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Le poetesse / 3 - Una donna l’Aedo del Risorgimento

Ritratti
Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all'Unità d'Italia. Donne protagoniste nell'economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell'attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

Le poetesse / 3 - Una donna l’Aedo del Risorgimento

“Nemici in vita/morte lì adeguò/pietà li raccolse” la lapide che accoglie chi entra nell’ossario dei caduti delle due battaglie di Custoza, tragiche disfatte dell’esercito piemontese contro l’Austria. Sulla seconda ancora a stendersi l’infelice cronaca della rivalità tra Cialdini e La Marmora, i due generali del neonato Regno d’Italia che, messi fianco a fianco a fronteggiare l'arciduca Alberto d'Asburgo, non seppero farlo. Mandando allo sbaraglio e alla morte sulle dolci colline del Garda 700 soldati i cui resti, mescolati a quelli dei caduti austriaci, un parroco del luogo cercò di salvare dallo scempio dei cani che scavavano nelle affrettate sepolture di massa, allineando ordinatamente su scaffali di legno centinaia e centinaia di teschi che, dal 1879, fanno da tragico campionario all’orrore delle ferite di guerra: le fenditure delle baionette, il cranio frantumato da una palla di un cannone, lo sfondamento causato dal calcio di un fucile o dallo zoccolo di un cavallo, fori di proiettile al centro della fronte ma anche quelli alle tempie, a ricordare che sui campi di battaglia c’era anche chi si suicidava. Tra i caduti della battaglia di Custoza del 24 maggio 1866 - atto d’inizio della terza guerra d’indipendenza e buco nero dei disastri bellici italiani (sulla sottile linea rossa che porta a Lissa, Adua e Caporetto) -, anche il quarantenne Vincenzo Statella, conte siracusano, aiutante di campo di Garibaldi cui aveva salvato la vita nella battaglia di Milazzo. Muore in un carica a cavallo che gli vale la medaglia d'oro al valor militare alla memoria. “Pochi uomini io vidi belli al par di lui di maschia bellezza, e pochi ne conobbi più sinceramente devoti all'Italia”, “la sua vedova infelice ignora forse tuttavia la sua morte; i genitori vennero a prenderla qui, annunziandole solo ch'era ferito. Ella accorse ansiosa per assisterlo. Questa poveretta amava il marito d'un amore che confina coll'adorazione; e si teme che il suo intelletto non potrà reggere a prova così terribile”. Lo strazio di mogli, madri, sorelle, per quella battaglia di Custoza è tutto nella lettera scritta da Giannina Milli alla contessa Clara Maffei il 24 giugno, un mese dopo la sconfitta: “Quante nobili e preziose vite son venute meno, senza il conforto di veder il loro sacrifizio coronato dal successo! Le mie provincie meridionali van dolenti e superbe di molti nuovi martiri, caduti con gloria accanto ai fratelli delle altre provincie”, “qui si fa a gara tra le donne a raccoglier danaro, offerte in generi, e nelle conversazioni tutte le mani sono impiegate a far bende e filacce; a me spesso le mani tremano in quest' ufficio, ché penso al fratello e ai tanti che amo e stimo e venero che avranno forse mestieri di quelle stesse fila” sono altri passaggi della lettera. Giannina Milli è la maggiore poetessa improvvisatrice del Risorgimento e l’ultima grande interprete di questo genere letterario tipicamente italiano - allora all’apice del suo successo -; Clara Maffei è la regina dei salotti liberali italiani che a quel successo ha molto concorso e ha permesso, grazie all’amicizia con Alessandro Manzoni, che la poetessa teramese - seppure nata in una famiglia poverissima - potesse coronare il suo sogno di venire stimata da quello che chiamava il “Santo Grand'Uomo”. In una lettera del 1862 Giannina scriveva alla contessa Maffei: “Cara e buona mammina, ditegli quant'io vada superba, non della sua ammirazione chè so troppo di non meritarla, ma ch'ei si ricorda talvolta di me”. Un anno dopo le confessa di custodire gelosamente una “foglia colta dall'albero piantato dal venerando Manzoni”, l’esultanza per avere ricevuto un biglietto da visita dello scrittore (“equivale per certo ad una medaglia di onore”) e descrive la paura che le impedisce di scrivere all’autore dell’Adelchi, seppure sollecitata dalla stessa contessa: “Avea fin cominciata la lettera, e ho dovuto smettere... mi pare di non sapere, di non dover ardire di scrivere a Lui.. Insomma dovrei fare chi sa quante brutte copie della lettera e allora egli per certo si accorgerebbe delle stiracchiature che al mio stile solito starebbero bene Dio vel dica come!”. Eppure quello stile - con cui Giannina riusciva a declamare versi patriottici composti all’istante (sebbene su una rosa di temi vagliati prima dalla polizia) e con tale trasporto e concentrazione da rimanerne prostrata alla fine dell’esibizione - aveva rapito anche Manzoni che, nel 1864, la andò anche a trovare nella sua casa di Firenze (“Egli ha voluto darmi la più grande e invidiabile delle Consolazioni onorandomi di una sua visita”, “io non seppi dirgli cosa che valesse, neppur lontanamente, ad esprimergli la mia profonda riconoscenza, perché davvero io parlo tanto meno e più male, quanto più e altamente sento” scrive una Milli entusiasta alla Maffei). Lo stesso Manzoni legge in pubblico dei versi della poetessa e la contessa Maffei da quando la conosce, nel 1859, alla sua prima apparizione a Milano - diventa la sua più fervida sostenitrice, l’affezionata “mammina” delle tante lettere: “Quando penso che fra non molte settimane ti stringerò al mio cuore - le confessa con trasporto -, che staremo lungamente insieme, che ci diremo tante cose che andremo, non è vero? da Manzoni insieme, che mi dirai le tue poesie vecchie e nuove, io esulto d'immensa gioia e salto e grido come un fioeu perché sono spesso tale malgrado la mia decrepitezza”. E nel giugno 1877 ancora le scrive: “Sempre adorata figlia mia so che fosti ad un banchetto ove declamasti una delle tante tue bellissime poesie, ancora ho nelle orecchie, e più ancora nell'anima quelle che dicevi da me dal 59, al 60 anno beato, ricco di memorie così grandi, ma di cui la più soave è quella della nascita del nostro filiale materno amore, che non finirà mai”. Quando incontra la contessa Maffei, Giannina Milli già da oltre un decennio va infiammando il pubblico di salotti ed accademie - da Firenze alla Sicilia, da Napoli alla Puglia -, in quello che è un vero e proprio tour di propaganda degli ideali risorgimentali, declamando in rima gli aneliti di libertà dei popoli oppressi (ma tale era la sua fama che, nel 1857, a Roma, viene omaggiata dallo stesso Papa Pio IX, oltre che dalla vedova regina di Spagna ed esule Maria Cristina). Ma è grazie alla potente mecenate e contessa milanese che a Giannina Milli si spalanca l’ingresso nel gotha intellettuale, a partire appunto dall’amicizia con Manzoni.

