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Le poetesse / 4 - Le muse del Risorgimento

Ritratti
Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all'Unità d'Italia. Donne protagoniste nell'economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell'attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

Le poetesse / 4 - Le muse del Risorgimento

9 novembre 1860. A Perugia gli uomini si mettono in fila per votare l’annessione dell’Umbria al nascente Regno d’Italia. Due mesi prima, il 18 settembre, la rapida vittoria dell’esercito piemontese che avvolge le truppe papaline, arenate tra le risaie e allo sbando dopo la morte sotto il fuoco amico del battagliero generale De Pimodan. E’ la battaglia che segna ufficialmente la caduta del potere temporale dei papi ma che Cavour sceglie di non esaltare per paura di una rivolta in difesa del Papa, dandole il nome di Castelfidardo piuttosto che quello dal sapore sacrale di Loreto, come per ragioni geografiche si sarebbe dovuto chiamare lo scontro consumato sulle colline di Monte Oro. I 66 caduti piemontesi seppelliti frettolosamente in una fossa comune, non lontano da quella degli 88 pontifici. Al “fate in fretta” raccomandato a Vittorio Emanuele II dall’alleato francese Napoleone III, si aggiunge anche la necessità di estendere rapidamente i territori sotto la corona sabauda per fronteggiare la “minaccia” di Garibaldi che, da Napoli, vuole portare la sua vittoriosa avanzata su Roma. In fila tra gli uomini, quel 9 novembre, anche un ragazzo di 19 anni. Silenzioso, schivo, il fresco volto nascosto sotto un cappello, a nascondere gli occhi scintillanti di emozione, con le spalle curve e la giubba ben stretta. Nessuno si accorge, quel giorno, che per la prima volta una donna sta votando in Italia, 86 anni prima del suffragio universale per le italiane. Ma lei, Maria Alinda Bonacci, poi sposata Brunamonti, ha l’ardimento della poetessa patriottica e d’altronde, fin da quando aveva 8 anni il padre - austero professore di retorica di Perugia -, le aveva tolte le trine e messi abiti di foggia maschile per educarla nel più virile dei modi: ossia tra la Divina Commedia, i Fioretti di S. Francesco, le lingue antiche e le discipline scientifiche. Inoltre, lei, la battaglia di Castelfidardo l’ha esaltata con passione evocando il “gran miracolo” dell’indipendenza d’Italia. E ha da poco dato alle stampe i suoi “Canti nazionali” inneggianti ai valori libertari e monarchici, che la vedono  - giovane, fervente cattolica -, scagliarsi contro lo stesso Pio IX cui solo quattro anni prima ha dedicato il suo primo libro di versi religiosi, lodato dal vescovo di Perugia Gioacchino Pecci, futuro papa Leone XIII e ammirato dal rettore di Perugia. Eppure l’avvento sul soglio di Pietro di papa Ferretti aveva acceso grandi speranze negli animi liberali: per l’amnistia dei detenuti politici del 1846, ad Ancona, si stampa il sonetto “A Pio IX” firmato proprio da una donna, Elisa Campos: “Pastor monarca della Nobil Roma, eletto succeor del maggiore Pietro, udrai di donna il casto verso io spero, sebben non atto a sì grossa soma; che lauda un pio magnanimo, che ha doma del parteggiar la possa e l’odio fero e l’egro consolò”. Ma poi ci sarà la strage di Perugia del 20 giugno 1859 in cui 3mila zuavi pontifici massacrano la popolazione inerme, violentano donne e si danno a furiosi saccheggi per restituire al delegato papale il controllo della città, finita una settimana prima in mano ad un governo provvisorio guidato da nobili e ricchi borghesi, che non riesce però ad ottenere l’aiuto di Cavour e si vede costretto ad issare le barricate. Testimone delle violenze anche la famiglia americana dei Perkins che, ospite in un albergo, viene malmenata e, tornata in patria, racconta l’accaduto. Appare un articolo sul New York Times e si solleva una ondata di indignazione popolare della quale resta traccia nella poesia “From Perugia” di John Greenleaf Whittier e in una ballata popolare. La 18enne Maria Alinda unisce la sua condanna in versi al sonetto “Per le stragi di Perugia” di Carducci (“Cristo di libertade insegnatore; Cristo che a Pietro fe’ ripor la spada, che uccidere non vuol, perdona e muore. Fulmina, Dio, la micidial masnada”) e