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Le donne di Mazzini / 1 - Fedeli sotto la lanterna

Ritratti
Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all'Unità d'Italia. Donne protagoniste nell'economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell'attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

Le donne di Mazzini / 1 - Fedeli sotto la lanterna

A 1.400 chilometri di distanza, a Londra, sua “seconda patria”, è l’Apostolo della libertà (anche se per la regina Vittoria sarà sempre uno “spietato apostolo dell’assassinio”), il dolce esule dagli alti principi morali, cui un ministro degli Interni deve presentare le scuse ufficiali per averne aperto le lettere cospirative (mettendo i Borbone sull’avviso e causando la morte dei fratelli Bandiera). E invece qui, nella sua Genova, nell’estate del 1857, il 52enne Giuseppe Mazzini deve infilarsi in un pagliericcio di foglie di mais, schiacciato in mezzo a due materassi, mentre le guardie frugano a più riprese nella casa del marchese Ernesto Pareto. Quel re, al quale vedrà quattro anni dopo il “fratello” Giuseppe Garibaldi consegnare il suo sogno di Italia unita, lo ha già condannato a morte due volte, in contumacia. E si prepara a farlo per la terza volta, con Cavour che lo accusa di essere il “capo di un'orda di feroci e fanatici assassini”. E forse, mezzo soffocando in quel pagliericcio, l’ideologo si ritrova a  pensare se, a questo punto, non abbia visto giusto l’energico nizzardo a schierarsi giocoforza con il Piemonte sabaudo, quale unico “governo da cui possiamo sperare l'unità italiana”, come gli aveva scritto 4 anni prima. Quella lettera del 26 febbraio 1854, scrittagli da Garibaldi in occasione dell’ultimo loro incontro a Londra, nella quale il comandante dei Mille esponeva le stesse ragioni che stavano conducendo tanti altri democratici a distaccarsi dai progetti repubblicani della Giovine Italia per appoggiarsi alla corona sabauda, si chiudeva con un avvertimento che oggi, al Mazzini braccato, deve suonare profetica: “Diversamente credo che faremo un danno, in questi momenti solenni” (anche se poi Garibaldi chiosava con un “comunque poi vada bramo sempre rimanervi fratello”). E quel “diversamente” aveva infatti condotto alla fallita rivolta di Milano del 1853 ordita con Mazzini (che quindi rientra a Londra e fonda il Partito d'azione, che ha per motto "Cospirare per fare"), alla seguente mancata insurrezione in Lunigiana e all’arresto, nel 1854, del romagnolo Felice Orsini che doveva guidarla. E ancora ai fallimentari attentati a Napoleone III (progetti da cui comunque Mazzini si dissociò), compiuti prima dal calzolaio di Brisighella, Giovanni Pianori (nel 1855 spara all’imperatore due pistolettate senza ucciderlo) e poi dello stesso Orsini, ormai in rotta con “il Profeta Mazzini, sempre salvo per la semplice ragione che non si espone mai” (che, nel 1858, usa bombe piene di chiodi che fanno strage intorno alla carrozza di un illeso Bonaparte e finisce ghigliottinato). Una scia di fallimenti che si chiude ora con un Mazzini ricercato dopo la tragica impresa di Carlo Pisacane di conquista del Sud - l’ultima iniziativa rivoluzionaria in Italia, prima della seconda guerra di indipendenza -, finito massacrato con i suoi compagni, il 28 giugno 1857, a Sapri, mentre a Genova e Livorno si scatena una insurrezione durata solo poche ore, nella notte tra il 29 e il 30 giugno. A mezzanotte Mazzini era stato informato che il generale Durando aveva avuto una soffiata ed era in allerta. Incredibilmente, ad avvertire Mazzini, è la stessa persona che ha tradito. Mazzini dà il contrordine che però non riesce a fermare in tempo il gruppo di patrioti che, a Genova, si impadronisce del Forte Diamante dopo essersi fatto invitare ad una festa al suo interno (i congiurati erano riusciti a familiarizzare con le guardie, giocando con loro a pallone e suonando l’organetto per settimane). A Livorno, poi, i 300 insorti vengono presto sbaragliati dalle truppe granducali con la solita scia di arresti e condanne ai lavori forzati. Ma, in effetti, l’operazione non è mai stata un segreto negli ambienti della Genova democratica: da settimane, da