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L’Unione Europea
ai tempi di ebola

L’Unione Europea <br> ai tempi di ebola

di Carlo Perrotta*

(5 aprile 2019) In vari articoli dedicati dalla stampa internazionale all’epidemia di ebola in corso dal mese di agosto nella Repubblica Democratica del Congo si evidenziano (da ultimo, l’Economist 23 marzo) reiterati attacchi armati alle strutture sanitarie, con morti e devastazione, la persistenza di pratiche funerarie ad elevato rischio di contagio ed una diffusa sfiducia locale nei riguardi degli aiuti, erogati come forse noto anche dall’Unione europea.

La quale tuttavia ad oggi nulla di quanto sopra riporta nel proprio “resoconto fattuale” http://ec.europa.eu/echo/files/aid/countries/factsheets/thematic/wa_ebola_en.pdf
Eppure, in quanto fattuali, i resoconti si basano com’è ovvio… sui fatti, e auspicabilmente nel loro ordine di rilevanza, ordine rispetto al quale il numero di elicotteri messi a disposizione o la suddivisione delle squadre di soccorso in base alla nazionalità (e altro di cui nel citato resoconto vi è appunto abbondanza) rileva forse meno rispetto ai predetti ostacoli allo sradicamento della malattia, su cui diversamente appunto si tace.

Si potrebbe osservare, in altri termini, che oltre a quanto si è compiuto i resoconti dovrebbero indicare anche (e forse soprattutto) quanto resta da compiere.

Il silenzio nel resoconto Ue appare poi particolarmente problematico con riferimento alla menzionata sfiducia, specie perché con inquietanti domande tipo “quando le milizie ci massacravano, dove eravate?” (vd ad esempio New York Times, 8 marzo) vengono messe in questione le reali motivazioni dietro gli aiuti. Ma soprattutto, in mancanza di meglio, il resoconto fattuale dovrebbe perlomeno evitare di alimentarla, la sfiducia, con riferimenti infelici come il grado di rischio che ebola raggiunga il continente europeo: nelle iniziative rivolte ai Paesi terzi ed a questi soltanto (art. 1 Regolamento 1257/96) su riferimenti di tale tipo si dovrebbe soprassedere, per ovvie ragioni di tatto, la sede opportuna per darne conto è diversa, ovvero le attività di protezione civile europea in base alla Decisione 1313/2013. Insomma “aiutiamoli a casa loro” non ‘aiutiamoci’ a casa loro.

Quando si tratta di sfiducia l’Unione europea dovrebbe poi anche prendere la situazione in mano, piuttosto che delegare ai c.d. implementing partners, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ad esempio. L’OMS opera egregiamente con i propri strumenti, che sono tuttavia scientifici. E infatti nel citato articolo del NYT essa assicura di stare affrontando la suddetta sfiducia “con l’aiuto di antropologi e sociologi”. In tutta onestà, e con il massimo rispetto per l’insostituibile opera dell’OMS, c’è a malapena bisogno di antropologi o sociologi per dar senso alla domanda di cui sopra: potrebbe benissimo essere stata lanciata dai banchi dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. È cioè una domanda di natura politica. E richiede una risposta politica.

La migliore sarebbe probabilmente risolvere le cause della sfiducia stessa. Ma stante la natura imperfetta delle relazioni internazionali, siamo fuori portata, persino per l’Unione europea. La seconda migliore risposta, e pienamente entro la suddetta portata, sarebbe tuttavia almeno di lasciare risuonare la domanda, di dar voce a chi ne è privo.

*Ambasciatore d'Italia ad Harare

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