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direttore Paolo Pagliaro

I naufraghi senza volto
del Mediterraneo

Libri
Ogni settimana uno scaffale diverso, ogni settimana sarà come entrare in una libreria virtuale per sfogliare un volume di cui si è sentito parlare o che incuriosisce. Lo "Speciale libri" illustra le novità delle principali case editrici nazionali e degli autori più amati, senza perdere di vista scrittori emergenti e realtà indipendenti. I generi spaziano dai saggi ai romanzi, dalle inchieste giornalistiche, alla storia e alle biografie.

I naufraghi senza volto <br> del Mediterraneo

I NAUFRAGHI SENZA VOLTO DEL MEDITERRANEO

Quanti di noi hanno un amico, un parente, un conoscente, un contatto di lavoro in città come Modena, Agrigento, Bolzano, Ancona, Salerno o Como? Città grandi, abitate da circa quarantamila persone. E se un giorno questi nostri contatti si interrompessero, se queste quarantamila persone scomparissero tutte nel nulla? (Secondo uno studio dell'Organizzazione mondiale per le migrazioni, dal 2000 a oggi quarantamila persone in carne ossa sono scomparse nel Mediterraneo nel tentativo di arrivare in Europa. Sono i migranti che dai paesi poveri o in guerra abbandonano la propria terra per cercare un futuro migliore (o anche solo un futuro). Attorno a ciascuna di queste persone ruotava un intero mondo, amici, parenti, relazioni... la vita). E cosa fa chi li aspettava e cerca notizie? Spesso si rivolge a Cristina Cattaneo, docente di Medicina legale all'Università degli studi di Milano e direttrice del Labonof, il Laboratorio di antropologia e odontologia forense, che dal 2013 lavora alla catalogazione dei reperti dei migranti morti nel Mediterraneo. Migliaia di persone si rivolgono a lei per sapere se l'amico, il parente, il conoscente sia morto nella traversata. Cattaneo analizza ossa, vestiti ed effetti personali per ricostruire le identità degli sfortunati. E a una parte di essi è riuscita a dare nome e provenienza, salvandoli almeno dall'oblio e restituendo a chi li cerca almeno la certezza di poterli piangere. L'antropologa piemontese racconta questa sua esperienza nel libro "Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime" (Cortina Raffaello, 2018, 198 pagine, 14,00 euro). Lo fa con un'opera che è un viaggio dantesco all'interno della disperazione umana, degli squilibri di un mondo che genera diseguaglianze tali da indurre masse imponenti di popolazioni a muoversi da una parte all'altra del Pianeta, anche a rischio altissimo di morte. E lo fa partendo proprio dalla morte, da ciò che resta di una vita spezzata, da migliaia di vite anonime distrutte dal bisogno: un giovane corpo che porta in tasca una bustina di terra dell'Eritrea, il paese da cui è scappato; un altro con addosso la tessera della biblioteca di un villaggio del Ghana; il piccolo cadavere di un bambino con un giubbotto la cui cucitura conserva la pagella scolastica scritta in arabo e in francese. Testimonianze emozionanti di vita, di voglia di vivere e di inseguire un riscatto; tasselli strazianti di un puzzle che ricompone la storia antica del Mediterraneo, attraverso la difficile ricostruzione di migliaia di biografie che, pur inghiottite dalle onde, testimoniano di come la speranza sia così forte nell'uomo da portarlo anche a "morire di speranza". Leggere questo libro, anche per chi non ha mai visto un barcone, non ha mai dovuto lasciare il luogo natio, non ha mai visto un migrante, significa conoscere razionalmente ed emozionalmente il dramma migratorio dei nostri tempi. Significa entrare in contatto con corpi morti che parlano, con argomenti più persuasivi di quelli dei vivi, perché sono essi stessi testimonianza forte della disperazione umana e degli squilibri non più sopportabili di un sistema mondiale in crisi.