quando Mazzini era giunto a maggio in città da Londra, ribolle di entusiasmo. E sono tanti gli amici che si stringono intorno a “Pippo” per coronare di successo l’impresa che, sperano, vedrà la sollevazione anti-borbonica del Sud ad opera dei mazziniani, battendo sul tempo Garibaldi che all’impresa dei Mille pensava ormai da anni. E tante sono anche le amiche presenti in quei giorni a Genova. A cominciare dalla battagliera Jessie White Mario che, già folgorata da un incontro a Nizza con Garibaldi, diventa nel 1856 a Londra una delle più ferventi sostenitrici di Mazzini (lo chiamerà il “Cristo del secolo”), smentendo la critica fatta da Felice Orsini al vate del Risorgimento che, nel suo esilio Oltremanica, si compiacesse delle attenzioni di un gruppo di donne solo “vane e pettegole”. Jessie con tutta la sua esuberanza (Mazzini la chiama “Hurricane Jessie” o “Miss Uragano”) entra a pieno titolo, cioè cospirando e raccogliendo fondi a favore della causa italiana, nel circolo femminile inglese che lo stesso barbuto genovese chiamava simpaticamente il suo “clan”. Nel maggio 1857 segue quindi il suo Apostolo a Genova, per preparare l’impresa di Pisacane. Abita nella stessa casa che ospita il ribelle ex ufficiale napoletano (che aveva già conosciuto da inviata in Italia per il “Daily News”), la sua compagna Enrichetta di Lorenzo (che per suo amore da 10 anni vive tra prigionia ed esilio, nella nostalgia dei tre figlioletti lasciati a Napoli presso il violento marito) e alla loro gracile figlioletta Silvia, di 4 anni. Enrichetta - unica donna presente nell’estremo summit avuto da Mazzini con Pisacane -, tenta inutilmente di dissuadere il compagno da guidare un piano che appare suicida (tanto che lo aveva rifiutato lo stesso Garibaldi) e che prevede di dirottare una nave di linea, liberare i prigionieri politici dell’isola Ponza, puntare su una Campania pronta a sollevarsi. Nell’ondata di arresti seguita invece al fallimento dell’impresa - mentre la barca carica di armi guidata da Rosolino Pilo si perde anche  in mare -, Jessie trova rifugio nel negozio del cappellaio Luigi Roggero, già luogo di raduno di storici mazziniani genovesi, come i fratelli ventenni Antonio e Carlo Mosto che gestivano una Società del tiro a segno che era in realtà luogo di addestramento per i patrioti e che, nel 1860, guideranno i carabinieri genovesi dei Mille, tra cui milita anche Stefano Canzio, marito di Teresita Garibaldi, terzogenita del generale e di Anita: i meglio addestrati, armati di carabine svizzere ultimo modello (il primo combatterà con Garibaldi fino a Monterotondo, il secondo morirà sul Volturno). Jessie verrà però arrestata e rinchiusa in carcere. In cella ritrova anche Alberto Mario, che aveva promosso una sottoscrizione per l’acquisto di 10mila fucili. La sua casa è stata uno dei tanti rifugi di Mazzini in quel ‘57 a Genova, insieme a quella dei fedeli Antonio Casareto e Felice Dagnino (il cui Caffé della Costanza era un altro ritrovo per i mazziniani). Mario sposerà Jessie pochi mesi dopo, in Inghilterra, entrambi espulsi dopo 4 mesi di prigionia. E sarà lei a raccogliere e tradurre in inglese il testamento politico di Pisacane. In quella estate del ’57, dunque, Mazzini riesce a sfuggire all’arresto nascondendosi appunto nel materasso del marchese Pareto, che viene arrestato per estorcergli inutilmente una confessione sull’introvabile nascondiglio dell’esule. Leggenda racconta che il giorno dopo l’arresto di Pareto, Mazzini sia riuscito ad eludere gli stretti controlli attorno alla villa del marchese tagliandosi la barba e fingendosi marito di una elegante signora e padre di una bella ragazza. I tre escono sorridenti dal cancello. Un disinvolto Mazzini offre persino un sigaro ad una guardia. La donna che Mazzini tiene a braccetto è la 56enne Bianca De Simoni, animatrice di un celebre salotto risorgimentale a Genova, instancabile promotrice di comitati di soccorso, fondatrice del collegio femminile delle Peschiere nel quale chiama ad insegnare il poeta Luigi Mercantini, autore dell’ode “La Spigolatrice di Sapri” dedicata a Pisacane e poco dopo dell’Inno di Garibaldi (“si scopron le tombe si levan i morti…”) che