In quegli anni diventano così suoi estimatori Francesco De Sanctis (che le assegnerà uno dei tanti vitalizi che ne sosterranno le difficili finanze, quando, fermatasi a Firenze e abbandonate le scene nel 1867, a 42 anni, dopo una vita errabonda, si troverà a fare i conti con tanti allori ma poco forieri di ricchezze), gli storici Pasquale Villari e Luigi Settembrini (che nominato ispettore generale per riorganizzare l’istruzione nel passaggio dai Borboni ai Savoia nel 1860, medita di nominarla “professoressa”), il poeta Giovanni Prati, l’economista Antonio Scialoja, ministro delle Finanze nel governo provvisorio di Garibaldi a Napoli (che poi, nominato ministro della Pubblica Istruzione, nel 1872 la volle a Roma per dirigere una scuola femminile e dove conobbe l’insegnante Fernando Cassone che sposò nel 1876, seguì nel suo lavoro come provveditore agli studi nel sud Italia e a cui sopravvisse, nel 1888, lo spazio di pochi mesi). E, tra le donne, Emilia Toscanelli Peruzzi, la gran dama del "Salotto Rosso", il più importante di Firenze, che insieme alla marchesa Giulia Tassoni Ridolfi fa una sottoscrizione per assegnarle un vitalizio di 1800 lire annuali e un anno dopo la sua morte, nel 1889, fonda un premio a lei intitolato, che fa assegnare ad un’altra sua poetessa protetta, una 19enne Ada Negri, che diverrà prima donna ammessa nell’Accademia d’Italia, poi dei Lincei. E ancora le scrittrici Cesira Pozzolini (1839-1914), moglie del filosofo Pietro Siciliani e autrice di reportage di viaggi in Italia e Luigia Codemo (1828-1898), creatrice di romanzate figure di contadini patriottici. Nel 1858 la sorella di Ciro Menotti e amica di Mazzini, Virginia, va a trovarla a Firenze e Giannina scrive un sonetto in suo onore. Ad attestare la sua grande fama, poi, le migliaia di lettere dei suoi epistolari oggi conservati nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e nella Biblioteca provinciale di Teramo, che custodisce anche 400 foto d’epoca recanti dediche di importanti personaggi all’indirizzo della poetessa, che di fatto oscurano la figura del suo diretto “antagonista” maschile, il poeta estemporaneo vercellese Giuseppe Regaldi, esule per motivi politici nel 1849, poi collega di Giosuè Carducci e maestro di Giovanni Pascoli all’Università di Bologna, città in cui morirà nel 1883, a 74 anni, con il titolo de “L'ultimo degli improvvisatori” apparso nel necrologio della Domenica Letteraria, firmato dallo stesso Carducci. Eppure l’innata modestia e timidezza non abbandonarono Giannina neanche negli anni della celebrità. Il deputato teramano Settimio Costantini così la descrive: “Aveva occhi vivaci, scintillanti, bellissimi, onesto lo sguardo, grave il portamento. Sorridea con grazia, conversava alla buona senza pretese, vestiva con semplicità schiva dei ricchi ornamenti di cui possedeva gran dovizia. Amava la solitudine e il viver semplice e frugale. Non parlava mai di sé, né delle cose use; e quando non poteva farne a meno, lo faceva con tanta grazia e disinvoltura da parere che parlasse di altri”. Quando torna nella natìa Teramo, nel 1863, dopo 14 anni di assenza, i festeggiamenti di popolo, tuonanti di banda musicale, che la accolgono all’arrivo, la stupiscono e perfino turbano: “Io ero mezzo svenuta, e soffersi più del solito, però che maggiore del solito era la commozione ond'ero presa. Nell'insonnia smaniosa di quella notte, io mi ripeteva spesso la ragionevolissima domanda: che ho fatto io, per meritare così straordinarie ovazioni, mentre tanti Sommi, veramente meritevoli di artistici e civili, e cittadini allori, passarono quasi inosservati?... Mammina, voi sapete che non faccio ostentazioni di modestia inopportuna, ma vi confesso col cuore che a quella domanda i rossori mi salivan sul viso e pensava che l' Italia non possiede ancora le virtù della moderazione; eccede nel prodigare gli onori, come