di Paolo Pagliaro
Il caso di Cambridge Analytica, la società americana accusata di aver usato scorrettamente dati personali raccolti da Facebook e di aver interferito con le elezioni in paesi democratici di mezzo mondo, Italia compresa, difficilmente potrà chiudersi con le scuse di Mark Zuckerberg, pubblicate a pagamento domenica scorsa su alcuni quotidiani britannici.
Più delle scuse serviranno delle regole, visto che con qualche anno di ritardo si è constatato che Internet non è affatto il luogo dove si esercita la democrazia diretta, in condizioni di grande libertà. Si è preso atto che il web ha padroni ricchissimi e potenti, che sono i padroni dei dati che noi con tanta generosità gli regaliamo e che hanno trasformato un progetto costruito da una intelligenza collettiva e generosa in uno strumento al servizio degli interessi economici e politici di un ristrettissimo numero di imprese e istituzioni.
Tra i primi a segnalare questa possibile deriva della Rete fu in Italia Franco Bernabè, autore nel 2012 di un saggio intitolato “Libertà vigilata” in cui spiegava quanto fossero decisive - per uno sviluppo di internet compatibile con la democrazia - la parità delle condizioni di accesso ai dati, la protezione della privacy e del diritto alla riservatezza, la garanzia di adeguati livelli di sicurezza degli individui, delle imprese, delle amministrazioni pubbliche.
Internet invece, notava allora Bernabè, sta diventando l’ossimoro perfetto: una combinazione di libertà vigilata, concorrenza monopolistica, concentrazione distribuita. Un mondo senza regole che porta alla prevalenza del più forte.
La previsione sembra essersi avverata.
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