accompagnerà lo sbarco dei Mille facendo concorrenza al “Fratelli d’Italia” di Goffredo Mameli, l’eroe genovese morto nella difesa di Roma del 1849 che Bianca aveva conosciuto ed amato fin da quando era in fasce. Bianca è anche intima amica di Ernesta Manin, sorella di Daniele, anima della Repubblica veneziana del ‘48, che moriva proprio in quel ‘57 esule a Parigi, dove già il colera si era portato via la moglie Teresa Perissinotti e la figlia Emilia ed il cui figlio, Giorgio, sarà tra i Mille, ferito a Calatafimi. E Bianca è ancora amica del ruvido genovese Nino Bixio (tra i tanti genovesi mazziniani che abbandoneranno la causa dall’Apostolo) come del moderato Cavour, che lei ha conosciuto alla fine degli anni Venti nel salotto genovese della baronessa mazziniana Anna Schiaffino Giustiniani. Il futuro statista era un giovane tenente, la padrona di casa ne era diventata l’amante. Anche il marito dell’allora bellissima Bianca, il ricco banchiere genovese Lazzaro Rebizzo, aveva ceduto al fascino della inquieta nobildonna (che si suiciderà nel 1841, trentenne) e Bianca si rifarà poi legandosi di sincero affetto a Raffaele Rubattino, l’armatore genovese, amico di Cavour, che si lascerà “rubare” le navi - i primi piroscafi a vapore in Italia - per le missioni di Pisacane e quindi dei Mille e che alla morte di Bianca, nel 1869 (l’anno in cui acquista la baia di Assab, la prima base coloniale italiana), costruisce in sua memoria un grande monumento nel cimitero di Staglieno. La ragazza che accompagna Mazzini in quella pantomima fuori la villa del marchese Pareto è invece la figlia di Carlotta Benettini, Cristina. In casa della 45enne Carlotta, Pisacane ha tenuto l’ultima riunione notturna prima della partenza, insieme a 25 suoi compagni, ad ognuno dei quali consegna una pistola, un pugnale ed un berretto rosso. Carlotta, già arrestata 21enne, nel 1833, per la sua fede mazziniana (gli era stato trovato in casa un appello che incitava i genovesi alla rivolta contro Carlo Alberto), nel 1849 è salita sulle barricate di Genova insorta, accanto al figlio Carlo, poi è stata sempre in prima linea nell’aiutare, anche economicamente, gli esuli. Ora anche sua figlia ha la sua “prova del fuoco” patriottica aiutando la fuga del “Profeta”. La madre e la figlia nascondono Mazzini a Quarto. Poi entra in campo il console inglese a Genova per aprirgli la fuga verso Londra. Riescono a fuggire anche gli amici Rosolino Pilo, Antonio Casareto e Maurizio Quadrio, che aveva guidato l’insurrezione a Livorno. Il 28 marzo 1858 sono pronunciate le condanne a morte in contumacia per Mazzini, Antonio Mosto, Quadrio - che finisce a Londra a dirigere la rivista “Pensiero ed Azione” di Mazzini - e Casareto. Prima della sentenza, da Londra, Mazzini ammonisce: “Badate che a giudici italiani, i quali nel 1858 pronunziassero che gli italiani, che volevano morire o vivere con Pisacane per la libertà della Patria, meritano il patibolo e la galera, né Dio, né gli uomini perdoneranno”. Ma già l’anno dopo il re sabaudo, che si prepara a diventare re d’Italia, li amnistia. Intanto Cristina Benettini e suo marito, l’ingegnere Stefano Profumo, quello stesso anno finiscono esuli in Svizzera. Profumo sarà quindi in Sicilia nel 1860 e morirà a Napoli realizzando il primo acquedotto pubblico italiano. A Genova, in quei fervidi giorni che preparano l’impresa di Pisacane, c’è anche la 23enne Elena Casati. E’ ospite in casa di Carlotta. Conosce così la 22enne genovese Maria Alimonda, sposata al patriota Lorenzo Serafini. E Jessie White (nasce tra le due una grande amicizia che le vedrà nel 1880 unite nell’ultima battaglia di Elena (che morirà di polmonite due anni dopo) - la campagna per l’abolizione della prostituzione -, Elena ormai diventata una delle menti femminili dell’emancipazione italiana, già madre delle suffragiste e socialiste mantovane Ada e Beatriche Sacchi che, ad inizio ‘900, raccoglieranno il testimone delle sue battaglie sociali. Nata a Como da una famiglia di fede mazziniana, Elena ha 10 anni quando - calato il pugno di ferro del ritorno degli austriaci in città, dopo i moti del ‘48, orfana di padre, di fede liberale -, insieme alla madre Luisa