vede il suo profondo senso di religiosità rivolgersi all’amore assoluto per il creato, il suo patriottismo idealizzarsi in una ricerca di purezza. Non casualmente il trasferimento della famiglia a Recanati agisce su lei in senso leopardiano. Del 1876 sono i “Versi campestri” e l’ammirazione di Andrea Maffei, marito della contessa Clara, prossimo senatore e autore del libretto dei Masnadieri di Verdi. Ma, complice anche il grave lutto della perdita di un figlioletto di 5 anni, il suo bisogno liberatorio di abbandonarsi alla natura e di studiarne i segreti - in lunghe passeggiate nella campagna perugina, dove si trasferisce con il marito insegnante - diventa sempre più intenso, anche grazie all’amicizia con due sacerdoti: il lirico Giacomo Zanella e lo scientifico Antonio Stoppani (lo zio di Maria Montessori, fondatore della geologia italiana, che costruì le piccole mongolfiere che aiutarono gli insorti Cinque Giornate di Milano ad inviare messaggi di aiuto fuori città). “Tu odori d’aria. Ossia: tu porti nei capelli, nelle vesti, nel respiro, un’indistinta frescura, un movimento d’atomi, una fragranza di pollini, una corrente vitale poco meno che una luce. Così vorrei si dicesse dell’arte quand’ella si presenta sotto forme d’un canto o d’una pittura: odora d’aria” scrive nel 1884 nel suo diario che compone per 25 anni, fino al 1900, quando un ictus le impedirà di scrivere e la condurrà alla morte, tre anni dopo. Seppure le poesie dedicate ai progressi della scienza - canta il telegrafo e il treno - e quelle patriottiche restano nella sua cifra stilistica (la sera del 27 marzo 1887, al Teatro Comunale di Perugia, commuove la folla commemorando i morti italiani della battaglia abissina di Dogali), sono i versi idilliaci quelli nei quali la sua sensibilità trova libero spazio. Per loro, ormai dimenticati, resta l’ammirazione del critico letterario Renato Serra - allievo di Carducci a Bologna - in una lettera del 1911 a Benedetto Croce: “Che delizioso ritratto ho letto oggi della Brunamonti! Non la conoscevo altro che poco. Che senso di pace”.  E Fogazzaro delle sue virtù di scrittrice scriveva che la ponevano “per l'italianità insigne sì della veste che delle concezioni, per la maestà degli atteggiamenti, molto più su dello Zanella, accanto al maggior nostro maestro, al Carducci, non dirò degli scritti polemici e critici, ma dei discorsi accademici”. D’Altronde Maria Alinda lo stesso Carducci lo aveva conosciuto in modo curioso. Quando nel giugno 1876 venne chiamato a Perugia come commissario regio per gli esami al liceo fu protagonista, nella casa della poetessa, con vista sulla piana del Tevere, di una conversazione su Goethe e di Leopardi nella quale Maria Alinda dovette fieramente confutare la tesi del poeta, secondo cui l’autore dell’Infinito  “era destinato a passare”. Accomunata a Maria Alinda dalla stessa tensione patriottica e lirica - oltre che dal dramma della perdita prematura di ben quattro figlie - è Laura Battista, definita la “Leopardi in gonnella”, morta a soli 39 anni, esattamente come il poeta di Recanati. Se i versi più dolorosi, quelli dedicati ai suoi lutti di madre, dimostrano tutto l’influsso del Romanticismo (“Primavera ritorna: e seco, o figlia, che profonda amarezza e che desio vivo e pungente di serrar le ciglia e dormir teco nella polve anch’io… E tenerti così stretta al mio core gelosamente, qual ti tenni un dì: e alimentarti di materno amore, se il latte del mio seno inaridì!”, “più non ti veggo al sorger dell’aurora sollevar le manine appo il mio crin: da un anno io gemo, e a consolarmi ancora non giunge di tua voce il suon divin! Nè giungerà più mai! Cosa nessuna che ti somigli non vedrò nel mondo” scrive nella sua straziante ode alla figlia Rosalba del 1877), la sua crescita nel mondo della borghesia anti-borbonica potentina - che porta alla rivolta del 1860 contro il giogo borbonico -, la spinge a cantare con trasporto le gesta degli eroi risorgimentali. Su tutti Garibaldi. Nella sua poesia del 1861 per la morte di Cavour la 16enne Laura invoca il generale “guerrier scettrato”: “Immoto sul solitario scoglio ove si eleva la nobile Caprera. Siede pallido e muto Garibaldi, qual uom cui pugna interna. Sciagura il core, e fissi