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Remo Remotti,
tutto su mia madre

Remo Remotti, <br> tutto su mia madre

Quasi novant’anni, è il primo Remo che sbuca dal web se digiti “Remo”. Troppo sbrigativo emarginarlo a bordo carreggiata della cultura italiana, solo perché ha sempre rappresentato se stesso perlopiù come un matto. Ognuno ne ha fatto esperienza a modo proprio, essendo Remotti, uno, nessuno e centomila copie di sé. Al cinema, nei film di Nanni Moretti, c’è chi lo preferisce nella versione “Bianca”, chi in quella “Sogni d’oro”, dove interpreta un Sigmund Freud urlante, che si pubblicizza come padre della psicoanalisi, e da un banchetto in mezzo alla strada fa il piazzista dei propri libri: ”Io vi vendo questi libri a prezzi che rasentano la follia, signori!”. E vende: “Psicologia della vita amorosa, Psicanalisi del genio, che sono io!… ed ecco qua, gli occhiali freudiani signori, per i vostri rapporti erotici notturni con le vostre belle signore”; sono appunto occhiali con delle lucine incorporate. Finirà, quel Freud, per vendere anche della carta igienica. E per sfogarsi farneticando in austriaco con la madre che gli dice di non essere Sigmund Freud, perché il vero Sigmund Freud è morto da 40 anni. Questo è Remo Remotti. Un uomo che ancora gira per Roma a fare spettacoli, reading coloriti dei suoi pezzi più famigerati, almeno nella capitale, come “Roma Addio”. Roma è una mamma, a cui dice addio: “Me ne andavo da quella Roma dei pizzicaroli, dei portieri, dei casini, delle approssimazioni, degli imbrogli, degli appuntamenti ai quali non si arriva mai puntuali, dei pagamenti che non vengono effettuati, quella Roma degli uffici postali e dell’anagrafe, quella Roma dei funzionari dei ministeri, degli impiegati, dei bancari, quella Roma dove le domande erano sempre già chiuse, dove ci voleva una raccomandazione”. Se ne andava per rifugiarsi dove? In Perù. “A Roma salutavo gli amici. Dove vai? Vado in Perù. Ma che sei matto?”. Riecco il matto. A Roma poi Remo (uno che si chiama Remo, può vivere altrove?) è tornato. Ha fatto di tutto, anche il pittore. “Ho cominciato a fare il pittore a trent'anni quando il grande Masaccio a ventisette anni era già morto”, scrive, o meglio recita in un suo monologo il cui refrain è che sono tutti morti. “A sessantaquattro anni ho fatto mia figlia, c'ho una figlia di diciott'anni e mezzo, meravigliosa, l'ho fatta a sessantaquattro anni, quando a sessantaquattro anni, il grande Gary Cooper, quello di Mezzogiorno di fuoco, bello, scorpione come me, miliardario, americano, era già morto”. Ma lui è vivo, e sembra immortale. In una recente intervista ha raccontato che la sua ricetta è “il lavoro, la spiritualità, lo sport nei limiti del possibile, e la disciplina. E tra tante cose belle, anche il sesso”. Poi dice che il Freud di cui sopra, era direttamente ispirato a lui e al suo rapporto con la madre “che è stata una gran donna e mi voleva bene, ma non mi ha mai capito. Per farti un esempio: siccome sono stato in manicomio tre volte lei pensava che ero pazzo. E invece io non sono pazzo, sono un genio, caro ciccio!”. Quando ha 12 anni muore suo padre, la madre riversa su Remo tutto il suo amore. “In questi rapporti troppo stretti con la madre c’è il rischio che il figlio diventi un frocio da pisciatoio. Lo ha scritto anche Jung, nel suo archetipo sulla madre: gli uomini narcisisti edipici, in una condizione simile, o diventano omosessuali o diventano dongiovanni”. Immaginare cosa è diventato Remotti non è difficile a questo punto: un dongiovanni non solo con le donne, con la vita.

Valerio de Filippis

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