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direttore Paolo Pagliaro

Perché non conviene
vendere l’oro

di Paolo Pagliaro

(11 febbraio 2019) L’idea di vendere l’oro custodito dalla Banca d’Italia per finanziare le politiche governative non è nuova e non è eversiva, ma sicuramente è poco conveniente. Cominciamo col dire che la Banca d’Italia è il quarto detentore al mondo di riserve auree, dopo la Federal Reserve americana, la Bundesbank tedesca e il Fondo monetario internazionale. Sono 2.452 tonnellate, custodite in parte a Roma, nel caveau della Banca, in parte negli Stati Uniti, in Svizzera e nel Regno Unito. I lingotti stanno insomma nei luoghi in cui li abbiamo comprati, perché trasportarli è costoso e rischioso. Le riserve auree italiane valgono circa 86 miliardi di euro, che sono ben poca cosa rispetto ai 2300 miliardi del debito pubblico. Ma come ha ricordato Salvatore Rossi nel suo recente libro intitolato appunto “Oro”, nel 1974 parte di quel tesoretto fu comunque utilizzato come pegno a garanzia del prestito che la Germania ci aveva fatto per tamponare le falle aperte nei nostri conti dalla fuga dei capitali all’estero. Nel 2009 Giulio Tremonti propose di tassare le plusvalenze sull’oro della Banca, ma fu bloccato dalla Bce. Non ebbe miglior fortuna, due anni dopo, la proposta di Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio, che avrebbero voluto utilizzare le riserve auree degli stati europei per dar vita a un Fondo che rilevasse i titoli di Stato. Oggi c’è chi ricorda che l’utilizzo delle riserve auree violerebbe gli accordi sottoscritti quando nacque l’euro ma le obiezioni più convincenti sono quelle illustrate da Rossi nel suo libro: la prima è che se la Banca centrale riversasse sul mercato le sue tonnellate d'oro provocherebbe un drastico calo del prezzo. La seconda è che se anche ne vendesse un po' alla volta, gli altri Paesi leggerebbero la decisione come un segno di disperazione. Non proprio un bel messaggio a chi deve finanziare il nostro enorme debito pubblico.

 

 

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