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direttore Paolo Pagliaro

L'industria dei media
tra distorsione e realtà

L'industria dei media <br> tra distorsione e realtà

di Paolo Pagliaro

Pubblichiamo l’intervento del direttore di Nove Colonne, Paolo Pagliaro, al seminario dal titolo “L'irrilevanza della verità, un rischio concreto che possiamo scongiurare” che si è svolto il 10 maggio a Padova nell’Aula magna di Palazzo Bo, all'interno della cornice del Master “Inclusione e innovazione sociale”.

Ci sono alcune cose che si possono fare per ridurre la distanza tra la realtà e la sua rappresentazione, problema amplificato e aggravato dalla diffusione e dalla sostanziale irresponsabilità della rete. È un problema politico, come si comprende osservando lo strano fenomeno per cui il tasso di ostilità verso gli stranieri è molto più accentuato in quelle città o paesi dove gli stranieri non ci sono o sono pochi. A conferma che la realtà immaginata o percepita è più importante della realtà fattuale. Qui – nel contrastare questa distorsione e nel riassemblare i pezzi dello specchio rotto - si gioca il ruolo dell’informazione. Un ruolo cruciale, perché noi decidiamo in base a quello che sappiamo. Quello che sappiamo è la somma delle informazioni che ci vengono trasmesse o che ci procuriamo. Se queste informazioni sono false o contraddittorie, le nostre decisioni saranno incoerenti, sbagliate o dannose.

A me oggi è stato chiesto di soffermarmi sulla possibile soluzione al problema di cui ci occupiamo. La soluzione non credo ci sia, penso invece ci siano correttivi, argini, antidoti che chiamano in causa tanti attori diversi: l’industria dei media tradizionali e l’industria tecnologica, il mondo della pubblicità, i giornalisti, il governo, il parlamento, la scuola e l’università, i singoli cittadini anche nella loro veste di consumatori dell’informazione.

Investire sulla professionalità

Ci sono dunque sette-otto cose che si potrebbero fare, chiedendo a tutti di impegnarsi nell’ambito delle proprie capacità, competenze e responsabilità.

La prima chiamata riguarda l’industria editoriale, che dovrebbe tornare a investire sull’informazionale professionale di qualità e sulla rete. Considerata non più come una concorrente ma come un nuovo canale di formattazione e distribuzione del prodotto giornale. Investire sui contenuti e sulla tecnologia per trarne profitto, come fece sei anni fa Jeff Bezos, fondatore di Amazon, quando acquistò il Washington Post, che perdeva 54 milioni di dollari l’anno. Bezos introdusse numerose innovazioni di tipo tecnologico e di contenuto editoriale, aumentando per esempio gli articoli pensati per attirare interesse sui social network. Evitando dunque che sugli smartphone dei teenager arrivasse solo la spazzatura prodotta dai siti di fakes. Ingaggiò programmatori, video editor, grafici digitali ed esperti a vario titolo di tecnologia, rese ultraveloce la versione mobile, cercò e trovò nuovi pubblici su diverse piattaforme distributive, aumentò i contatti, gli accessi a pagamento, e grazie a entrambi aumentò la pubblicità. E naturalmente assunse decine di giornalisti che andarono a rafforzare il team delle inchieste, il prodotto più apprezzato dai lettori. Il Post di Bezos è riuscito a dimostrare la rilevanza dei contenuti nell’era dei social network e la possibilità di sostenerli con la tecnologia. Era il quinto giornale più diffuso negli Stati Uniti e oggi che è diventato il secondo si può permettere di pubblicare un editoriale contro le politiche intrusive di Amazon, che sarebbe come se sulla Stampa uscisse una stroncatura dell’ultimo modello Fiat.

Gli esempi del Nyt e Die Zeit

Un’esperienza analoga è quella, più recente, del New York Times, che investito in modo massiccio e direi spettacolare sul prodotto e sulla rete, ripagato da quasi 3 milioni e mezzo di abbonati alla versione digitale. Il «New York Times» avvicina i lettori con lo slogan «La verità è difficile da trovare. Ma è più facile cercarla con mille giornalisti». In Germania si sono rilanciati grazie al digitale settimanali di qualità come Die Zeit e quotidiani popolari come la Bild. Bezos e altri imprenditori innovativi hanno dunque dimostrato che la rete non è un’alternativa ai media tradizionali, ma è uno strumento per valorizzarli.
Un secondo modo per accorciare la distanza tra la realtà e la sua rappresentazione è quello di liberarsi dalla dittatura dei social, di liberare i media dalla subalternità al mondo dei social. Questo è un problema cognitivo, direi culturale, di prima grandezza per chi fa il mio mestiere. E’ cresciuta una generazione di giornalisti indotta a pensare che i social siano lo specchio degli umori correnti. Una fonte di informazione attendibile. E’ un equivoco alimentato dalla pigrizia, dallo spirito del tempo, dalle basse paghe dei nuovi giornalisti. E’ come se fossero state promosse al rango di fonte le scritte nei bagni delle stazioni. C’è un problema di reale rappresentatività anche dal punto di vista quantitativo. Leggevo l’altro ieri di un’epica sfida tra e Salvini e Boldrini a colpi di like e retweet, non ricordo bene. Ma ricordo che al termine di uno scambio di battute riportato dai giornali uno aveva 15 mila condivisioni e l’altra 20 mila, circa. Questi numeri hanno fatto notizia. Ma i lettori del Corriere sono un paio di milioni e gli spettatori di Otto e Mezzo anche. Mentre quelli che non vanno su Facebook, non leggono il Corriere e non guardano Otto e Mezzo sono la maggioranza degli italiani. Potremmo occuparci di loro, e ci risparmieremmo molte soprese.

