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direttore Paolo Pagliaro

Se la sinistra
avesse un’anima

di Francesco Provinciali

(20 febbraio 2019) Si sbiadisce inesorabilmente - in Italia e in Europa - l’immagine di una sinistra paladina dei più deboli, degli indifesi, dei lavoratori e dei pensionati: insomma di una sinistra che sappia parlare al popolo e lo rappresenti. Solo Corbyn resiste ma non trarrà certo vantaggi dalla Brexit e presto il suo megafono avrà le batterie scariche. Ma la deriva si osserva anche dalle nostre parti.
Porgendo l’orecchio agli echi della “convention” del PD che - dopo lunghi ed estenuanti preliminari per definire le candidature interne al Partito - è solo l’avvio di una road map infinita, che eleggerà un segretario circa venti giorni prima del voto europeo, si ascoltano più proclami che idee, più invettive che conciliazioni, più distinguo e ostentazione di autoreferenzialità: sussurri e grida che francamente lasciano il tempo che trovano e si consumano nel computo dei decimali.
Ci vuole un “padre” suggerisce dall’alto di un prestigio antico Romano Prodi, ci vogliono dei “figli” gli ribatte il giovane Martina, preoccupato che i vecchi notabili non mollino il partito.
E mentre Calenda tenta il rilancio del manifesto “Siamo europei” unica vera novità di rilievo, scontrandosi con lacci, lacciuoli e veti incrociati, Enrico Letta fa leva sul sentimento dell’unità di intenti, cogliendo da una posizione defilata rispetto alle gerarchie interne l’eterno ritorno delle lotte intestine, delle vocazioni suicidarie, delle lezioni mai abbastanza imparate.
Doveva stare sereno (e lo avrebbe davvero meritato, visto che si tratta di persona di indiscussa competenza) ma con buona pace di chi l’ha messo nell’angolo non riesce ad esserlo.
E come potrebbe?
Spesso attribuiamo ai dati esteriori, al movimentismo, all’organizzazione, all’ortodossia dei fattori oggettivi una valenza superiore all’incisività della loro portata: dimenticando che sono le persone che - nel bene e nel male - fanno la differenza, perché le idee e gli apparati camminano con le loro gambe.
La specificità politica, di senso, di progetto, di visione che passa tra i tre candidati alla segreteria nazionale è impercettibile ai più: penso occorra una sorta di algoritmo di lettura delle sfumature che pure agli addetti ai lavori appaiono invece decisive, storiche, epocali.
Ma almeno questi ci hanno messo la faccia, ci credono davvero ma sono le seconde linee che trarranno benefici di rendita e di posizione.
La gente continua a non capire come mai regole antiche e metodi arcaici condizionino in modo così pesante la vita del partito, ammantate da richiami formali al rispetto delle procedure, abbacinate dall’ossessione della trasparenza, delle riunioni di circolo, dalle strategie dei tavoli di confronto dove si consuma tutta l’aria dell’ambiente che ospita conciliaboli inconcludenti e logorroiche dissertazioni.
Orma il PD è cosa a sé, incapace persino di cogliere gli errori marchiani e l’incedere a caterpillar della maggioranza di governo che pare aver appreso la teoria di Enrico Cuccia secondo cui le azioni (anche quelle dell’esecutivo) non si contano ma si pesano.
Qui - invece - a forza di contare si finisce con un pugno di mosche in mano: vedasi il voto alle regionali in Abruzzo.
Non basta più il confessionale (“siamo lontani dai problemi della gente”, “dobbiamo recuperare il rapporto con la società civile”, “evitiamo la marcia infinita verso suicidi e scissioni”, “cerchiamo l’unità per il bene comune”), forse ora serve una terapia di gruppo che recuperi sentimenti e identità perdute.
