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AVREMO UN PRESIDENTE
O UN CAPO DELLO STATO?

AVREMO UN PRESIDENTE <br>O UN CAPO DELLO STATO?

di Paolo Pombeni

Questa volta ci sarà qualcosa di più dell’elezione di un nuovo inquilino del Quirinale. Questa volta si dovrà decidere se eleggere ancora un “Capo dello Stato” o se tornare ad un “Presidente della Repubblica” così come era stato immaginato dai costituenti (e per la verità, se si eccettua forse Einaudi, come mai si era verificato).

Le differenze fra le due figure sono piuttosto rilevanti. Il “presidente” non è tanto una figura puramente cerimoniale o al massimo notarile, ma è il regolatore discreto della sana dialettica di un sistema di partiti a cui fa capo in ultima istanza la legittimità repubblicana. Sono i partiti ad avere in mano le chiavi delle istituzioni e quelle del consenso popolare alla casa comune. Il presidente si limita da incarnare verso l’esterno e verso l’interno l’accettabilità e la funzionalità di questo stato di cose.

Poi ovviamente il presidente è anche una personalità politica e dunque non ha resistito in passato a cercare di infilarsi nel gioco dei partiti, ma lo ha fatto, per così dire, come un protagonista di complemento in quella partita che abbiamo appena descritto.

Il “Capo dello Stato” è arrivato nel momento in cui il sistema dei partiti non era più in grado né di produrre in autonomia il normale svolgersi delle dialettiche istituzionali, né di raccogliere direttamente quel consenso dei cittadini che legittima il sistema politico. E’ a questo punto che il ruolo dell’inquilino del Colle è mutato. Naturalmente non è avvenuto tutto d’un colpo, perché l’erosione della “repubblica dei partiti” così come si era stabilita a partire dal 1946 si è realizzata per tappe successive e anche con alterne vicende, ma alla fine è arrivata, prima con la scomparsa dei partiti tradizionali che l’avevano costruita (i cambi di nome non sono puri fatti esteriori), poi, nell’ultima fase, con un certo ricambio di classe dirigente che ha portato alla ribalta, e non solo nella politica, generazioni che avevano, se ne avevano, legami molto labili con la tradizione delle vecchia repubblica.

In questo contesto il Quirinale è stato quasi costretto a farsi carico di qualcosa che si avvicina al modello semipresidenziale francese. Il Capo dello Stato deve farsi carico in prima persona di rappresentare la continuità della sovranità dello stato, anche perché lui dura sette anni, mentre i governi durano poco e anche i parlamenti non hanno stabilità. Poi è spinto ad esercitare un ruolo per la continuità (e, ahimè, spesso per la credibilità) della nostra politica internazionale, compreso quel suo genere ibrido che è la politica europea. Infine deve muoversi tanto per garantire un minimo di equilibrio almeno fra le varie burocrazie pubbliche e per attirare su di sé quel consenso alla politica che i partiti riescono sempre meno a raccogliere.

Naturalmente la cosa buffa da mettere in evidenza è che in questa condizione ad eleggere un Capo dello Stato sono chiamati quei parlamentari che dovrebbero ancora rappresentare la repubblica dei partiti. La più profonda differenza col semipresidenzialismo alla francese è che in quel contesto il presidente viene eletto dal popolo, che può anche sceglierlo decidendo di orientarsi al di fuori e contro quel che pensano i partiti (e non si dimentichi che così De Gaulle stabilizzò il suo potere). Da noi pretendere che i parlamentari scelgano chi per tanti versi dovrà ridimensionare il loro potere è chiedere molto alla natura umana.

Può succedere che si elegga senza rendersene conto qualcuno che poi si rivela in grado di fare il Capo dello Stato. E’ successo con Napolitano, ma adesso il quadro è diverso.

In primo luogo i partiti hanno toccato con mano cosa significhi avere al Quirinale chi riveste un ruolo di quel tipo. In secondo luogo i parlamentari sono consapevoli tanto della loro debolezza attuale davanti alla pubblica opinione, quanto del fatto che essa può diventare ancora più acuta. In terzo luogo c’è poi l’imprevisto di un governo in mano ad una nuova generazione, governo che vuol provare ad intestare a sé stesso quella posizione che nel semipresidenzialismo sarebbe appannaggio del Capo dello Stato.

Ecco dunque che la scelta del successore di Napolitano si rivela sempre più come una faccenda complicata. Bisogna tenere conto che in assenza di un quadro costituzionale veramente chiaro per quel che riguarda il ruolo del presidente della repubblica non è possibile stabilire a priori cosa farà l’eletto una volta insediato al Colle. Ogni tanto si vaneggia su possibilità di “impeachment” nel caso si violassero i confini assegnati a quella carica, ma in pratica è impossibile, perché quei confini sono scritti sulla sabbia. Per arrivare alla messa in stato di accusa di un presidente della repubblica sulla base di presunti eccessi nell’esercizio dei suoi poteri occorrerebbe di fatto un colpo di stato, cioè qualcosa a cui solo dei pazzi possono pensare e che difficilmente ci verrebbe consentito dai nostri partner internazionali.

Dunque si finirà forse col puntare sulla scelta della persona che si giudica meno rischiosa per il contenimento dello sviluppo dei nuovi equilibri di potere, ma se si farà così inevitabilmente si correrà il rischio terribile di non avere a disposizione una “forza istituzionale” nel caso, tutt’altro che impossibile, di una implosione o comunque di un logoramento dell’attuale percorso di revisione degli equilibri politici del paese.
(da mentepolitica.it)

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