Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

Covid 19, Regioni incapaci
di intercettare i focolai

Covid 19, Regioni incapaci <br> di intercettare i focolai

di Michele Mezza

I trend del contagio sono ormai non più una preoccupazione ma una sciagura. Sembra proprio innestata la temuta seconda fase che, come spiegano gli epidemiologi, non replicherà né per la dinamica né per l’intensità, la prima, ma potrebbe per altri versi rivelarsi anche più dannosa dal punto di vista sociale. La minaccia è quella di una cronicizzazione del pericolo che rimarrebbe sotteso ad ogni rapporti diretto e fisico fra le persone, anche se poi potrebbe non avere le conseguenze mortali che abbiamo conosciuto nel fatidico marzo scorso. Abbiamo infatti dinanzi un fenomeno pulviscolare, che moltiplica i portatori di contagio, largamente asintomatici, ma con sciami di infezioni più serie, che tendono ad infittirsi. La malattia non è più ne geograficamente , né terapeuticamente  identificata e dunque isolabile.
Non abbiamo più zone rosse da recintare dinanzi a noi,  ma nuvole di positivi alle nostre spalle, che rendono insicura qualsiasi decisione di spostamento o di contatto diretto.  Ritorna il tema del tracciamento, ancora meglio della georeferenzazione, non tanto del contagio quanto dell’incubazione del virus. Da questo punto di vista il quadro di adeguamento del paese è davvero sconsolante. Dallo scorso marzo sembra proprio che non sia stato fatto gran che. Tutti si sono buttati a rafforzare le soglie di accettazione e gestione delle emergenze in ospedale, allargando la ricettività dei reparti covid e delle terapie intensive, rendendo più efficaci le sinergie e le connessioni fra diverse piattaforme ospedaliere. Ma sul territorio, in quello che si chiama il primo miglio della malattia, quando insorgono i sospetti dei sintomi e si cerca una prima fase diagnostica e di primo intervento farmacologico ancora niente. Non a caso i dati vedono ai primi posti delle regioni più contagiate quelle aree dove erano sguarniti i servizi epidemiologici e di digitalizzazione e tali sono rimasti, a partire dall’uso del fascicolo sanitario digitale: Campania, Calabria, Sicilia, Liguria, con la compagnia di Lombardia e Veneto che ancora devono smaltire i serbatoi di contaminazioni pregressi.
Ma il nodo non riguarda il solito digital divide, o la lamentazione sull’arretramento delle infrastrutture sanitarie nelle regioni più deboli, quali quelle del sud. Il punto riguarda la determinazione e la lucidità con cui le amministrazioni locali hanno deciso di dotarsi di sistemi di previsione dei flussi contagiosi. Su questo tema nei giorni scorsi è stanno annunciato una soluzione importate: un algoritmo in grado di prevedere con almeno due settimane di anticipo le aree locali dove potrebbe accendersi un focolaio di incubazione, ossia dove potrebbe innestarsi un processo che poi porterebbe ad una catena di ricoveri ospedalieri. L’algoritmo (https://arxiv.org/abs/2007.00756 ) è stato elaborato da un gruppo di ricercatori internazionali che hanno fatto base al centro di epidemiologia pediatrica di Harvard. Il punto di partenza è stata proprio la disastrosa situazione americana, dove in alcuni stati, come il Texas o la Florida, stanno vagolando nella più assoluta inconsapevolezza e dove si è registrato chiaramente che rispetto ai primi segnali di minacce di contagio  passano non più di due settimane prima che si verifichi visibilmente l’impennata dei positivi.
Ora, il team internazionale di scienziati ha sviluppato un modello - o, almeno, il modello per un modello - che potrebbe prevedere le epidemie almeno due settimane prima che si verifichino, in tempo per mettere in atto misure di contenimento efficaci. In un documento pubblicato giovedì su  arXiv.org , il team, guidato da Mauricio Santillana e Nicole Kogan di Harvard, ha presentato il nuovo algoritmo che registra il pericolo 14 giorni o più prima che il conteggio dei casi inizi ad aumentare. Il sistema utilizza il monitoraggio in tempo reale di Twitter, ricerche su Google e dati sulla mobilità da smartphone, tra gli altri flussi di dati.
Spiegando al New York Times   la struttura logica del modello  gli autori hanno dichiarato  "Nella maggior parte dei modelli di malattie infettive, si proiettano diversi scenari basati su ipotesi formulate in anticipo". Spiega il dott. Santillana, direttore del Machine Intelligence Lab del Boston Children's Hospital e assistente professore di pediatria ed epidemiologia ad Harvard: “quello che stiamo facendo qui è osservare, senza fare supposizioni. La differenza è che i nostri metodi rispondono ai cambiamenti immediati del comportamento e possiamo incorporarli ". "Sappiamo che nessun singolo flusso di dati è utile in isolamento", ha aggiunto Madhav Marathe, uno scienziato informatico presso l'Università della Virginia. "Il contributo di questo nuovo documento è che disponiamo di  una buona, ampia varietà di flussi."
Nel nuovo documento, il team ha analizzato i dati in tempo reale da quattro fonti, oltre a Google: post di Twitter relativi a Covid, geotaggati per posizione; ricerche dei medici su una piattaforma per medici chiamata UpToDate; dati anonimi sulla mobilità da smartphone; e le letture del termometro intelligente Kinsa, che si carica su un'app. Ha integrato quei flussi di dati con un sofisticato modello di previsione sviluppato presso la Northeastern University, basato su come le persone si muovono e interagiscono nelle comunità.
Qui emerge il punto dolente: come proprio negli USA è stato più volte  sostenuto, solo con una integrazione dei dati epidemiologici con le informazioni di rete, e in particolare con quanto è rilevabile in termini di dichiarazioni inconsapevoli di milioni di persone sulle principali piattaforme relazionali è oggi possibile localizzare e recintare il covid 19.  La prima volta che il tema è diventato di dominio internazionale è stato con un saggio pubblicato dal Washington Post il 15 maggio scorso (https://www.washingtonpost.com/technology/2020/05/15/app-apple-google-virus/ ) quando proprio il giornale di Jeff Bezos ha denunciato la subalternità dei governi nei confronti di Apple e Google che concentravano i dati sensibili della pandemia senza permettere che le autorità sanitarie locali potessero utilizzarli per mappare la minaccia. Da allora nulla è stato fatto in questa direzione. I governi si sono accucciati sotto le potenti capacità di sponsorizzazione di università e dei grandi service provider americani rinunciando ad ogni autonomia nella ricerca ed elaborazione dei dati. Non a caso Immuni e le altre app di contract tracing che dovevano allertare le popolazioni in caso di contatto sospetto non funzionano da nessuna parte. Ma sono soprattutto le regioni che nonostante quanto è accaduto nei mesi scorsi non hanno imparato la lezione. Nessuna ha elaborato un sistema in grado di predire la configurazione di focolai di incubazione. Nessuna ha voluto e saputo integrare i dati di proprio controllo con quanto veniva veicolato dalle grandi piattaforma come hanno fatto i ricercatori di Harvard.
Stiamo andando incontro al nuovo mostro a mani legate, senza avere la possibilità di anticipare l’esplosione del contagio. E’ una responsabilità che nei prossimi mesi ricadrà proprio sulle spalle di quei governatori che hanno potuto messere a piene mani consensi elettorali e hanno creduto di aver risolto il problema. Forse il loro si, ma i loro amministrati sono ancora alla mercè del virus. 

 (5 ott)

(© 9Colonne - citare la fonte)