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Governo: ai “clienti”
ciò che si aspettavano

Paolo Pombeni

(19 ottobre 2018) Dunque la manovra del governo del cambiamento è passata. Non è cambiato nulla nel costume politico dei governi italiani, della prima, seconda e terza repubblica: alla fine si deve trovare l’accordo, a meno che non si voglia far saltare l’esecutivo, e il prezzo è che ogni componente possa avere di che accontentare i propri “clienti”, almeno a parole.
Che l’attuale governo non possa saltare è chiaro a tutti o quasi: non c’è ricambio possibile se non con elezioni anticipate che in questo momento dell’anno non possiamo permetterci e che nessuno vuole, né nella maggioranza né nell’opposizione. I due partiti di governo capiscono bene che andare alle urne con sulle spalle la responsabilità di aver messo in grosse difficoltà il paese (per non dire di peggio) non è nel loro interesse. Oltre tutto dovrebbero presentarsi alle elezioni combattendosi e questo renderebbe difficile poi tornare a governare insieme. Quanto alle opposizioni sono così falcidiate da lotte intestine che non riuscirebbero ad avere un successo tale da rimetterle in pista per una posizione adeguata nel nuovo parlamento.
Dunque i due dioscuri Salvini e Di Maio sapevano benissimo che dovevano “trovare la quadra” come avrebbe detto il vecchio Bossi. Spettava solo a loro, perché né Conte, né Tria e nemmeno Savona hanno un peso degno di questo nome. Tuttavia si sapeva bene che la partita non era poi così difficile, almeno in questa fase, perché non si trattava di trovare il modo di mettere insieme una manovra che stesse in piedi, ma più semplicemente di trovare il modo di annunciare che ciascuno avrebbe realizzato quanto promesso.
La vera posta in gioco era semplicemente su due punti, il resto era marginale. La Lega voleva a tutti i costi la riforma pensionistica, i pentastellati dovevano portare a casa il reddito di cittadinanza. Poi c’è un po’ di contorno: taglio delle cosiddette pensioni d’oro, riduzione della spesa per gli immigrati, un condono fiscale contrabbandato come sussidio ad indigenti che preferiscono pagare i loro operai anziché il fisco.
La riforma della Fornero è un tema che porta molto consenso, perché, diciamo la verità, quella era stata la tipica riforma di una professoressa che guarda la lavagna coi suoi conti senza vederci dietro la faccia della gente. Non si è tenuto conto che tutta una larghissima fascia di popolazione si sarebbe sentita defraudata dall’oggi al domani di un privilegio di cui avevano goduto per decenni tutti i loro colleghi, amici e conoscenti più anziani. Il sogno di poter tornare indietro a quel privilegio sarebbe diventato una bomba sociale, per cui gli interventi che era inevitabile fare avrebbero dovuto essere programmati in modo da disinnescarla e non è stato fatto.
La Lega ne ha approfittato e ha pure capito che tornava utile far uscire pacificamente dal mercato del lavoro un bel numero di persone: aiutava un sistema produttivo che con l’automazione aveva ridotto le sue necessità di personale (si pensi a ciò che succede nelle banche con tutti gli sportelli elettronici e l’home banking dal computer del cliente) e poteva dare l’illusione che un po’ dei posti che si liberavano avrebbe potuto essere riempito da giovani disoccupati.
I Cinque Stelle avevano il problema di trovare una forma moderna di assistenzialismo che rispondesse ad un problema reale, l’ampia fascia di disoccupazione e sotto occupazione soprattutto al Sud. Hanno capito che dopo anni di propaganda sul fatto che lo stato deve assicurare il lavoro a tutti, si era radicata l’idea che in assenza di questo lo stato dovesse almeno mantenere coloro ai quali non era riuscito a trovare lavoro. Chi dice che sarebbe stato meglio che i soldi del reddito di cittadinanza venissero impiegati per agevolare le assunzioni nelle imprese (e nella pubblica amministrazione) non ha capito che in quel caso nessuno si sarebbe sentito garantito, perché era evidente che si sarebbe trattato di posti che chissà dov’erano dislocati e di posti soggetti a selezioni della cui correttezza in Italia si fidano in pochi. Il reddito di cittadinanza invece arriva a ciascuno nel suo posto di residenza e senza competizione con altri: almeno questa è l’illusione che circola nel paese.
Per il momento la strategia dei due partiti sostanzialmente funziona, perché ognuno ha dato ai suoi clienti quel che si aspettavano e sembra averlo dato in modo da riscuotere il dividendo alle prossime elezioni europee. In verità questo vale più per la Lega, che una volta fatta passare la normativa la rende subito applicabile (da febbraio 2019) e si sa che non potrà comunque essere fermata, salvo cataclismi, almeno sino ad inizi 2020. Per i Cinque Stelle la questione è più complicata, perché non sarà facile individuare in tempi brevi la platea di chi ha diritto al reddito di cittadinanza e quando questo avverrà ci sarà un bel mucchio di delusi, perché il numero degli aventi diritto sarà molto inferiore a quello di coloro che credono di poterne beneficiare. Tuttavia forse del pasticcio ci si accorgerà solo col tempo, e ad M5S basta arrivare alle urne di maggio dando la colpa del ritardo ai soliti burocrati che mettono bastoni fra le ruote.
E se la UE ci bocciasse rendendo la manovra difficile? Molto improbabile: anche a Bruxelles alzano molto i toni ma al dunque non è che possano davvero permettersi in questo momento di mordere come vorrebbero. Se lo faranno davvero, sarà uno scenario imprevisto.

(da mentepolitica.it)

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