gl’impazienti sguardi de’ mesti occhi gagliardi su l’onda azzurra del sopposto mare, china la fronte e piange! Oh vieni! tergi quelle pupille care! Squassa il sonno di morte, e riconforta quest’alma Italia ch’è per voi risorta”. E l’anno dopo esprime il suo sdegno e il suo dolore per la ferita sull’Aspromonte in una lettera inviata all’eroe: “… E tu pugnasti come cento leoni pugnano, pel sacro de l'Italia riscatto: e non sapevi ch'era fato di lei languir nei ceppi de gli oppressori, o a' propri figli farsi giustiziera! E mi sovvien di quell'orribil ora che l'elettrica corda a' miei natali monti recava la novella iniqua: Garibaldi è ferito! Oh! come fiero quell'annunzio di morte al cor piombommi; e quanta gente maledissi... Allora io dissi a Dio: ‘Dammi o Signor, ch'io possa tosto veder con esultanza tutti i nemici d'Italia al suo giacenti, e di Nizza il leon sul Campidoglio!’”. E la morte del suo mito la lascia affranta: “Per l’immenso dolor mancar mi sento, e depongo la cetra e a più felice vate le gesta dell’erpe rammento. Sorga un vate più degno!”. Ma la sua opera più famosa resta il dramma storico “Emmanuele De Deo” del 1869, scritto a soli 15 anni, dedicato al giovane promotore della rivolta giacobina di Napoli del 1794, giustiziato a 22 anni. E per un altro martire napoletano, Mario Pagano, nel 1863 è chiamata a leggere una sua ode quanto si inaugura un busto dell’eroe della rivoluzione del 1899, nel palazzo di giustizia, inneggiante al “Santo di Patria, che un dì t’arse il core”.  Quello stesso anno il poeta Aleardo Aleardi, uno dei suoi corrispondenti, insieme a Giosuè Carducci ed al critico letterario Arturo Graf , le scrive: “Le donne greche cantavano l’amore. Le nostre hanno a cantar la Patria, i suoi fremiti, i suoi gemiti, le sue speranze, le sue glorie”.

Alinda e Laura furono infatti solo due delle voci più famose di una generazione di poetesse risorgimentali. Nel 1913, sulla “Nuova Antologia”, appare un saggio critico sulla poesia patriottica femminile a firma di Giulia Sanson. Vi si legge: “La nota più caratteristica della poesia femminile del secolo decimonono è la nota patriottica, non meno forte e costante che nella poesia maschile: tutte le poetesse diedero alla patria il loro contributo di versi; in quasi tutte l’affetto della patria predomina, aperto o velato, nell’insieme della loro opera poetica; per molte la patria fu il fine unico della loro poesia. Se non furono tutte buone poetesse, furono tutte buone Italiane, e di questo sia lode a loro”. Un impegno che va dai versi intrisi di retorica delle due più tipiche poetesse garibaldine -  la parmense Ada Corbellini morta solo 23enne, nel 1866,l le cui poesie sui ragazzi in camicia rossa infiammarono gli animi fino in Argentina  e la nizzarda Agata Sophie Sassernò (1814-1863), “fulminata” sulla via di Tersicore dallo sbarco a Nizza di Anita e Garibaldi - a quelli specchio di un reale impegno politico. Angelica Palli (1798-1875), figlia di genitori giunti dalle terre albanesi che sarebbero poi state occupare dalla Grecia, nell’Epiro, fece del suo salotto letterario livornese - frequentato anche da Vincenzo Monti - un centro di raccolta di denaro e soccorsi per le lotte del suo popolo contro il dominio ottomano, che cantò anche in versi. Per lei, già trentenne, perde la testa, riamato, il 19enne Giovan Paolo Bartolomei che sfida la famiglia cattolica per sposare la poetessa greco-ortodossa. Aiutati dal fratello di lei, la coppia fugge a Roma per ottenere una dispensa papale ma, senza esito, finisce per sposarsi a Corfù con il rito ortodosso e quindi rientra a Livorno con un bambino tra le braccia. Una storia simile è quella della poetessa rodigina Erminia Fuà (1834-1876). Nel 1856 sposa Arnaldo Fusinato, autore del Canto degli insorti e dei versi del “sul ponte sventola bandiera bianca” (poi entrati in una canzone di Franco Battiato) , nati durante la sua partecipazione agli assedi di Vicenza e Venezia del 1848. Erminia sposa il poeta-patriota contro il volere della famiglia, perché lei è ebrea e lui cattolico e con il marito (amico di Ippolito Nievo, del quale Erminia ne curerà la pubblicazione del romanzo) condivide versi patriottici, cospirazioni anti-austriache e fughe (oltre che