 

L’IRAN AL TEMPO DI TRUMP

Quando qualche anno fa il multilaterale e intenso lavoro politico e diplomatico tra Unione Europea, Usa e Iran portò al delicato accordo sul nucleare nel Paese arabo, si accesero grandi speranze per il Medio Oriente e tra chi guarda a un mondo dove il dialogo e la convivenza pacifica attraverso di esso vengono prima del conflitto e delle prove di forza. Ma con l'elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d'America queste speranze vengono presto ridimensionate e torna a farsi strada un pessimismo diffuso. La causa sta nella politica estera del nuovo presidente, soprattutto quella nei confronti dell'Iran, che pare piegare più verso un atteggiamento di contrapposizione che si sperava ormai superato che di dialogo politico-diplomatico e distensivo. Testimonianza ne è stato il suo discorso all'Assemblea Generale dell'Onu del settembre 2017, i cui effetti e reazioni sono stati immediatamente percepibili anche sui social – dove il pessimismo tornava a leggersi in modo diffuso sia tra gli utenti iraniani che del resto del mondo – e nell'opinione pubblica mondiale. Su questo importante cambio di passo è interessante leggere il libro di Luciana Borsatti, "Iran al tempo di Trump" (Castelvecchi, 2018, 144 pagine, 16,5 euro). Un libro bello da leggere perché racconta il mutamento di clima – in negativo – immergendosi tra i cittadini iraniani per ascoltare direttamente dalle loro voci testimonianze e umori, opinioni e diversi punti di vista. E così facendo coglie emozioni private e generali che poi restituisce ai lettori in un affresco vivido di quel popolo. E dallo spunto, o meglio dalla prioritaria e vitale questione del nucleare, il libro allarga i propri orizzonti, scavando nei cambiamenti più profondi di quella società, a cominciare dalla questione femminile. Un libro, dunque, che attraverso la scrittura esperta di giornalista laureata in Storia moderna e con un passato da corrispondente dal Cairo e da Teheran, si configura come strumento agile, razionale ed emozionale al tempo stesso per comprendere la realtà e complessità di un Paese di primaria importanza nello scacchiere mediorientale e mondiale e per nulla contenibile nelle semplificazioni che troppo spesso passano sui media e nell'opinione pubblica diffusa.

 

IL PRIMO BACIO, L’EDUCAZIONE SENTIMENTALE DEI NOSTRI FIGLI

Il primo bacio non si scorda mai. Perché è un punto di svolta, il primo passo nel mondo sconosciuto della sessualità. Per questo è importante insegnare ai ragazzi a non sprecarlo, a dargli un significato, a chiedersi cosa vogliono e sentono davvero, prima di lanciarsi in una esperienza tanto per farla. Non è mai troppo presto, né troppo tardi, per iniziare a parlare dei primi baci e affettività: basta trovare il modo giusto, adatto all’età dei nostri figli. L’unica cosa che non possiamo proprio permetterci è tacere, soprattutto oggi che i giovani sono tempestati di stimoli troppo grandi per loro. Nel libro “Il primo bacio. L'educazione sentimentale dei nostri figli” (De Agostini) Barbara Tamborini e Alberto Pellai ci aiutano a mettere a fuoco quale educazione sessuale e affettiva è bene trasmettere ai nostri figli, perché trovino la propria strada a partire da alcuni valori di riferimento. Ci danno suggerimenti per rompere il ghiaccio, per superare l’imbarazzo, per incoraggiare i ragazzi a confidarsi con noi. Ci mettono alla prova con test e situazioni tipo. Ma soprattutto, ci aiutano a calarci nelle mille emozioni legate al primo bacio, grazie a quaranta storie di primi baci, a volte belli, a volte meno, ma sempre e comunque indimenticabili. Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, è ricercatore presso il dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università degli Studi di Milano, dove si occupa di prevenzione in età evolutiva. Nel 2004 il Ministero della Salute gli ha conferito la medaglia d’argento al merito della Sanità pubblica. Tamborini è psicopedagogista, autrice di diversi testi sull’età evolutiva. Insieme sono autori di molti bestseller per genitori, educatori e ragazzi, tra cui L’età dello tsunami. Come sopravvivere a un figlio pre-adolescente, Una canzone per te. Viaggio musicale per diventare grandi, Il metodo famiglia felice. Come allenare i figli alla vita, Coccolario. Un viaggio emozionante in 30 tenere filastrocche, Ammare. Vieni con me a Lampedusa. Molti dei loro titoli sono stati pubblicati in oltre dieci Paesi stranieri.