Tra disintermediazione e concentrazione

Oggi in Italia abbiamo a che fare con due fenomeni apparentemente opposti ma in realtà felicemente conviventi: il primo è la disintermediazione, il secondo è la concentrazione della comunicazione in poche e fidate mani. La disintermediazione è il processo che privilegia il contatto diretto tra il cliente e il produttore, senza mediazione. Vale in politica, dove per parlare agli elettori si ritiene non servano più partiti e sindacati (i cosiddetti «corpi intermedi »), e neppure la stampa, perché basta un tweet. Vale anche nel recinto dell’informazione, perché la rete, in tutte le sue sfaccettature, ha consentito a un pubblico sempre più vasto di avere diretto accesso alle news, accesso una volta precluso senza la mediazione di giornali e tv.

Sta succedendo però che nella cronaca politica e nel dibattito pubblico, la comunicazione stia ormai sostituendo l’informazione (la prima ha lo scopo di convincere, la seconda ci mette in condizione di conoscere). Il messaggio dei politici e in particolare di quelli che governano è diventato quasi esclusivamente monodirezionale (cioè da uno a molti) e si affida ai social. Lo spazio per le domande dei giornalisti – e dunque per il controllo da parte dell’opinione pubblica – è sempre più ridotto. E’ drasticamente diminuita anche la possibilità di accedere a informazioni di prima mano: centinaia di parlamentari parlano con i media solo se autorizzati dai funzionari responsabili della comunicazione nei rispettivi partiti. Due persone – i capi della comunicazione di 5 Stelle e Lega - di fatto controllano e limitano la libertà d’espressione della maggioranza del Parlamento. Mai, nella storia della Repubblica, si era registrata una simile censura preventiva, resa ancora più desolante dal fatto che essa è accettata e dunque condivisa dai censurati. La comunicazione disintermediata e quella centralizzata viaggiano insieme e sono un rischio per la democrazia e un’insidia letale per l’industria dell’informazione, il cui ruolo è giudicato inutile o addirittura dannoso, come dimostrano i ripetuti attacchi della politica ai giornali e la crescente disaffezione dei cittadini.

Spetta dunque non solo ai giornalisti, ma anche agli editori il compito di arginare questa deriva. Incominciando col segnalarne la gravità. Come chiunque abbia la responsabilità di un’impresa, anche gli editori hanno l’obbligo di rendere trasparenti e tracciabili i processi che portano alla realizzazione del prodotto.

Urge una nuova deontologia

Serve dunque una nuova deontologia, un patto che gli editori devono stringere con i giornalisti e con il pubblico. In concreto: io penso che le dichiarazioni di particolare rilevanza affidate dai politici ai social, non debbano essere riprese e amplificate senza che ai media professionali – a cominciare dalle agenzie - sia consentito di interagire per approfondirle ed eventualmente confutarle, verificandone la veridicità e gli effetti. In assenza di contraddittorio, le dichiarazioni dovrebbero essere confinate in appositi spazi riconoscibili anche graficamente, come si usa fare con le informazioni pubblicitarie. “Le aziende informano”, “La politica comunica”. Nel medio periodo, l’autorevolezza dei media sarà così destinata a crescere. Verrà considerata una violazione del codice deontologico la richiesta degli intervistati di conoscere in anticipo le domande che il giornale o l’emittente radiotelevisiva intende loro rivolgere. Si segnaleranno i nomi dei politici che – non avendo vista accolta questa loro richiesta – hanno rifiutato l’intervista. Come vedete, sono proposte molto concrete che hanno come obiettivo quello di ricostruire un rapporto di fiducia tra i media e i cittadini.

Responsabilizzare la rete

La quarta proposta riguarda la responsabilizzazione delle piattaforme digitali e dei loro gestori. In primo luogo occorre affrontare il problema di un uso corretto dei big data, ben sapendo che c’è una forte relazione tra dati, algoritmi, profilazione, e sfruttamento economico (o politico) dell’informazione. Servono leggi che impediscano l’uso scorretto dei dati. Ma servono anche norme che contrastino l’assurda teoria della neutralità della rete. Facebook è il più influente e potente editore del mondo, ed è legittimo chiedere che si assuma la piena responsabilità di ciò che veicola.

