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direttore Paolo Pagliaro

Non è dal franco africano
che fuggono i migranti

di Paolo Pagliaro

(22 gennaio 2019) In Africa cento milioni di persone parlano francese, e questo è un retaggio del passato.  Ma poiché nel frattempo il primo investitore nel continente è diventata la Cina, in alcuni paesi come il Kenya dal prossimo anno a scuola si studierà il mandarino, perché così sarà più facile trovare lavoro. Questo invece dà un’idea di ciò che promette il futuro.

La polemica dei 5 Stelle contro il colonialismo monetario  di Parigi arriva dunque fuori tempo massimo. Da decenni si discute – anche e soprattutto in Francia -  se sia utile e giusto che 14 paesi usino il Franco della Comunità Finanziaria Africana, la moneta che De Gaulle lasciò  in eredità alle ex colonie e che prevede presso il Tesoro francese una ‘stanza di compensazione’ per disavanzi e attivi. C’è chi sostiene che questo legame sia un freno allo sviluppo perché penalizza le esportazioni e che costituisca uno strumento di controllo indiretto da parte della Francia, che in Africa difende con spregiudicatezza i suoi molteplici interessi.
Altri ritengono invece che il cambio fisso con l’euro assicuri una stabilità  monetaria senza la quale le condizioni di quei paesi e delle loro popolazioni sarebbero peggiori di quelle attuali.

In effetti nei 14 paesi interessati l'inflazione è nell'ordine del 2%, mentre nel resto dell’Africa è quasi sempre a due cifre. Il caso limite è quello dello Zimbabwe, che ha una banconota da 100 mila miliardi di dollari.
Non c’è peraltro alcun obbligo di restare nell’unione monetaria, tant’è che in passato alcuni paesi come la Mauritania e il Madagascar  ne sono usciti e altri  come il Mali – dopo esserne usciti – sono rientrati.

Ma soprattutto non sembra esserci alcun legame tra la moneta utilizzata  e il sottosviluppo che genera emigrazione. Tra i principali paesi di provenienza dei richiedenti asilo in Italia, non c'è nessuna ex colonia francese.  

 

(© 9Colonne - citare la fonte)