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Brexit: il 55% delle imprese sosterrà spese aggiuntive, penalizzate le Pmi

Il no deal “non giova alla Gran Bretagna, agli inglesi, agli italiani che stanno nel Regno Unito e alle nostre piccole e medie imprese ma solo alle multinazionali nel breve periodo”. Così Maurizio Bragagni, Ceo della multinazionale italiana dei cavi Tratos, nel corso di una conferenza stampa alla Camera tesa a mettere in luce l’impatto fiscale sulle imprese italiane della Brexit in caso di non accordo al termine dei negoziati. Insignito di recente dell’onorificenza di Freeman of the City of London “per il suo impegno imprenditoriale che arricchisce lo scambio tra Italia e Regno Unito”, riconoscimento prestigioso che lo affianca a illustrissimi italiani come Giuseppe Garibaldi e Luciano Pavarotti, Bragagni offre un punto di vista molto chiaro sulla situazione: “Il non accordo non conviene alle imprese italiane piccole, alla mia azienda sì” spiega ancora l’imprenditore, che racconta: “Noi italiani a Londra, 700 mila, siamo preoccupati di non avere la nostra mozzarella di bufala fresca” e “chi pagherà la fila di due mesi alle dogane è chi produce cibo, ovvero tante nostre realtà imprenditoriali”. Per questo Bragagni rivolge un “appello a governanti italiani per fare pressione sui negoziatori europei”. Nel corso della conferenza stampa, organizzata dal deputato di Italia Viva eletto all’estero Massimo Ungaro, è stata presentata un’indagine PwC Tls da cui emerge che il 42 per cento delle nostre imprese che hanno rapporti commerciali il Regno Unito non avrebbero una struttura tale da poter commerciare con paesi terzi dell'Ue (e tale diventerà il Regno Unito), il 90 per cento dovrà affrontare almeno una tematica fiscale, il 70 per cento dovrà apportare modifiche strutturali e di compliance per questioni doganali o altro mentre il 55 per cento sosterrà spese aggiuntive per adeguarsi. Diventeranno più complicate le vendite tra i privati e al dettaglio, mentre con il fatto che la Gran Bretagna lascia anche l’unione doganale anche nell’ipotesi del miglior accordo le aziende dovranno fare i conti con il diritto doganale, sostenendo costi di compliance e investendo in corsi di formazione. “E’ una situazione non irrisolvibile ma che richiede un intervento tempestivo per le imprese, soprattutto medio-piccole” spiegano i curatori della ricerca, da cui emergono tre concetti chiave per i nostri imprenditori: “continuità”, ovvero la necessità di continuare per le imprese una relazione bilaterale dopo il periodo transitorio che scade a gennaio; “incertezza”, legata alla mancanza di una soluzione definitiva al negoziato e “urgenza”, perché le imprese dovranno farsi trovare pronte. “In Italia – afferma Ungaro – si pensa che la Brexit sia conclusa con l’accordo di recesso ma in realtà nulla è finito, è in corso il negoziato sulla futura relazione economica e politica”.

“Il Regno Unito è il secondo mercato per l’Italia” ricorda il deputato di Italia Viva, sottolineando come sia “molto importante per la politica italiana parlare ancora di Brexit e per le aziende prepararsi al gennaio 2021 quando finirà il periodo di transizione. I negoziati si sono incagliati, spero si risolvano per il meglio e dico ‘no’ alla proposta del governo britannico dell’Internal Market Bill, pacta sunt servanda” aggiunge Ungaro. “Ringrazio per la presenza l’ambasciata Gb, questa occasione di confronto è un incentivo per cercare di realizzare un accordo che eviti il peggioramento della situazione. La legge che mette in discussione l’accordo non è un buon segnale” afferma il deputato di Italia Viva Gennaro Migliore, secondo cui “la Gran Bretagna ha relazioni troppo forti con l’Ue per essere messe in discussione, ma l’Ue non può essere sempre soccombente come ad esempio sulla questione dell’Irlanda”. “C’è un problema – conclude il deputato di Italia Viva - di dimensioni delle aziende in Italia, il Recovery Fund deve avere tra gli obiettivi quello di rafforzare la dimensione delle aziende e investire sulla loro competitività”. (Roc – 29 set)

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