Per questo se rincorrere le evidenze oggettive non porta risultati bisogna puntare tutte le fiches sulla scelta delle persone: serve, anzi urge, una classe dirigente del tutto nuova e svincolata dai retaggi del passato e dalle certosine e bizantine operazioni di “conta”: questo è con me, quello è con te, quell’altro si vedrà.
E la questione non si riduce - non può essere una cosa così semplice - alla sola scelta del timoniere.
Sono lontani i tempi in cui il segretario del Pci Enrico Berlinguer riempiva le piazze di lavoratori: li chiamava così, “lavoratori”, perché il lavoro e non il reddito di cittadinanza sta nell’articolo 1 della Costituzione.
Chiedeva dignità e rispetto, offriva coerenza e centralità della questione morale. Sono dimenticati nel sentire comune i tempi di Sandro Pertini che da Presidente della Repubblica sapeva commuoversi, si asciugava le lacrime e sbatteva la pipa sul tavolo per dire dei “no”.
La disinvoltura e la globalizzazione hanno preso il sopravvento, la deriva autolesionista e distruttiva ha avuto la meglio sui flebili vagiti di richiamo all’unità.
“Unità”: era il nome del quotidiano del partito, una bandiera, un valore.
Le feste dell’Unità erano il simbolo di una comunità, l’icona di un’appartenenza.
Ora i suoi capoccia non riescono neppure a mettersi d’accordo per una pizza, una cena, un aperitivo.
I congressi di un tempo erano fucine di idee e molle di rilancio dell’immagine: si sono preferite le Leopolde e i conventi, i luoghi appartati e le èlite culturali, quelle che parlano sempre e non concludono mai.
Il Pci, la sinistra, si sono frantumati in mille schegge, ha prevalso la tendenza divisiva e la ricerca dei nemici in casa: si sono formati cenacoli, partitini e caminetti che rappresentano sé stessi, non la gente.
La sinistra ha perso i suoi valori, i simboli, la coesione, i riferimenti ideali e culturali.
Oggi francamente si sta consumando come un cero al tabernacolo laico del “potere al popolo”.
Non ha saputo evolversi verso una socialdemocrazia moderna, ha perduto frange estreme ed autoreferenziali: la sinistra del nostro tempo andrebbe analizzata al Cern di Ginevra, dove si studia la parcellizzazione dell’atomo.
Credendo che la sicurezza fosse un tema di destra ha perduto le periferie e la gente spaventata dalle orde barbariche della delinquenza impunita, il suo buonismo salottiero e inconcludente ha portato alla depenalizzazione dei reati minori, abbassando la soglia della punibilità e alzando la paura sociale. Ha pensato di comprare gli italiani in difficoltà con 80euro, ha fallito la riforma della scuola, non ha saputo gestire l’ondata di immigrati, non ha capito che l’ascensore sociale era fermo e con le ragnatele ai saliscendi. Non ha compreso il rancore montante, la demotivazione sfibrante, le ansie e i timori dei padri e delle madri di famiglia, ha lasciato per strada i giovani, ha abbandonato i risparmiatori nelle mani di banchieri senza scrupoli, gli anziani nella loro solitudine piena di desolazione e rimpianti.
Dov’è la sinistra? Semplicemente non c’è più, chiusa nelle nicchie – rigorosamente separate e animate da odio reciproco – di capi e capetti che vivono di rendita, incapaci di darsi una successione, di aprirsi al nuovo, di reclutare gente onesta e pulita, competente e capace.
Questa strada porta verso l’inazione e la paralisi, per recuperare credibilità bisogna meritare la fiducia che un tempo portava la gente nelle piazze.
Ora tutto è fermo e rarefatto, se lo sarà per lungo tempo vedremo solo le luci di coda dell’ultimo treno che sta passando, fermi e paralizzati sul marciapiede di un binario senza direzione.
Parlare si parla, forse anche troppo. Mille rivoli di parole inconcludenti che rimandano sempre al dopo, mentre si consuma la fine degli ideali, l’obsolescenza dei valori, la stessa speranza di reinventare un’immagine, un’idea di società, un’anima.

(da mentepolitica.it )

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