortunata è seduta, Teresa in piedi. La prima ha 37 anni, uno sguardo dolce, i capelli chiusi da un turbante. Già dai 15 anni è in Arcadia come Temira Parraside. A 20 anni lo scrittore veneziano Antonio Piazza scrive di lei che “sopra qualunque soggetto e in tutti i metri della poesia felicemente improvvisa, sommo onore arrecando alla patria sua e al suo sesso. Un maturo sapere in freschezza d’età, una vereconda umiltà accoppiata alla solidità del merito, una gentilezza brillante che corona le doti dell’animo suo la rendono una delle più stimabili donne de’ nostri tempi. Suona eccellentemente il gravecembalo, canta bene, intende diverse lingue, sa imitare la pronunzia di molti dialetti ed è ripiena di quel vero spirito che la rende la delizia delle conversazioni. Bastò che io la pregassi di farmi udire qualche ottava all’improvviso perch’ella tosto mi favorisse. Le diedi il soggetto di Priamo e Tisbe. Cantò con una dolcezza da far arrestare un fiume, da far piangere un marmo. Che eloquenza! che rapidità! che purezza di stile! Quanti poeti di grido, stemperandosi il capo nella solitudine del loro scrittoio, non arrivano a comporre una di quelle ottave! Successe da lì a pochi giorni che un principe bramoso di udirla fece in modo ch’ella intervenisse ad un’accademia, dove gareggiar dovevano vicendevolmente la musica e la poesia. Li poeti che improvvisarono avevano del merito, ma al paragone della inimitabile livornese, parevano tanti corvi che gracchiando disputassero la palma ad un melodico cigno”. Poi, il matrimonio con un orefice fiorentino, sette figli in dieci anni, cinque morti da piccoli, ma la passione per la poesia restata inesauribile. Nel 1785 è la prima donna ad entrare nella Reale Accademia di Mantova e le sue esibizioni sono richieste a gran voce fuori della Toscana. Il grande talento, unito al mite carattere, la rende presto strale di colleghi ben più scaltri, come il romano Francesco Gianni (1750-1822), star maschile delle improvvisazioni, con cui pure si esibisce, come anche con la collega fiorentina Lucrezia Mazzei Laudi, Argone Duliohiense. E quando, nel 1794, a Firenze, incontra per la prima volta in una esibizione Teresa Bandettini, neo-eletta Amarilli Etrusca, astro nascente che presto Napoleone in persona chiederà di poter ascoltare, non prova affatto invidia. Due anni prima Teresa ha perso l’unica figlia. Un dolore che l’accomuna quindi a Teresa ma anche ad un’altra famosa arcade, Eleonora de Fonseca Pimentel (1752-1799), Altidora Esperetusa, che nell’anno in cui verrà impiccata con gli altri giacobini della rivoluzione napoletana stampava degli strazianti sonetti per la morte dell’unico figlio: “Figlio, tu regni in Cielo, io qui men resto miseria, afflitta, e di te orba e priva; ma se tu regni, il mio gioire è questo, tua vita è spenta e la mia speme è viva”. Ed anche una delle prime “pastorelle”, Faustina Maratti, piange in versi la morte, nel 1709, del primogenito Rinaldo, di 2 anni: “Il duol tal del mio pianto al cor fa stagno, che spesso al tuo bel volto io m’avvicino, e ne pur d’una lagrima lo bagno”, “piango solo la morta mia speranza di qua vederti, e tanto è il desir mio, che dolce, e bella mi parrebbe morte”, “venga pur morte, e rompa il corso agli anni; amara è sì, ma sempre fia men forte; che la memoria de’ sofferti danni”.

