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direttore Paolo Pagliaro

STRANIERI E PROFUGHI
DI OGGI E DI IERI

di Giorgio Gomel

Le navi cariche di rifugiati e migranti che affondano oggi nel Mediterraneo Nel tentativo di giungere alle sponde dell’Europa evocano assonanze emotive con vicende tragiche vissute dagli ebrei d’Europa 70-80 anni fa. Ci ricordano gli ebrei fuggiaschi sul finire degli Anni ’30, che cercavano rifugio dalla furia antisemita, o le navi cariche di sopravvissuti al genocidio hitleriano, che nel 1946-‘47 varcavano il Mediterraneo dirette in Palestina e ne venivano respinte (e i profughi internati dagli inglesi in campi di prigionia, a Cipro o altrove). Ricordiamo qualche dettaglio di quella storia dolorosa.

Contro l’esplodere della persecuzione antiebraica in Germania e l’inasprirsi nei paesi dell’Europa orientale (Ungheria, Polonia, Romania) di leggi e prassi antisemite, il mondo “civile” faticò a reagire. Ovunque gravava il pregiudizio antisemita, l’ostilità o l’indifferenza allo straniero.

“La barca è piena”, affermavano i governi e le opinioni pubbliche. Nel 1935 gli Stati Uniti ammisero circa 6 mila emigranti ebrei dall’Europa, l’Argentina circa 3 mila, il Brasile 2 mila. Più generosi furono i Paesi dell’Europa occidentale: la Francia circa 35 mila, il Belgio 25 mila, l’Olanda 20 mila.

In Palestina, sotto il mandato britannico, trovarono rifugio nel triennio 1933-‘35 circa 130.000 ebrei (vedi Walter Laqueur, A History of Zionism, New York, 1972). Nel 1938 si svolse per impulso di Roosevelt una conferenza ad Evian (Francia) circa lo status dei rifugiati ebrei. Vi parteciparono oltre 30 Paesi. Ma il numero di profughi ammessi in quei Paesi restò molto limitato.

Nei documenti ufficiali della Conferenza si giustificò la decisione motivandola con la disoccupazione e le difficoltà economico-sociali nei Paesi riceventi, l’ordine pubblico, ecc.

Gli inglesi rifiutarono di discutere nella Conferenza di immigrazione ebraica verso la Palestina e nel 1939 pubblicarono il Libro Bianco, che, cedendo all’opposizione araba e ai timori di un consolidarsi del movimento sionista, limitava il numero di emigranti ebrei a 10 mila all’anno per cinque anni, per poi porvi fine. Anche negli anni precedenti segnati dal crescere della violenza antiebraica in Europa il numero di immigrati ebrei ammessi dalle autorità britanniche andò decrescendo: furono 60 mila nel ’35, 30 mila nel ’36, 10 mila nel ’37, 13 mila nel ’38 e poco di più nel ’39.

Rivelatore di quel clima è una risposta del segretario alle Colonie Mac Donald a un’interrogazione alla Camera dei Comuni dell’aprile 1939, così come riportata da Arthur Koestler (Ladri nella notte, Mondadori,1971, p. 242): “A 1220 immigranti clandestini è stato impedito lo sbarco in Palestina … Il 21 marzo 269 ebrei del piroscafo Assandu hanno ricevuto l’ordine di ripartire per Costanza, Romania, il loro porto di imbarco. A 710 ebrei di cui 698 tedeschi, è stato proibito di sbarcare dal piroscafo Astir e ordinato di tornare donde erano venuti. Al segretario è stato chiesto se avendo i profughi ebrei atrocemente sofferto fossero stati rimpatriati… Il signor Mac Donald ha detto che essi sono stati rimandati ai rispettivi porti di imbarco. Allora l’interrogante: ai campi di concentramento forse? e MacDonald: La responsabilità ricade su coloro che sono responsabili di avere organizzato l’immigrazione clandestina…”.

Anche dopo lo scoppio del conflitto in Europa appena 20 mila ebrei trovarono asilo negli Stati Uniti per l’azione risoluta soprattutto dei volontari dell’Emergency Rescue Commitee nella Francia occupata (tra questi Varian Fry e Hannah Arendt).

Le ragioni di tale inerzia furono molteplici: l’antisemitismo, l’ideologia xenofoba e contraria all’immigrazione, il silenzio delle chiese cristiane, la stessa riluttanza degli organismi ebraici americani ad esercitare pressioni sul governo per il timore di esacerbare l’ostilità antisemita e perché era prioritaria fra i sionisti la battaglia per la futura creazione di uno stato ebraico (vedi David Wyman, The abandonment of the Jews: America and the Holocaust, New York, 1984).

Due le vicende più note dalla memorialistica di quegli anni: lo Struma e il St. Louis. In Romania masse di ebrei, fuggendo all’assassinio di massa organizzato dallo stato e dalle milizie fasciste delle Guardie di Ferro, cercavano di varcare il Mar Nero verso la Turchia e di lì la Palestina. Molte navi affondarono.

Lo Struma salpò da Costanza nel dicembre ’41 con circa 800 persone. Giunto a Istanbul, stante il rifiuto del governo britannico di concedere visti di entrata in Palestina, fu costretto dopo un’attesa di 70 giorni nel porto turco a ripartire verso il Mar Nero dove fu affondato da un siluro, la cui identità non fu mai individuata con certezza. Un solo passeggero trovò scampo.

Il St. Louis salpò nel maggio ’39 dalla Germania con un carico di 900 ebrei tedeschi diretti a Cuba. Giunto all’Avana, dopo mille peripezie ed estenuanti trattative fra il governo cubano e l’American Joint Distribution Committee, fu costretto a lasciare Cuba e a ritornare in Europa. Alcuni dei profughi furono accolti in Olanda, Belgio, Francia e Gran Bretagna. Altri rimpatriati a forza nella Germania hitleriana.

La questione dell’immigrazione oggi verso l’Europa dai paesi del Medio Oriente e dell’Africa travagliati dalle guerre e dalla miseria è assai complicata. Le soluzioni non sono semplici, fra gli estremi dell’utopismo della “buona volontà” e della stupidità xenofoba. Ma la storia ebraica della prima metà del ‘900 può essere di utile pedagogia rispetto all’egoismo e all’indifferenza.
(da affarinternazionali.it)

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