L’anno scorso in Germania è entrata in vigore la legge che obbliga i gestori dei social media a rimuovere entro 24 ore i contenuti palesemente classificabili come di incitamento all’odio, mentre quelli più controversi possono essere rimossi entro 7 giorni. Il mancato rispetto delle norme è sanzionato con multe fino a 50 milioni euro.

In Francia, nel novembre del 2018, è stata approvata una legge contro le notizie false e calunniose on line. I candidati alle elezioni, nei tre mesi prima del voto, potranno fare ricorso al tribunale contro una notizia che ritengono falsa o calunniosa e ottenerne l’immediata rimozione. Il giudice deve pronunciarsi entro 48 ore e può ordinare la rimozione della notizia.

L’Italia non ha però leggi analoghe, e si accontenta per ora di un regolamento della Agcom per contrastare le espressioni d’odio su radio e tv.

Ma è molto probabile che, più delle leggi, alla fine sarà decisivo il codice di autodisciplina che hanno promesso di darsi i padroni della reete come Facebook, Google e Twitter. Tutti e tre dichiarano di aver rimesso quote consistenti di pagine provenienti da false identità o contenenti notizie false. Facebook, in particolare, ha annunciato di aver avviato una collaborazione con 25 società di fact-checking indipendente coprendo 17 diverse lingue tra cui l’italiano.

Per evitare i guai che nascono dalla disintermediazione, Facebook ha recentemente deciso di collaborare con partner professionali – grandi giornali e grandi agenzie - per alimentare la sua redditizia sezione news. E’ possibile che prima o poi accetti la piena responsabilità di ciò che veicola, senza che questo naturalmente gli faccia perdere troppi quattrini. Su tutto ciò che sta accadendo in questo ambito è uscito per il Mulino un libro molto interessante scritto da Marco Delmastro e Antonio Nicita che si intitola appunto “Big data”.

Io penso che dovrebbero valere sul web – nel senso che dovrebbero essere fatti rispettare – l’art. 494 del codice penale che vieta la sostituzione di persona, l’art. 656 che vieta la diffusione di notizie false, l’art. 612 che vieta la minaccia e il 612 bis che vieta lo stalking, l’art. 595 che vieta la diffamazione, l’art. 660 che vieta le molestie. Perché la rete sia spesso zona franca, resta per me un mistero. David Puente, giornalista specializzato in fact-checking, forse il più famoso cacciatore di bufale italiano, ha scritto un libro – “Il grande inganno di Internet” (Solferino) in cui per la verità sostiene che la Rete sta smettendo di essere un far west e cita alcune sentenze per reati commessi on line. Ma sono eccezioni, La norma è la sostanziale impunità.

Un ulteriore argine alle fake news potrebbe essere un sistema che consenta agli utenti di sapere al volo se una notizia che stanno leggendo è considerata attendibile o no. Gli strumenti tecnici di verifica esistono già, e ci sono già anche alcune soluzioni informatiche di «etichettatura», Questo sistema naturalmente dovrebbe valere per tutta l’informazione digitale, compresa quella delle testate giornalistiche e dei siti web, non solo per quella dei social network.

Una grande responsabilità per mantenere pulito l’universo dell’informazione spetta al sistema produttivo nel suo complesso e in particolare alle grandi imprese. Sono loro che con la pubblicità tengono in vista il sistema dei media e dunque spetterebbe a loro fare in modo che gli algoritmi in base ai quali viene distribuita questa risorsa vitale non vadano a premiare il traffico e l’audience ottenuti con mezzi fraudolenti, col sensazionalismo, con la sistematica falsificazione dei fatti o con la pornografia intesa nelle sue diverse accezioni. Come è noto per catturare l’attenzione non serve approfondire, verificare, filtrare, sistematizzare. Spesso basta proporre un pensiero semplificato, non importa se labile o bugiardo. Premiare questo imbroglio finanziandolo con il denaro della pubblicità mi pare ponga un problema etico alle imprese.

Un ottavo argine alla malainformazione dovrebbe essere rappresentato da un rinnovato impegno deontologico del giornalismo, e in particolare dalla cultura della verifica delle fonti e dei contenuti – meglio nota oggi come fact checking . Se leggete che Abramo Lincoln consigliò agli americani di non credere a tutto ciò che leggevano su Facebook, è probabile - suggerisce il cacciatore di bufale David Puente - che questa notizia sia un fake news. Dopo il controllo dei fatti, che sarebbe ciò per cui ci pagano, occorre poi onestà nel riferirli. Vorrei ricordare che l’onestà è perfettamente compatibile con le passioni e con le idee a cui ciascuno di noi vivendo si affeziona. A patto che non si spaccino per fatti le passioni e per verità le idee.

(© 9Colonne - citare la fonte)