Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

OCHEK SULLA GEO BARENTS:
ORA NON RESPINGETEMI

"Sulla nave di Medici Senza Frontiere mi sento al sicuro. Ma, allo stesso tempo, non sono ancora completamente sollevato perché sono ancora in mare e ho paura di tornare indietro. Non vedo l'ora di raggiungere l'Italia e toccare terra per iniziare a dimenticare tutto quello che ho vissuto in Libia e in Africa". Ochek (nome di fantasia, nella foto di Nyancho Nwanri) ha 21 anni, viene dall'Eritrea "dove i bambini di 8 o 9 anni vengono arruolati nell’esercito". È uno dei uno dei 73 sopravvissuti a bordo della Geo Barents, la nave di ricerca e soccorso di Medici Senza Frontiere che tra domani sera e giovedì, sfidando il maltempo, sbarcherà ad Ancona, il porto sicuro concesso dal governo italiano. In una intervista, ancora sulla nave, Ochek racconta la propria odissea: fuggito in Sudan all'età di 4 anni con la madre proprio per fargli evitare il servizio militare permanente (principale motivo di fuga degli eritrei), perché "un giorno il governo ha portato via mio padre e mia madre ha avuto paura che succedesse lo stesso a me", ha vissuto in Sudan 13 anni, "ma da quando avevo 14 anni avrei voluto andarmene, non pensavo che sarebbe stato così tanto pericoloso. Pensavo sarebbe stato semplice arrivare in Libia e poi in Europa. In Sudan ho fatto diversi lavori, ho lavorato in un ristorante e in una miniera d’oro nelle montagne. Poi ho deciso di andare in Libia e lì le cose sono cambiate".

Già dalla partenza inizia il calvario: "Per andare in Libia ho pagato un intermediario. Lui mi aveva detto che avrebbe pagato il trafficante, ma il trafficante mi disse che non aveva ricevuto niente e così avrei dovuto pagare di nuovo o avrei dovuto lavorare per lui. Non sempre mi trattava bene, così dopo 3 mesi sono fuggito". In Libia, spiega Ochek, gli eritrei sono costretti a vivere nascosti. "Dobbiamo rimanere in casa, raramente usciamo perché se ci vedono ci rapiscono per chiedere il riscatto. Ci chiedono di pagare in dollari perché credono che abbiamo parenti in Europa. Sono stato rapito due volte ma entrambe le volte sono riuscito a fuggire". In prigionia "la mattina ci davano un pezzo di pane e c’era una tanica d’acqua desalinizzata, amara. Dentro la stanza c’era un bagno e dormivamo su un fianco, uno attaccato all’altro per terra.  Eravamo 70/100 persone ma non c’era un limite di persone".  Poi la fuga, il lavoro per mettere da parte i soldi per pagare nuovamente un trafficante. "Mentre ci stavano trasferendo verso Tripoli, però, siamo stati arrestati e ci hanno imprigionato di nuovo in una stanza sovraffollata. Maltrattamenti, abusi, umiliazioni erano all’ordine del giorno. Era una milizia. Siamo rimasti lì per 15/20 giorni".

Ochek giura che "fino al giorno in cui non ho lasciato la Libia ho subito torture e maltrattamenti e ho visto con i miei occhi persone picchiate e maltrattate. Sono stato torturato. Mi hanno legato le mani e bruciato con una sbarra di ferro ardente. Ho il petto pieno di cicatrici. Ci colpivano con il fucile o ci bruciavano il petto con metalli ardenti. Ci costringevano a chiamare la famiglia per chiedere aiuto, per mandare i soldi del riscatto. Dopo 15 giorni di torture, uno di questi trafficanti, un uomo anziano di circa 80 anni, vedendomi in quello stato ha detto agli altri che sarei morto se avessero continuato a torturarmi. Altre persone che avevano già pagato il proprio riscatto hanno raccolto altri soldi e hanno pagato anche per me. Mi hanno messo in macchina e mi hanno lasciato a Tripoli dove ho trovato un gruppo di sudanesi con cui sono rimasto". Ma La tortura ha molte forme in Libia. "Vedi donne stuprate davanti a te e non puoi fare nulla anche se arrivano dal Sudan come te. Se provi ad aiutarle ti minacciano con la pistola o ti picchiano con un bastone. Ero pronto a morire in mare pur di non essere catturato dalla guardia costiera libica ed essere riportato indietro e subire di nuovo umiliazioni e torture".

Già dalla partenza inizia il calvario: "Per andare in Libia ho pagato un intermediario. Lui mi aveva detto che avrebbe pagato il trafficante, ma il trafficante mi disse che non aveva ricevuto niente e così avrei dovuto pagare di nuovo o avrei dovuto lavorare per lui. Non sempre mi trattava bene, così dopo 3 mesi sono fuggito". In Libia, spiega Ochek, gli eritrei sono costretti a vivere nascosti. "Dobbiamo rimanere in casa, raramente usciamo perché se ci vedono ci rapiscono per chiedere il riscatto. Ci chiedono di pagare in dollari perché credono che abbiamo parenti in Europa. Sono stato rapito due volte ma entrambe le volte sono riuscito a fuggire". In prigionia "la mattina ci davano un pezzo di pane e c’era una tanica d’acqua desalinizzata, amara. Dentro la stanza c’era un bagno e dormivamo su un fianco, uno attaccato all’altro per terra.  Eravamo 70/100 persone ma non c’era un limite di persone".  Poi la fuga, il lavoro per mettere da parte i soldi per pagare nuovamente un trafficante. "Mentre ci stavano trasferendo verso Tripoli, però, siamo stati arrestati e ci hanno imprigionato di nuovo in una stanza sovraffollata. Maltrattamenti, abusi, umiliazioni erano all’ordine del giorno. Era una milizia. Siamo rimasti lì per 15/20 giorni".

Ochek giura che "fino al giorno in cui non ho lasciato la Libia ho subito torture e maltrattamenti e ho visto con i miei occhi persone picchiate e maltrattate. Sono stato torturato. Mi hanno legato le mani e bruciato con una sbarra di ferro ardente. Ho il petto pieno di cicatrici. Ci colpivano con il fucile o ci bruciavano il petto con metalli ardenti. Ci costringevano a chiamare la famiglia per chiedere aiuto, per mandare i soldi del riscatto. Dopo 15 giorni di torture, uno di questi trafficanti, un uomo anziano di circa 80 anni, vedendomi in quello stato ha detto agli altri che sarei morto se avessero continuato a torturarmi. Altre persone che avevano già pagato il proprio riscatto hanno raccolto altri soldi e hanno pagato anche per me. Mi hanno messo in macchina e mi hanno lasciato a Tripoli dove ho trovato un gruppo di sudanesi con cui sono rimasto". Ma La tortura ha molte forme in Libia. "Vedi donne stuprate davanti a te e non puoi fare nulla anche se arrivano dal Sudan come te. Se provi ad aiutarle ti minacciano con la pistola o ti picchiano con un bastone. Ero pronto a morire in mare pur di non essere catturato dalla guardia costiera libica ed essere riportato indietro e subire di nuovo umiliazioni e torture".

(© 9Colonne - citare la fonte)