Riva e alla sorelle Adele, Maria ed Alina, si mette sulle difficili strade dell’esilio: il Canton Ticino, Lione, Ginevra, Zurigo, Bruxelles. Strade che incrociano però i grandi esuli  mazziniani, ospiti in casa della madre: Aurelio Saffi, Maurizio Quadrio e ovviamente Mazzini che, nel 1854, per il 20.mo compleanno di Elena, le scrive una lettera: "L’onda del mare è salsa ed amara; il labbro rifugge dal dissetarsene. Ma quando il vento soffia sovr’essa e la solleva in alto nell’atmosfera, essa ricade dolce e fecondatrice. E la vita è come l’onda del mare: si spoglia dell’amaro che la invade levandosi in alto". Ma il cuore di Elena vola già molto in alto, anche perché è innamorato. Se, dopo la morte della madre nel ‘55, si ribella al controllo dello zio tutore, a Como, e decide di andare a vivere da sola e di dedicarsi all’attività politica e poi di arrivare nel 1856 a Genova, dove sa che si va preparando l’impresa di Pisacane, lo fa anche perché spera di rincontrare Achille Sacchi, il giovane reduce dalla Repubblica romana che tre anni prima aveva conosciuto nell’esilio Zurigo. I due giovani si ritrovano ed è passione. Tanto che, nel 1858, Mazzini, per quanto anticlericale, dovrà convincere Elena a sposarsi con il rito cattolico per far cessare lo scandalo della libera convivenza di una coppia che, come nessun altra, sarà mazziniana. “Due corpi e un’anima” come dirà lo stesso Mazzini. Elena, come farà d’altronde anche Jessy White, cercherà di trovare l’impossibile intesa tra le imprese di Garibaldi e quelle di Mazzini. E’ tra le massime esperte della corrispondenza cifrata che il Maestro invia da Londra. Quella che utilizza i numeri romani per indicare il verso dal quale prendere la missiva e i numeri arabi per l’ordine delle lettere necessarie a leggere i messaggi nascosti in passi poetici, come un passaggio della Divina Commedia di Dante o dell’Orlando furioso. Nel 1861, di nuovo a Genova, di nuovo con Carlotta Benettini, Elena è l’anima del Comitato femminile per il fondo sacro per Roma e Venezia che ricerca finanziamenti per le due imprese di liberazione, ispirato dallo stesso Mazzini, che Carlotta ha accolto a Genova, l’anno prima, subito dopo la partenza di Garibaldi e dei Mille da Quarto. Inutilmente, da mesi, Mazzini ha cercato di convincere Garibaldi a porsi a capo di una spedizione nello Stato Pontificio. E i mazziniani della prima ora si sono quindi rifiutati di partire per la Sicilia perché Garibaldi non fa mistero di combattere per il re sabaudo. Quindi aderiscono all’estremo progetto di Mazzini di marciare su Napoli, passando da Roma, nella speranza di raccogliere i volontari che affluiscono nella seconda ondata di partenze alla volta del Sud da liberare. Vi aderiscono, con spirito antimonarchico, Quadrio, Saffi, Casareto (che, ironia della sorte, finirà, 67enne, per ricevere la nomina di cavaliere della Corona d'Italia). La spedizione verrà però fermata a Castel Pucci. Mazzini, accompagnato anche da Cattaneo, punterà quindi su Napoli dove a settembre Garibaldi è già arrivato trionfatore. Ma riesce a parlare con il Generale solo dopo una lunga anticamera e per soli dieci minuti e, il 12 ottobre, viene addirittura contestato nella pubblica piazza, facendolo sentire amaramente “esule in patria”. Tuttavia, armato della forza delle sue idee, Mazzini fonda il giornale “Il Popolo d’Italia” e pubblica il compendio di tutto il suo credo: “I doveri dell’uomo”. Poi il ritorno a Londra, la decisione di dedicare tutte le sue residue forze per la liberazione di Roma e Venezia. E utilizza proprio una donna, Adelaide Cairoli, madre di garibaldini uccisi, per la quale Garibaldi nutre una sconfinata ammirazione, per cercare di convincere l’eroe nizzardo a riprendere la lotta per liberare Roma. Mazzini scrive ad Adelaide: “Garibaldi promette ogni tanto al Paese di guidarlo: il Paese lo aspetta; ma non deluda, perdio, l'aspettazione…”.  