Ma, nel caso della passionale Teresa, la poesia non pacifica e diventa invettiva contro la morte che le ha strappato la tenerezza della sua bambina: “La mia speme seccasti in erba”, “o Sovrana terribile, a cui tutto servir dee ciò che spira!”, “tu rese hai di ghiaccio le tenere sue membra, e bujo eterno coprì sua fresc’aurora, talché da ognun s’ignora, tranne me sola, il colpo, che non vale”, “madre me festi: io benedii l’immensa grandezza tua, che mi largì un tal nome. Or mel togli, ed oh come la mia debil natura ribelli affetti desta in me!”. Forse Fortunata ha letto questi versi, lei che ha dimostrato grande attenzione verso le letterate del suo tempo, come dimostra la sua corrispondenza. Per il suo debutto letterario, a 30 anni, l’amica Costanza Moscheni (1786-1831), alias Dorilla Peneja, le dedica un'anacreontica: "Temira, onor d'Etruria, in te lodo le vezzose immagini”. Quando una malattia rischia di ucciderle la figlia 17enne, Isabella, nel 1797, unica superstite della sua figliolanza insieme a Massimina (che sarà poi una nota poetessa romantica), confessa all’amica torinese Diodata Saluzzo, allora l’esordiente Glaucilla Eurotea che traghetterà l’Arcadia nel Romanticismo: “Non ho più potuto né leggere né scrivere né improvvisare, ed è per ciò che ai suoi ben ragionati versi e per me troppo lusinghieri, rispondo con prosa sconnessa d’idee, che manifesta ancora il mio turbamento”.  E’ proprio in quel 1794, anno dell’incontro tra Fortunata e Teresa, che quest’ultima viene ritratta da Angelica Kauffmann. Ha 31 anni. E’ l’anno del suo trionfo:  Lucca le ha dedicato un busto all'Accademia degli Oscuri, la vuole conoscere la fiorentina Irene Parenti Duclos, Lincasta Ericinia, la copiatrice di dipinti antichi più famosa del suo tempo. E lo stesso anno all'adunanza dell’Arcadia, a Roma, conosce la 67enne pistoiese Maria Maddalena Morelli, che ispirò a Madame de Stael il romanzo “Corinna ovvero l’Italia” del 1807, da cui nacque la generica definizione di “Corinna” per ogni donna italiana che declamasse in pubblico. Una figura controversa quella di questa figlia di un violinista che 18 anni prima, in Campidoglio, era stata la prima donna “poetessa laureata” e la prima pastorella acclamata - come Corilla Olimpica - per prestigio letterario. Prima di lei, infatti, le acclamazioni delle donne erano avvenute infatti solo per ragioni politiche: la regina esule di Polonia Maria Casimira Sobieska (che a inizio ‘700 tentò la stessa strategia perseguita anni prima, sempre a Roma, da Cristina di Svezia: creare una corte di artisti, cardinali e diplomatici per conservare il suo potere politico), Ricciarda Gonzaga Cybo (Olinda Anoneia), duchessa di Massa, Giacinta Orsini Ruspoli (Cassandra Corinea), nipote del papa regnante Benedetto XIII. E ancora Maria Antonia Walburga di Baviera, la musicofila figlia dell’imperatore Carlo VII, che si firmava Etpa, Ermelinda Talea Pastorella Arcade. E ancora sua cognata Violante di Baviera (la governatrice di Siena cui si devono le regole attuali del Palio, promotrice di spettacoli femminili nella agonizzante corte medicea ed attrice lei stessa) che, vedova di Ferdinando de' Medici, dal 1725 apre il suo palazzo a Roma alle feste degli arcadi (consegnando la tradizione del nome di Palazzo Madama all’attuale sede del Senato). Violante fu peraltro mecenate lei stessa delle “pastorelle” di terra toscana, come già lo era stata la nonna del marito defunto, la granduchessa Vittoria Della Rovere, ultima discendente dei duchi di Urbino, fondatrice a Siena dell’accademia delle Assicurate. Tra le protette di entrambe figura, ad esempio, Maria Selvaggia Borghini, Filotima Innia, che nel 1697 dedica a Violante una sua opera invocandola protettrice delle donne letterate, colei che “farà fronte alle censure degli Aristarchi soliti ad avvilire il sesso imbelle”. Un’altra pupilla di Violante fu anche Maria Domenica Mazzetti, una contadina analfabeta detta Menichina, che, educata a corte per volere della sua mecenate, viene accolta in Arcadia nel 1725 come Flora e arriva a tener testa a Bernardino Perfetti, l’erudito senese Alauro Euroteo che improvvisava in ottave, la forma metrica più complessa in poesia, ammirato da Goldoni (“era Petrarca, Milton, Rousseaux. Era Pindaro in persona”). Perfetti, anche lui protetto da Violante, nel 1725 era stato l’unico uomo, dopo Petrarca, ad essere incoronato poeta laureato e romano ad honorem in Campidoglio. E c’è anche Flora in Campidoglio quando, il 31 agosto 1766, lo stesso onore - e per la prima volta ad una donna - tocca alla 33enne Corilla Olimpica. Papa Pio VI le poggia in capo la corona d’alloro. “In quel mattino si doveva incoronare in Campidoglio la donna più celebre d’Italia, Corinna, poetessa scrittrice, improvvisatrice, una delle più belle donne di Roma” si legge nel romanzo della baronessa esule De Stael, ispirato come detto alla figura di Corilla. In realtà l’incoronazione avvenne di notte per rendere meno chiassose le proteste. Che però non mancarono tanto che l’incoronata dovette lasciare Roma per Firenze, dove apre un suo salotto culturale, e regala la corona alla chiesa della Madonna dell’Umiltà a Pistoia, che tuttora la conserva. Se l’Arcadia la osannava per la “passione incendiata dell’oratoria” e la “gestualità da teatrante della poesia”, i gesuiti -  nemici di Pio VI - la osteggiavano e lo stesso facevano i salotti romani i quali sostenevano che la Morelli era una mediocre poetessa riuscita a salire così in alto grazie ad amanti potenti: don Luigi Gonzaga, principe di Castiglione ma soprattutto il granduca di Toscana Pietro Leopoldo, fratello di Maria Antonietta. E lo stesso credeva anche il popolo di Roma visto che la statua parlante di Pasquino nei giorni successivi all’incoronazione in Campidoglio venne sommersa di invettive. La più bruciante: “Ordina e vuole Monsignor Maffei, che se passa Corilla coll' alloro, nessun le tiri bucce o pomidoro, sotto la pena di bajocchi sei”.

