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Il Pd e una vecchia storia 
che nessuno studia più 

Il Pd e una vecchia storia <BR> che nessuno studia più 

di Paolo Pombeni

La crisi della politica meriterebbe riflessioni più serie della maggior parte di quelle in circolazione. E’ abbastanza significativo che anche l’ultima “grande” forza politica sopravvissuta alla consunzione della “repubblica dei partiti” sia finita per farsi omologare dagli eventi che hanno sconquassato la nostra vita pubblica. Ci riferiamo ovviamente al PD che è l’ultima continuazione storica di quella “forma” che ebbero i cosiddetti partiti di massa caratteristici della rivoluzione costituzionale del Novecento.
Non è questione solo del legame ideologico che quella formazione mantiene in parte con la storia e la vicenda del PCI, è proprio un problema di “forma”: è un partito che ha ancora le sezioni (un minimo vitali), una militanza ancora disposta a lavorare per il partito (per quanto sempre più fatta di “anziani”), una struttura con direzioni, assemblee, congressi che sono gestiti su base rappresentativa (non ci si fermi a possibili manipolazioni di essa: è un problema connaturato con quei tipi di organizzazione). La confluenza nel PD di un filone di professionismo politico proveniente dalla tradizione DC non ha fatto problema, perché si trattava di una tradizione omogenea come “forma”. Altre sparse membra confluite in esso sono state semplicemente amalgamate.
Il problema che si è posto sin dall’inizio del superamento del vecchio PCI è stato principalmente di trovare qualcosa da sostituire all’idea, divenuta vaghissima, che l’obiettivo del partito fosse quello di produrre una qualche forma di “rivoluzione”, ovvero l’instaurazione di un mondo “diverso” da quello in cui si viveva. Subito ci si è accorti che in definitiva ben pochi volevano vivere in un altro mondo, se non come lontana aspettativa di un nuovo paradiso terrestre. L’obiettivo di quel partito a prescindere dai nomi che si è dato è stato quello di “difendere le conquiste” ovvero di tenersi il mondo più o meno così com’era. Si poteva cambiarlo solo se non si fossero toccate le “conquiste”, ma se queste dovevano essere riviste, meglio lasciar perdere. Basta guardare alla dinamica sindacale dei rapporti di lavoro per capirlo.
Ecco allora che l’ideologia del partito è diventata una ideologia “anti”: il suo valore era impedire una trasformazione che avrebbe messo in discussione quel certo mondo. Siccome in politica le idee tradizionali sono sempre quelle più facili da propagandare, ecco che si poteva e si doveva puntare su quella più classica: la difesa della “democrazia”. L’avversario non poteva che essere un “pericolo per la democrazia”, si chiamasse Berlusconi, Salvini o Meloni poco importava, perché così si manteneva il vecchio schema: la sinistra (democratica) contro la destra (antidemocratica) con la conseguente lagna sul perché siamo così sfortunati che non abbiamo a disposizione una destra democratica.
Tuttavia la novità è stata che ad un certo punto questa politica dell’anti è stata spiazzata dall’antipolitica. Prima c’è stata la Lega che voleva essere democratica a modo suo, ma solo per il Nord e poi per gli “italiani”, sognando un paese che si disconnetteva dal filone della storia europea del Novecento. Poi è arrivato il grillismo, che di destra e sinistra non ne voleva sapere, ma riproponeva una idea “totalizzante” perché solo esso sapeva dove andava la storia e aveva le ricette giuste per portarci in un mondo liberato da tutte le miserie della modernità, grazie soprattutto all’uso creativo delle sue grandi trasformazioni (la Rete e la possibilità di interconnessione dematerializzata).
E’ accaduto che progressivamente il PD, per carenza di strutture capaci di elaborare pensiero (quelle che c’erano venivano snobbate, perché disturbavano i conducenti), si trovasse in difficoltà con l’ideologia dell’ “anti” (Berlusconi in disarmo; Salvini che si autoriduceva ad una macchietta che propagandava felpe) e invece subisse il fascino perverso dell’antipolitica perché sfrucugliava nel suo subconscio ancora legato all’idea di promuovere un cambiamento epocale (ma sufficientemente utopico da non intaccare le “conquiste storiche”).
Ci si lamenta che quel partito sia divenuto un partito di correnti legate all’esercizio della presenza come forza di governo. Ma che altro poteva fare non disponendo più di una capacità di interpretazione del passaggio storico in cui siamo inseriti? Se ammetti che ci troviamo in queste condizioni, devi concludere che le vecchie conquiste sono legate ad un mondo che va scomparendo e devi proporti come costruttore di una nuova strategia per affrontare la transizione senza che questa travolga, se vuoi rimanere un partito di sinistra, l’equilibrio solidale che solo garantisce una buona politica. Se lo fai rischi l’isolamento, perché non si cambia senza entrare in conflitto con gli interessi costituiti (che sono una roba più complicata che non “quelli dei capitalisti”) e perché devi rompere con le tendenze che trovano la soluzione nell’anarchia (che oggi ha nuovi nomi). E’ una vecchia storia, ma chi la studia più?
Ecco perché si butta via il realismo politico (ci si vergogna che un partito sia fatto anche di gente che lotta per il proprio potere), si crede di essere popolari andando nei ritrovi delle mode disinvolte (nulla di più radical chic che sentirsi vicini al popolo frequentando i bar sport), si pensa che si rompa il professionismo politico accogliendo a braccia aperta un po’ di figuranti vestiti opportunamente da contestatori a pro di telecamere e talk show (le cosiddette Sardine).
Il PD è ancora, nonostante tutto, un elemento importante del sistema politico italiano. Ecco perché c’è da augurarsi che esca da questo stato ipnotico e si ricordi che ha una storia lunga alle spalle, non come “diverso” (un mito che farebbe bene ad abbandonare) ma come componente di rilievo di quel mondo che aveva portato l’Italia a raggiungere traguardi che sarebbe meglio rinverdire.
(da www.mentepolitica.it)

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