Ma, nel 1862, al nuovo barco di Garibaldi in Sicilia, deciso a raggiungere Roma passando da Napoli, arriva per Garibaldi la fucilata sull’Aspromonte. E l’ormai vecchio Mazzini si butta quindi su un’altra battaglia, tutta ideologica, quella contro il socialismo. Nel 1864, alla riunione della Prima Internazionale a Londra, Mazzini manda un osservatore ed è subito grade gelo con Marx. Non a caso Mazzini invita quello stesso anno Bakunin a conoscere le condizioni dei lavoratori liguri e lombardi e chiede ad Elena Casati di accompagnarlo. Intanto lei, instancabile finanziatrice, insieme al marito, delle imprese di Mazzini come di Garibaldi, nel 1866, definitivamente di casa a Mantova - malgrado la numerosa prole, partorirà 14 figli -, si dedica con entusiasmo al nuovo progetto mazziniano, l’Alleanza Repubblicana, con la quale, sullo sfondo della terza guerra di indipendenza, Mazzini rincorre ancora il suo sogno di conquista di Roma, simbolo assoluto della sua idea di Italia unita e repubblicana. Spentasi l’ultima speranza dopo la fallimentare campagna romana garibaldina, un 65enne e malato Mazzini, il 23 agosto 1870, arriva a Genova con un falso passaporto inglese. Si fa chiamare John Brown, si nasconde in casa di Giacomo Vivaldi. E’ convinto - così gli hanno assicurato -, che a Palermo lo attende un comitato rivoluzionario pronto ad insorgere al suo arrivo. E invece le spie - tra cui una stessa che gli procura il passaggio in nave -, hanno preparato nel porto siciliano un diverso comitato di accoglienza. Ancor prima di scendere dalla nave, il 14 agosto, lo arresta Giacomo Medici, diventato prefetto del Regno in Sicilia, sposato ad una nobile inglese, presto nominato marchese del Vascello per nomina reale. Solo la storia non scritta può immaginare cosa si siano potuti dire Mazzini e l’ex garibaldino. Si erano conosciuti per la prima volta trent’anni prima a Londra. Entrambi esuli: Mazzini, 36enne, fondatore della Giovine Italia e Medici, 23enne esule da Milano che si preparava, andando in Uruguay, a diventare il più fedele tra i garibaldini. Mazzini e Medici si erano ritrovati poi sotto le bombe francesi nella Repubblica romana del 1849: il primo triumviro, il secondo estremo difensore della villa sul Gianicolo.  Si erano fronteggiati alle elezioni del 1866: Mazzini era stato eletto deputato nel collegio di Messina sconfiggendo a schiacciante maggioranza proprio Medici, che però gli era subentrato nella carica perché il Parlamento italiano aveva annullato l’elezione di Mazzini, prendendo a pretesto le sue condanne. L’anno dopo un’amnistia permette a Mazzini di riprendersi la nomina ma stavolta l’esule rifiuta, anche perché  non intende giurare sullo Statuto albertino. Ora Medici fa scortare Mazzini nella fortezza di Gaeta. A portargli conforto in cella accorre Carlotta Benettini. Due mesi dopo una amnistia libera Mazzini che però esce di cella affranto: non vuole quella “grazia” dal Re sabaudo. Si tratta infatti del “regalo” che il Regno d’Italia concede ai condannati politici per “festeggiare” la presa di Roma. La conquista che il fondatore della Giovine Italia aveva sognato per tutta la vita. Ma che si avvera non come l’aveva sognata. Ed infatti il motto cavouriano del “Libera Chiesa in libero Stato” professato da Cavour già a gennaio è disatteso, con la legge delle guarentigie. Mazzini passa per Roma prima di ritornare a Londra. E fonda “La Roma del Popolo”, lo slogan del suo sogno perduto. Un anno dopo ritorna in Italia per morirvi. Ma già la memoria della sua presenza a Genova andava perdendosi. Tre anni dopo la morte del Profeta, infatti, si decide di creare un museo nella sua casa natale. Ma nessuno ricorda con precisione dove è ubicata e viene quindi eretta una targa su di un palazzo nelle vicinanze. E’ la 63enne Carlotta che interviene per indicare l’abitazione di via strada Lomellini. Un comitato impiega 6 anni per raccogliere le 16mila lire necessarie all’acquisto dell’abitazione. Seguendo quindi la descrizione data da Carlotta, che da bambina, a 7 anni, era entrata nella camera in cui Mazzini piangeva nel 1805, avvolto in fasce da neonato, si scopre che è finita inspiegabilmente murata. E a colpi di martello, abbattendo dei tramezzi, si ritrova la stanza in cui aveva visto la luce il Padre della Patria. E nacque così una delle prime case museo in Italia, poi sede dell’Istituto Mazziniano.


( Marina Greco )

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