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direttore Paolo Pagliaro

Fake news, Pagliaro: la distanza tra la realtà e la sua rappresentazione

Fake news, Pagliaro: la distanza tra la realtà e la sua rappresentazione

Il direttore di Nove Colonne, Paolo Pagliaro, ha tenuto oggi, 10 maggio, a Padova, nell’Aula magna di Palazzo Bo, il seminario dal titolo “L'irrilevanza della verità, un rischio concreto che possiamo scongiurare”, all'interno della cornice del Master “Inclusione e innovazione sociale”. All'evento sono intervenuti anche Laura Nota, delegata del rettore per l'inclusione e la disabilità, Ornella Favero, giornalista e presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, Giuseppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale della stampa italiana, tra i fondatori dell'associazione Articolo 21, Roberto Reale, docente di strategie della comunicazione a Padova, e Enrico Ferri, giornalista che modererà l'incontro.


Secondo Pagliaro, “post-verità” o “fatti alternativi” sono parole che fotografano lo Zeitgeist, lo spirito del tempo in cui viviamo. Il declino della verità inizia nel 2006 quando il Time decide che il personaggio dell'anno, a cui viene dedicata la copertina, si chiama you, tu. Ma c'entra anche con l'esposizione a una quantità di informazione senza precedenti, prodotta da tutti i cittadini del nuovo millennio, e che provoca un sovraccarico cognitivo e un conseguente spaesamento, responsabile della incapacità di distinguere il vero dal falso.

Questo problema è figlio del passaggio dai cosiddetti vecchi media ai nuovi media?
“La questione non riguarda in modo specifico la rete o i nuovi media, riguarda l'universo dell'informazione, vecchia, nuova, tradizionale, digitale. Grazie alla rete e alle tecnologie digitali il problema si è moltiplicato e aggravato, perché più diffuso. Ma non è che la fake news, la bugia, la mistificazione o la manipolazione siano invenzioni dei tempi moderni, sono una costante nella storia del potere e in particolare della politica. La novità oggi è che assistiamo a un effetto moltiplicatore di questi fenomeni e a un uso molto disinvolto dei nuovi strumenti digitali che hanno aumentato l'efficacia e la potenza di fuoco della manipolazione. Possiamo dire che abbiamo una novità quantitativa e abbiamo anche una novità qualitativa, la cosiddetta disintermediazione, ovvero l'illusione che si possa abolire qualsiasi filtro professionale tra la realtà e la sua rappresentazione. Questo provoca come conseguenza un'ondata di inaffidabilità, di approssimazione e anche di menzogna che probabilmente ha dimensioni superiori rispetto al passato”.

Oggi come si compone la dieta informativa dell'italiano medio?
“Questa è una domanda centrale perché ci sono molte dicerie a riguardo, smentite però dalle rilevazioni più attendibili. Secondo le dicerie la dieta informativa è dominata ormai da internet, o meglio dai social. Non è vero. Tutte le ricerche del Censis constatano che l'informazione viene fruita in primis attraverso la televisione, poi attraverso la radio, poi attraverso i giornali e poi attraverso internet. Quindi la graduatoria è quella tradizionale. Certo, c'è la declinazione digitale dei media tradizionali, come la versione online dei quotidiani nazionali, ma non possiamo definirli come nuovi media digitali”.

Secondo te, che conosci bene il mondo dell'informazione, si può dire che complessivamente negli ultimi anni la qualità della dieta informativa è calata oppure no?
“Secondo me sì. La qualità è calata per una serie di ragioni, ma principalmente perché sono calati gli investimenti sull'informazione professionale, in particolare in Italia. I giornali hanno meno redattori, ci sono meno giornali, la pubblicità che sostiene l'informazione ha individuato altre strade, va a premiare altri media, c'è un impoverimento complessivo che è anche un impoverimento di qualità. Ma questa non è una strada obbligata. Nel mondo a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Germania ci sono esempi molto virtuosi di investimenti nell'industria editoriale per rinnovarla, per renderla compatibile con il digitale, e questi investimenti hanno fatto rinascere anche l'industria dei giornali cartacei. Cito in particolare il caso del Washington Post e in Germania quello del gruppo Springer. In Italia siamo messi molto male, gli investimenti sono bruscamente calati, gli introiti pubblicitari anche, quindi il mercato si è ristretto”