Ciò non toglie che Maria Maddalena Morelli è stata la prima improvvisatrice di professione, avventuriera e primadonna, antesignana delle femme fatale dei secoli successivi. Un ruolo che certo le riconosce la 31enne Teresa Bandettini quando la incontra, ormai anziana, in quel 1794. D’Altronde la stessa Teresa ha un passato da “teatrante”. Da bambina è stata costretta a fare la ballerina per portare soldi in casa ma - a solo 7 anni - leggeva di nascosto Metastasio, Goldoni, Petrarca, Ariosto, Tasso, Dante e scriveva la notte dei versi servendosi di uno stecco (la madre  le aveva proibito carta e penna quando si era accorta della sua passione “inutile”). Un’amica della scuola di ballo le regala l’occorrente per scrivere. E quando un padre agostiniano si accorge del talento della bambina, paga la madre per poterla istruire. Pur continuando a fare la ballerina, Teresa studia il latino e a 16 anni è già capace di tradurre in terzine Ovidio e Virgilio. Alla danza inizia ad alternare l’improvvisazione di versi e il pubblico la chiama la “ballerina letterata”. E, a 23 anni, nel 1786, è già acclamata l’“Improvvisatrice commossa”, per il trasporto con cui declama. E’ tale la sua fama che il pittore Gaspare Landi, uno dei maggiori esponenti del neoclassicismo, la ritrae ancora nelle vesti di musa e il principato di Modena le versa un vitalizio. Ormai ultrasettantenne, nel 1835, il granduca toscano Carlo Ludovico di Borbone eredita dalla madre Maria Luisa la passione per la poesia di Teresa e fa stampare a sue spese un volume celebrativo in cui si legge: “La ammirarono quasi miracol nuovo ed a vicenda la corteggiarono quasi decima musa i due Pindemonti, il Parini” e “altri moltissimi lumi del sapere italiano”.  Tra i versi pubblicati quelli della lite di Apollo e di Pan: “Ecco che Pan la cerea accorda tibia molle, assiso in vetta al colle ch’ornan le piante e i fior. Sotto di lui discorre un rivolo d’argento, che sembra a bel concento fermare il mobil piè. Gonfia le gote a tempo, move le dita leve, il fiato che riceve accoglie il foro in sen. E l’aura dolce armonica, che al colle in vetta siede, l’aura che fugge e riede, gravia è di quel suon”. Teresa morirà due anni dopo nella sua Lucca. Un cronista che la incontra poco tempo prima annota: “ Non ha cosa in questo mondo più dolorosa quanto il vedere un ingegno peregrino spegnersi a poco a poco e venir meno e più ancora il vederlo già spento dopo averlo conosciuto nel suo pieno vigore”. Mentre Teresa va spegnendosi, un’altra arcade sta raccogliendo il suo testimone: Rosa Taddei, alias Licori Partenopea. E’ nata in una famiglia napoletana di attori comici; il fratello Luigi (1802-1866) è uno dei più famosi mattatori dell’epoca. Lei, a partire dagli anni Trenta dell’800, diventa una specie di Eleonora Duse antelitteram. Il giornalista napoletano Cesare Malpica nel 1843, lei 44enne, commenta una sua esibizione a Roma: “Sentirla, e non ammirarla, conoscerla e non rimaner suo amico, posso solo coloro che non furon mai vivi. Napoli fu per lungo suo ospizio, e sua ammiratrice. Or la possiede la Città immortale. Tutti i buoni furon dolenti al suo partire: la schiera de' suoi amici la rimpiangerà sempre. Sol ci racconsola un pensiero: colei che fa rivivere la Bandettini dovea porre stanza nella Città di ogni poesia: la nuova Corilla Italica dovea star presso al Campidoglio”. ( Marina Greco )

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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