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direttore Paolo Pagliaro

Gli avvocati
e la prescrizione

di Paolo Pagliaro

(10 febbraio 2020) In dieci anni un milione e mezzo di processi sono finiti nel nulla per prescrizione del reato. Un milione e mezzo di casi in cui né gli imputati né le vittime hanno avuto giustizia. Sulle ragioni di questo disastro si discute da anni, e gli animi si accendono ogni volta che il parlamento si accinge a stringere le maglie della prescrizione. Anche questa volta i primi a protestare sono state le rappresentanze degli avvocati negando che alla prescrizione si arrivi anche grazie alle tecniche dilatorie della difesa.  Ma che nei processi l’obiettivo sia spesso quello di guadagnare tempo (o di perderlo, che è la stessa cosa), è dimostrato dalle pronunce della Cassazione.
La Corte ha modificato la propria giurisprudenza proprio per cercare di arginare una diffuso abuso dei diritti della difesa, a cominciare dalla strumentalizzazione del sistema delle impugnazioni, spesso destinate a guadagnare la prescrizione.  C’è la sentenza numero 155 del 2011 il cui la Corte a sezioni riunite giudica non meritevole di alcuna tutela un’utilizzazione delle facoltà processuali che, pur formalmente legittima, mira in realtà a finalità improprie.
E c’è un’altra sentenza, quella del 2 ottobre 2018, in cui
la Quinta Sezione Penale censura – citiamo – “l’uso arbitrario dei termini a difesa determinato dall’avvicendamento di difensori, al solo scopo di ottenere una dilatazione dei tempi processuali”.
Altre pronunce della Corte contro le tecniche dilatorie utilizzate per far maturare il diritto alla prescrizione sono ad esempio quelle della terza sezione l’8 aprile 2014, della quinta sezione nel novembre 2013 e nell’ottobre del 2010.  La questione è stata in più occasioni affrontata anche dalla Corte Costituzionale. Le tecniche dilatorie degli avvocati  non sono l’unica e neppure la principale causa della lentezza dei processi. Ma anche alla luce delle sentenze è difficile sostenere che il problema non esiste.

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