In che misura questo calo della qualità dell'informazione è legato al modello di business dei grandi colossi del web basato sulla pubblicità e sull'immagazzinamento dei dati?
“Sono correlati in diversi modi. Per esempio, la distribuzione degli investimenti pubblicitari delle grandi imprese, che ripeto sono denari che tengono in piedi tutto il sistema dell'informazione, viene sostanzialmente decisa da algoritmi che premiano gli ascolti, i click, il numero di visitatori, e non fanno distinzioni di qualità, di contenuto. Questo è uno schema che premia spesso l'offerta peggiore, perché come sappiamo non c'è niente di più frequentato dello scandalistico, del sensazionalistico, del pornografico, di tutte quelle categorie della comunicazione che in genere hanno poco a che spartire con la qualità e la serietà dell'informazione. E dunque una delle proposte che io sosterrò e sostengo è che il sistema industriale nel suo insieme debba farsi carico di questo problema e cominciare a distribuire la pubblicità anche secondo criteri di qualità. Poi ripeto, quando si ritiene di poter comunicare più efficacemente senza il filtro e la mediazione di un giornale o di un informatore professionale, si coltiva un equivoco e si produce un risultato pessimo dal punto di vista della qualità”.


Anche per tutte queste ragioni, il modello di business del giornalismo stesso oggi sta vivendo una fase di ripensamento profondo. Uno dei possibili scenari è il rischio di avere un'informazione di serie A accessibile a pochi e un'informazione di serie B accessibile a molti?
“Sì, questo più che un rischio è già una realtà. In alcuni ambiti come la geopolitica, la finanza, gli scenari militari, il livello dell'informazione e la sua qualità variano a seconda del committente. Ci sono esempi di riviste di geopolitica che sono diventate dispensatrici di dossier a pagamento per banche, imprese e per quelle aziende che se li possono permettere. E quindi l'informazione qualificata rischia di diventare un bene di lusso. Io penso questa sia una deriva negativa, che si contrasta aumentando il tasso di qualità dell'informazione a disposizione di tutti. E non si fa con la spontaneità, si fa con investimenti, con l'organizzazione, con la deontologia, anche con le regole. In questo momento in Italia ci sono due fenomeni paralleli che in apparenza si smentiscono l'uno con l'altro, ma che in realtà convivono benissimo. Uno è la cosiddetta disintermediazione, l'altro è invece l'estrema centralizzazione della comunicazione politica: ormai i grandi partiti parlano con due o tre portavoce, con degli uffici stampa occhiuti che regolano i flussi in uscita. Spesso sentiamo esaltato il ruolo democratico della rete e il mito della comunicazione non filtrata. In realtà c'è un filtro potentissimo. È diventato quasi impossibile parlare con certi parlamentari, ci sono persone elette a Camera e Senato alle quali è stato tolto il diritto di parola. Siamo un po' troppo subalterni a questa logica della propaganda. Giornalisti ed editori dovrebbero rifiutarsi di fare da cassetta delle lettere delle dichiarazioni dei politici. E parlo anche di tutta la comunicazione politica che passa attraverso i social, attraverso i tweet. Io credo che una cosa che non sia verificabile, confutabile, non possa essere una notizia”.


Poco fa facevi riferimento anche a un sistema di regole che si potrebbe mettere in campo per tamponare il declino dell'informazione. Ma in una società in cui l'informazione è il quarto potere, in cui tutti hanno diritto di parola, non si potrebbe verificare un conflitto tra diritto alla libertà di espressione e difesa della salute della democrazia?
“Sì, si può verificare. E se si dovesse verificare io sono per il primato della democrazia. Capisco che su questo ci sono opinioni molto diverse, ma credo ci debbano essere delle regole che andrebbero rispettate perché ne consegue poi una tenuta migliore del nostro assetto democratico”.

Ma allora come si torna a rendere rilevante la verità?
“Bisogna accorciare questa distanza che separa la realtà dalla sua rappresentazione. E questo si può ottenere in diversi modi. Naturalmente ognuno deve fare la sua parte, non esiste qualcuno con la bacchetta magica. Ma da chi legge a chi fa informazione, da chi gestisce il sistema economico a chi fa le regole del gioco, da chi gestisce le piattaforme tecnologiche alla magistratura, ognuno ha un compito. Io credo per esempio che le piattaforme digitali e i loro gestori abbiano una responsabilità e dunque la tesi della neutralità delle piattaforme rispetto ai contenuti è ormai insostenibile, cominciano a capirlo anche loro. Credo che ci sia anche una responsabilità giuridica sulla rete da ripristinare. Non si capisce perché una cosa scritta su un giornale ti provoca una denuncia per diffamazione, per calunnia, per minaccia e una cosa scritta sui social no. Ci sono tante cose da fare, tantissime e vanno tutte nella direzione di accorciare quella distanza”.

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