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Le nostre fragilità
alla prova del virus

Le nostre fragilità <br> alla prova del virus

Paolo Pombeni

(13 marzo 2020) Dunque ci stiamo rendendo conto che l’epidemia di Covid-19 è una faccenda più seria della “poco più che banale influenza” a cui si cercò di ridurla all’inizio per evitare panico sociale. Il risultato è che non solo è arrivato il panico sociale (in cui va compresa specularmente anche l’ottusa negazione che ci sia ragione di preoccuparsi), ma si è accentuata la percezione di un paese la cui rete istituzionale ha una capacità di tenuta piuttosto modesta. Sono dati destinati a pesare non solo sui prossimi mesi, ma sui prossimi anni della nostra vicenda politica.
Il groviglio di problemi con cui dobbiamo e dovremo fare i conti è piuttosto impressionante. Prendiamo in considerazione un dualismo banale, ma molto rilevante. Da un lato c’è un tema istituzionale, ed è il riordino necessario del sistema dei poteri ridotto in condizioni pietose dalla rincorsa dietro ai miti della cosiddetta “devolution”. Dal lato opposto c’è il tema culturale, ed è la carenza nel nostro paese di spirito civico in senso “repubblicano” che non si riesce a riattivare perché mancano le figure di riferimento.
Abbiamo evitato per anni di discutere seriamente sul riordino e in parte sul ripensamento del nostro sistema costituzionale. Nel farlo non c’era alcuna mancanza di riguardo verso i padri costituenti, perché, come sa chi ha studiato i loro dibattiti e quel che ne è venuto dopo, essi erano coscienti di aver compiuto solo un tratto del percorso necessario. Purtroppo, come si è visto bene nei dibattiti per il referendum confermativo della riforma costituzionale di Renzi, ogni discussione è stata invece inficiata da spiriti di fazione (talora veramente meschini) che hanno prodotto solo un immobilismo di cui oggi paghiamo le conseguenze. Così al posto di un tentativo di riforma ampia, senza dubbio discutibile in più parti e dettagli, abbiamo i piccoli colpi di mano degli apprendisti stregoni, tipo un taglio a vanvera del numero dei parlamentari o ipotesi di leggi elettorali che guardano solo a come tener conto dei sondaggi ovviamente a proprio vantaggio.
Adesso dovremo guardarci dai rattoppi inventati sull’onda delle emozioni. Se il decentramento regionale ha mostrato falle e reso complicato il governo di un’emergenza, non significa però che sia ottimo il ritorno al vecchio “centralismo” che non è che abbia alle spalle una storia sempre gloriosa. La comprensibile domanda di avere nell’emergenza una figura di riferimento molto autorevole non può trovare come risposta né elevare per decreto a quell’autorevolezza il presidente del consiglio in carica, né rifugiarsi nel sogno del “super commissario” salvatore della patria. In ambedue i casi bisogna procedere sia a rivedere e riordinare l’impianto della distribuzione dei poteri di governo, sia a calibrare gli strumenti per la designazione dei governi.
Per dire sempre una banalità, basterebbe per esempio stabilire che il sacrosanto principio di sussidiarietà (il potere va affidato ad una fonte il più possibile “vicina” al problema da trattare) fosse fatto convivere con l’altro ovvio principio che è la natura del problema da affrontare che determina il livello a cui va assegnato il potere. Se il problema è “nazionale” è a quel livello che va affrontato e gli altri poteri devono sentirsi ancillari; se viceversa un problema può essere affrontato nella dimensione “locale” è giusto che lì si collochi anche il potere di gestione e decisione.

Non sono questioni che si possono risolvere con un articolo di giornale, ma forse il tema può essere posto anche cominciando da questo livello. Così val la pena di ricordare che un lavoro tanto complesso richiede uno “spirito costituente” che deve unire un ampio arco di forze politiche, ma contestualmente una altrettanto potente arco di forze culturali. Nel 1946-48 magari i due aspetti si erano fusi nell’esperienza dei partiti usciti dalla crisi della guerra e della resistenza. Oggi non è più così e se ne dovrà tenere conto.
Poi, come si diceva, c’è il problema della cultura civica. Qui non parliamo ovviamente del senso di solidarietà davanti a concreti problemi che nel nostro paese per certi aspetti non manca. Negli ospedali e fuori di essi di fronte ai bisogni dei malati, dei deboli, c’è stata e c’è tanta abnegazione. Viene giustamente riconosciuto ed è altrettanto giustamente motivo di fierezza. Dove le cose non vanno bene è nell’affrontare problemi per così dire “astratti”, cioè che non si possono toccare personalmente con mano. Rinunciare alla “movida”, agli assembramenti, accettare di pesare le parole per evitare confusione, trasformare occasioni eccezionali come il blocco delle attività scolastiche in occasioni di crescita, sono comportamenti che fanno fatica a trovare la strada di una condivisione diffusa.
Non è con le sceneggiate che si risolve qualcosa. Il mettersi la mascherina (spesso neppure quella adatta) se non si è malati non serve a nulla. Illudersi che continuare con le vecchie abitudini della socialità di massa sia preservare la vita civile è solo una comoda scusa per non prendersi responsabilità. Inondare gli studenti di compiti da fare via what’s up o skype senza che questi siano stati messi precedentemente in grado di autogestirsi o presumendo che tocchi farlo ai genitori senza chiedersi se questi ne abbiano il tempo e le capacità, significa cavarsela a buon mercato.
Ebbene, a fronte di cui tutto questo mancano le figure di riferimento che possano formare e indirizzare la coscienza civile del paese. Mancano le “autorità” in senso morale forte che possano assumersi questo compito. La varie “balie digitali” a cui ci siamo affidati sino ad oggi (media in genere, social e via dicendo) si stanno rivelando del tutto impari ai compiti imposti da un’emergenza.
E’ proprio l’emergenza che sta mettendo a nudo le fragilità del nostro sistema istituzionale e sociale. Approfittarne per rimetterci non sesto non è solo un’opportunità. E’ un dovere.

(da mentepolitica.it)

 

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