è corriva troppo di biasimo... Questo vi sia detto in un orecchio”. In questo si ritrova tutto il vissuto di una figlia di popolo, che ha sofferto miseria e dolori. E che ha saputo elevare il suo dramma familiare a grido di dolore di una patria oppressa. Senza però mai perdere quella vena dolorosa che tanto commuoveva gli ascoltatori della sua poesia, in cui il tema patriottico si mescolava al lirismo. Nel 1849, due anni dopo che il genovese Goffredo Mameli aveva composto il “Canto degli Italiani”, lei scriveva: “Il mio canto è ver, doglioso e mesto è il canto che a me sul labbro sospinge il cor; una inesausta vena di pianto de' più begli anni mi attrista il fior. Pur, se mi chiedi da che deriva quello che m'ange crudo martir, dirò che ho pena segreta e viva, ma perché peno io non so dir. Perché sospira chiedi all'auretta e perchè mormora chiedi al ruscel, chiedi a che geme la colombetta mentre ha d'appresso il suo fedel.  Ch'è in lor natura, risponderanno, spirare, gemere e mormorar”. Ma propria la poesia le permetterà il riscatto sociale per la sua famiglia che tanto l’aveva sostenuta nei primi anni. Innanzitutto la madre che, malgrado la miseria e la perdita prematura di sei dei 12 figli, aveva riconosciuto il talento della figlia, spingendola a soli 5 anni, a salire sul palcoscenico in un teatro di Chieti per recitare i suoi primi versi che, ascoltati dal giovane monarca delle Due Sicilie Ferdinando II, quando Giannina aveva 7 anni, le valsero una borsa di studio in un collegio a Napoli. Fu questa la prima istruzione per la poetessa che trovò poi, ritornata da adolescente in Abruzzo per sfuggire al colera che infuriava a Napoli, diversi letterati pronti ad erudire il suo talento così straordinario. Un aneddoto: 22enne viene invitata da un giovane letterato marchigiano a comporre un sonetto sul re David. Ci impiega 4 minuti sotto lo sguardo estasiato dell’erudito. Ma sono le letture di Tasso, Dante, Parini, Monti, Leopardi a farle maturare una coscienza politica verso le sorti risorgimentali. Ma sempre con occhio critico. Nel dicembre 1865, trasferita la capitale del regno d’Italia da Torino a Firenze, scrive alla contessa Maffei: “Mammina carissima. Gli onorevoli diventano di giorno in giorno più invisibili pe' poveri profani a' misteri della politica... Da banda lo scherzo, son seriamente agitata dall'andamento della nuova Camera, e voi saprete a quest'ora che tempesta vi scoppiò ieri! Dio spiri senno e costanza a rappresentanti della Nazione!”. Nel giugno 1869, dopo l’attentato a Cristiano Lobbia che si verifica vicino la sua casa di Firenze (pochi giorni prima l’ex bersagliere, diventato deputato della sinistra liberale, era stato accoltellato e quindi bastonato - da cui la nascita della moda della bombetta “alla Lobbia”, con l’infossatura centrale -  dopo aver denunciato un giro di tangenti dietro le concessioni statali sulla coltivazione del tabacco), così Giannina si sfoga: “Mammina carissima. Sento la necessità di non parlar di politica... fremo e piango, e prego Dio per la nostra Italia; ma non posso discutere, perché sento che forse sarei ingiusta, a giudizio dei più. Vi basti che comincio a disperar degli uomini della generazione presente... e per me è dolore che passa ogni confine questo!”. E nel dicembre 1870, l’anno della guerra franco-prussiana, scrive ancora: “Mammina cara e buona. Anche quest' anno 70 così ricco d'inauditi e meravigliosi eventi sta per andarsene nel mare dell'eternità.... auguriamoci che col 71 spunti l'iride della pace tra quelle due nazioni, già nostre alleate, e che si straziano e distruggono in gigantesca efferata lotta! E noi auguriamoci il senno e la moderazione pari alla fortuna, nel saper conservare e stabilire dalla tanto sospirata Roma la compiuta unificazione della patria nostra!”.  ( Marina Greco )

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