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QUELLA NOSTALGIA
DENTRO LA SATIRA

QUELLA NOSTALGIA<br>DENTRO LA SATIRA

di Roberto Beretta

“Pensi se il Papa si affacciasse alla finestra e dicesse: ‘Cari fedeli, abbiamo scherzato!’... Ecco, voi cattolici non potete fare satira semplicemente perché avete troppe certezze”. Più o meno così mi disse Michele Serra, giornalista passato attraverso numerose esperienze di scrittura umoristica e satirica, in un'intervista di molti anni fa. E io credo che avesse (ed abbia) fondamentalmente ragione.

La satira - la vera satira, non l'umorismo o la barzelletta - ha infatti assoluto bisogno di un radicale scetticismo su se stessi e sul mondo, una sfiducia che non ha e non può avere punti fermi: e per questo irride a tutto ciò che sembra esserlo. Nello stesso tempo però si tratta di un nichilismo “buono”, nostalgico: una disperazione che attende e quasi implora di essere salvata. Come il bambino che piange perché si sente abbandonato dalla mamma, ma nello stesso tempo spera che i suoi strilli la inducano a chinarsi su di lui e a prenderlo finalmente in braccio per consolarlo e dirgli che no, l'uomo cattivo non esiste e nessuno gli farà del male.

La satira è dunque dissacrante nei confronti di tutti i poteri e le religioni del mondo (che - confessiamolo - sono spesso state e tuttora sono usate sovente come strumenti di dominio sugli uomini), anzi “deve” esserlo: perché, a costo di cadere nel disfattismo, non può riconoscere alcun assoluto. Ma proprio per questo non va d'accordo con le religioni di nessun tipo: non solo con l'islam, come è fin troppo evidente dagli ultimi episodi parigini, ma pure col cristianesimo e col cattolicesimo in specie - pur se, grazie a Dio, di solito questi ultimi non rispondono alle presunte blasfemie a colpi di kalashnikov.

Tale inimicizia è un dato di fatto secolare, e non è solo imputabile alla colpa degli eccessi di una parte: come giustamente e saggiamente qualcuno ha ricordato, sarebbe opportuno e auspicabile che ci si autolimitasse nelle espressioni satiriche così da evitare le reazioni violente di chi si sente offeso in un valore caro. Però è altrettanto vero che siamo sul versante del soggettivo (Che cosa dire e cosa evitare? Fino a quale punto spingersi?) e comunque si tratterebbe di una misura a carattere sociale, prudenziale: di per sé, la satira - come ogni altra espressione quando è un “grido” del cuore: come la fede stessa - ambisce alla totalità e non vuole avere confini.
Persino il Vangelo ha quella parola paradossale e scandalosa: “Se uno non odia suo padre e sua madre, moglie e figli, fratelli e sorelle e perfino la sua propria vita, non può essere mio discepolo”... La satira, secondo me, si colloca a questo livello: non può riconoscere padroni e nemmeno cose “sacre”, nemmeno affetti intangibili, e non perché li disprezzi. Al contrario: perché cerca qualcosa di più, implora disperatamente ciò che potrebbe dar ragione di tutti gli affetti e di tutte le religioni. Ma non lo trova.

Seguendo tale intuizione, ritengo perciò che la satira sia l'espressione di una ricerca profondamente spirituale, perché nasce dall'insoddisfazione dei sensi della vita comunemente accettati (ivi compresi quelli religiosi) e li irride perché ha nostalgia di assoluto. A prescindere dalle opportunità o meno delle sue espressioni, essa dovrebbe quindi essere considerata preziosa in sé dagli uomini autenticamente religiosi: perché - persino quando bestemmia! - ricorda loro gli aspetti “idolatrici” inevitabilmente presenti nelle espressioni umane di ogni credo e li richiama a non perdere di vista che il “necessario” è uno solo. Se ciò è vero, gli eventi di Parigi acquistano anche chiavi di lettura diverse dall'assalto alla libertà di espressione “laica” e dalla minaccia alla civiltà occidentale.
(da vinonuovo.it – 12 gen)

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