 

NAPOLEONE E L’ARCHIVIO DEL MONDO

All’inizio dell’Ottocento, Napoleone conquistava l’Europa. E mentre l’impero si estendeva fino alla Vistola e al Danubio, prese forma il progetto di trasferire a Parigi gli archivi più importanti dei paesi annessi e degli Stati satelliti: un Archivio del Mondo, che sotto l’astro di Bonaparte avrebbe riunito le testimonianze scritte della civiltà. Parigi sarebbe diventata la capitale della Storia. Una gigantesca impresa di confisca degli archivi fu dunque avviata nel 1809 in tutta Europa. Decine di funzionari, uomini di lettere, gendarmi, operai furono mobilitati. Con la Restaurazione i documenti ripresero (quasi tutti) la via del ritorno, a suggellare il nuovo ordine emerso dal Congresso di Vienna e la nascente Europa delle nazioni. “L'archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia” (Laterza) di Maria Pia Donato racconta un’impresa titanica, forse la più folle tentata da Napoleone e da un impero in cerca di radici. Un grande sogno che nasceva dalla consapevolezza che chi possiede gli archivi, possiede la Storia. E chi possiede la Storia, controlla la visione del futuro.
Una impresa che oggi, nel mondo digitale, può apparire come una curiosità da relegare a un remotissimo passato in cui si facevano le guerre per possedere atti e pergamene. In realtà, non è così. I furti di documenti sono ancora una modalità delle dittature, del conflitto etnico e confessionale. Di più: possedere l’informazione, governare la narrazione storica è questione più che mai aperta. Donato è directrice de recherche CNRS all’Institut d’Histoire moderne et contemporaine di Parigi, dopo aver a lungo insegnato Storia moderna all’Università di Cagliari. Ha svolto attività di ricerca e insegnamento, tra l’altro, al Warburg Institute di Londra, all’EHESS di Parigi, alla Pontifícia Universidade Católica di Rio de Janeiro e alla New York University. Tra le sue numerose pubblicazioni, Morti improvvise. Medicina e religione nel Settecento (2010) e Atlante storico dell’Italia rivoluzionaria e napoleonica (2013).

 

QUANDO C’ERA L’URSS DI GIAN PIERO PIRETTO

In oltre 600 pagine, in un libro importante e imponente, Gian Piero Piretto - docente di Cultura russa e Metodologia della cultura visuale – ci racconta 70 anni di storia culturale dell’URSS, dal 7 novembre, data della Rivoluzione d’Ottobre, fino alla notte del 25 dicembre 1991, quando la bandiera rossa venne ammainata per sempre dalla cupola del Cremlino. Lo fa attraverso un ricchissimo apparato iconografico: cartoline, manifesti, quadri, riviste, fotografie e fotogrammi che accompagnano un racconto approfondito della storia culturale e del costume, della vita pubblica e privata dello stato comunista. “Quando c’era l’Urss” (Raffaello Cortina Editore) nasce sull’impronta di un altro libro, “Il radioso avvenire. Mitologie culturali e sovietiche”, scritto da Piretto nel 2001e pubblicato da Einaudi, già da alcuni anni fuori catalogo. Questo nuovo lavoro non è però un semplice ampliamento del precedente libro che si fermava al 1980, bensì una riscrittura per molte parti e un apparato iconografico totalmente rinnovato, perché, citando l’autore “è nata l’esigenza di ripensare il vecchio libro, rivederlo, correggerlo, integrarlo, aggiornarlo col senno di poi e grazie alla sterminata bibliografia che in tutti questi anni si è accumulata”. Piretto è docente di Cultura russa e Metodologia della cultura visuale all’Università degli Studi di Milano, ha tradotto opere di Čechov e altri autori russi e ha firmato importanti studi sulla storia della cultura sovietica. Nelle edizioni Cortina ha curato Memorie di pietra. I monumenti delle dittature (2014), pubblicato Gli occhi di Stalin. La cultura visuale sovietica nell’era staliniana (2010) e Quando c’era l’URSS. 70 anni di storia culturale sovietica (2018). Il volume sarà presentato il 23 23 gennaio alle 19 presso l’Associazione Italia Russia, via Giulio Natta 11 Milano.

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