la crescita dei figli, seppur minata dalla tubercolosi). Approderà quindi a Roma, dopo il 1870, per dirigere degli istituti femminili ma dove il suo male infine la ucciderà, a soli 42 anni. Altra importante poetessa - sepolta nella Basilica di San Miniato al Monte a Firenze - è la figlia di una delle autrici dell’Arcadia più importanti, Fortunata Sulgher. Grazie appunto alle eccellenti amicizie della madre, nel suo salotto di Livorno, Massimina Fantastici Rosellini (1789 -1859), fin da bambina vive in un vivace ambiente intellettuale ed ha tra i suoi mentori Vittorio Alfieri, divenendo anch’essa, come la madre, una stella delle accademie letterarie (dai 18 anni in poi ne è iscritta a ben 18). Giovanissima, nel salotto fiorentino della comune amica Luisa di Stolberg, contessa d'Albany, conosce e affascina Foscolo: “La Massimina mi s'è fatta - e il torto è mio tutto - più amica che amante; s'io ora volessi ch'ella sospirasse...” confessa il poeta. In età matura vede tra i suoi ammiratori Silvio Pellico che, nel 1844, la ringrazia della sua opera più famosa, dell’anno prima, il poema “Amerigo”, dedicato all'impresa di Vespucci, che vale a Massimina la medaglia d’argento dell'Accademia Tiberina: “Chiarissima Signora, padrona mia eccellentissima” le scrive l’autore delle Mie Prigioni, “io mi trovava al mio solito in misera salute, bisognoso di conforto, bramosissimo di far qualche bella lettura; nessun libro più opportuno mi poteva giungere per recarmi dolce sollievo… il poema suo ha avuto grande incanto su me. Alletta, strascina, ed offre mille generi soavi d'interesse poetico”. L’adesione di Massimina alla poesia patriottica è testimoniata dalla tragedia dei Profughi di Parga (del 1838), già cantata anche da Giovanni Berchet, e dedicata alla distruzione da parte dei turchi della città greca. Ma si ricorda anche un suo trepidante inno per la fregata del capitano Albini, eroe della guerra di Crimea: “Madre di forti fu l’inclita terra, ci parla ogni zolla di patria virtù, siam figli di prodi che caddero in guerra, ci narrano le tombe la gloria che fu”. Diventa tuttavia celebre per le commedie pedagogiche dedicate ai figli, pubblicate sempre nel 1838, che le conquistano fama di grande educatrice (e, in seguito, un ruolo di ispettrice degli asili infantili). Del 1845 è il grande successo del dramma “Il compare”, in cui racconta la storia di una contadina sedotta da un conte. Va a ruba e se ne stampano tre edizioni. Ma lei è costretta dal marito - il nobile toscano Luigi Rosellini, poi caduto in disgrazia - a firmarlo (per ragioni di convenienza) con lo pseudonimo Attilio Trotti. Educatrici e poetesse patriottiche furono anche le milanesi Cecilia Macchi e Ismenia Sormani Castelli. La prima a soli 16 anni già insegnante e autrice di novelle pedagogiche - ma destinata a morire a soli 25 anni -, pubblica, nel 1859, una raccolta di poesie politiche dedicate alla seconda guerra di indipendenza, “stampate nei giorni della gioja quali furono lette manoscritte dagli amici nei giorni del dolore” come si legge nella dedica. L’altra (1811-1903), amica di Mazzini, sostenitrice della Giovine Italia e animatrice con Laura Solera di alcune delle iniziative sociali di emancipazione femminili più note della seconda metà dell’Ottocento, è autrice di opere patriottiche di successo come “Il Profugo” e “Il Garibaldino”. Mazziniana, amica di Francesco Dall'Ongaro e di Carlo Tenza, è anche Caterina Percoto (1812-1887) che quando, nel 1867, incontra a Udine Giuseppe Garibaldi è da diversi anni la più famosa scrittrice di racconti di denuncia della povertà del Friuli sotto il dominio austriaco e, dal 1871, diventerà ispettrice degli educandati veneti. A Torino si pubblica poi, nel 1848, l’unica opera scritta da una donna sulla rivoluzione polacca del 1830, l’esule Anna Nakawaska. Una lettura che doveva certo far fremere anche i patrioti italiani, come ben si percepisce dalle parole con cui l’autrice dedica l’opera alla memoria del marito, martire per la libertà del loro paese: “Egli ebbe in cielo la palma dovuta ai confessori della religione della patria e di là già può contemplare l’aurora della vicina insurrezione”. ( Marina Greco )

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