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Mario Castelnuovo: "La mia musica reale e folle"

“L'arte sorprende la realtà nel suo stato di pazzia” scriveva Alberto Savinio in “Infanzia di Nivasio Dolcemare”. È qualcosa che descrive bene il mondo in cui prendono vita, da quaranta anni, le canzoni di Mario Castelnuovo, che nel 2021 festeggia questo importante anniversario. Mario, parlando della sua arte, usa il termine “realismo magico”, che rispecchia la frase di Savinio: fotografo della realtà con l’aggiunta artistica di un punto di vista folle, impazzito. Nel suo primo dvd-concerto (registrato poco prima del lockdown il 2 febbraio scorso alla Dogana Veneta di Lazise) e accompagnato da un cd singolo con i brani “Guardalalunanina” e “Stanotte ho fatto un sogno”, Mario va oltre: la sua musica si unisce ai suoi disegni, lui che a dipingere ha cominciato proprio dalla culla della vita vera, dagli acquarelli di piazza Navona.

 

Mario, quaranta anni di carriera.

“Non me lo immaginavo, per tante ragioni. Caratterialmente sono un incostante, poi perché in questo ambiente è difficile rimanerci, sotto tanti aspetti, anche quello dello stomaco”.

Bisogna turarsi il naso?

“Sono un pessimo frequentatore del mio ambiente, i miei amici sono rimasti quelli di prima che iniziassi a suonare. Perché qui non vige la sincerità. Sai, c’è una parola stra-abusata nel mondo della musica: amico. Non è un mondo di amici e fa ancora più male quando lo senti dire, spesso, senza che ci sia una vera concretezza. Prima di iniziare non lo avrei immaginato”.

Però restare ai confini a volte è un vantaggio: si conserva una genuinità creativa, le storie che si raccontano non vengono “inquinate”.

“La lontananza dal mio ambiente mi ha fatto sviluppare le tematiche quotidiane, è vero. In certi ambienti bisogna sapersi porre in un certo modo. Ma spesso bisogna sapersi anche ‘riporre’ in un certo modo: separarsi dalla scena. Fare lo spettatore, l’ascoltatore. E sono i migliori ascolti per capire davvero quello che ti sta girando attorno. Perché la curiosità è il vero motore che mi porta a spasso da tanto tempo. Non sono mai stato un monomaniaco, non ci sono io al centro dell’universo. La prima persona plurale conta: dovremmo imparare che ‘noi’ è più importante di ‘io’. E sarà il noi a salvarci”.

Il presente ci sta dicendo il contrario: distanti per salvarci.

“Quando tutto questo sarà finito dovremo farci perdonare dal Padre Eterno di aver vissuto finora la vita con indifferenza. Dando tutto per scontato, anche un’uscita a cena. Penso ai nostri genitori, che hanno vissuto guerre, precarietà e una società che non era su un’autostrada come adesso. Per loro andare a cena era un privilegio. Oggi noi lo diamo per scontato. Beh, sai che c’è? Abbiamo fatto male. Questo virus ci impone di sottolineare certe cose che possiamo fare, ma di cui non ci accorgevamo nemmeno più. Spero che ce ne accorgeremo; in realtà, lo spero e basta. Non ho detto che ci credo”.

Le tue canzoni sono piccoli frammenti di vita. Di te è stato detto che la tua è una scrittura “cinematografica”.

“Prima di fare il cantautore facevo gli acquerelli e i ritratti a piazza Navona. Così ho imparato a inquadrare i le persone e i fatti. Mi è rimasta dentro una curiosità estetica, per questo oggi mi manca così tanto vedere in faccia le persone. Erano gli anni Settanta quando ho imparato a leggere le persone per poterle ritrarre: c’era ad esempio l’americana, che un tempo era bella e che voleva che la dipingessi con 20 anni di meno. E tutto questo è cinema, se ci pensi. Così l’ho riversato nelle canzoni”.

Possiamo chiamarlo realismo?

“È realismo, ma ci aggiungo una parola: realismo magico. Mi piacciono le storie reali dove c’è qualcosa che sa di fiaba. E desidero sempre che la vita sia così, anche perché la routine è di una noia mortale. Mi piace fotografare la realtà ma aggiungere un punto impazzito”.

Fellini, insomma.

“Fellini è stato davvero tutto ciò che di bello ci viene in mente, mi è sempre piaciuto. Ma anche Monicelli è stato un fotografo eccezionale del nostro animo. Mi ritrovo negli artisti a cui piaceva l’estensione poetica ma anche l’osteria. Quella concretezza che diventa magia nel convivio, negli amici, nelle donne”.

E gli echi letterari che si ritrovano nei tuoi versi: “l’edera e sangue” di “Oceania”, i “sette Cristi a Follonica” e “l’ateo sul Sinai” di “Sette fili di canapa”?

“Sono un trasteverino verace, non ho mai dimenticato di essere nato tra i vicoli. Ma ricordo anche di non avere nessuna origine romana da parte dei miei, un lombardo e una toscana: così ho ereditato il fatto di non avere muri davanti alla mia casa, fare entrare ogni opinione e ogni dialetto. L’alto e il basso, dunque. E poi Roma: struggente e magnifica, tutto e il contrario di tutto, l’universale e il parrocchiale, il burino e lo snob. Un giorno a Roma è un giorno al centro del mondo. E Trastevere è davvero, al di là di ogni retorica, una città nella città: infatti nacque sulla riva destra del fiume, dove non c’erano romani, come città gemella. Poi è diventata la vera Roma”.

Il tema della fede è un altro motivo a te caro: l’amore ricorrente per Nina o il prete di “Cosi sia” che sembra non avere età, un racconto incantato e quotidiano che si può incontrare oggi come nell’Italia di tutto il secolo scorso.

“Sono un laico che ha sempre avuto intorno a sé il sacro. Se entro in una chiesa non guardo solo gli affreschi sulle pareti, ma mi faccio rapire da quella atmosfera spirituale e incantata, che poi c’è in tutti quanti noi. So perfettamente di non sapere ancora nulla e quindi, pur essendo laico, so che “trovare Dio è soltanto cercarlo senza fine”, come dicevo nel Florilegio, se mi consenti una autocitazione”.

In 40 anni hai seguito molte strade: cantautorato, new wave, ora il ritorno ai suoni acustici. Sono tutti pezzi dello stesso puzzle?

“Sono abbinati all’epoca che stavo vivendo. All’inizio vigeva il cantautorato chitarra e voce, ma mi sembrava inutile ripeterlo. Cercavo sonorità più originali e così ho fatto. A distanza di qualche decennio, sono ritornato ai suoni acustici. Magari cambierò ancora, come il vestito che si sceglie la mattina”.

Ora se accendi la radio ti sembra di sentire sempre la stessa canzone?

“C’è un’omologazione totale, anche dal punto di vista armonico e vocale. Invece io faccio il tifo per le ‘vociacce’: in Italia c’è da sempre il modo ‘baglionesco’ di intendere il canto, più gridi e più sei cantante. Non è così, non è l’estensione che conta. Credevamo di essere usciti dal ‘claudiovillismo’ con la nostra generazione invece ci siamo ricascati. Abbiamo invece artisti straordinari come Dalla, Battiato, Conte che fanno capire come per cantare bene non serva gridare, ma esprimere invece l’animale che ti circola nelle ossa”.

Oggi ci sono i talent, ai tuoi tempi c’era la IT di Vincenzo Micocci: tu, Venditti, De Gregori, Rino Gaetano.

“Era un talent quotidiano. C’era Micocci e poi c’era il gigante della RCA, ci si vedeva nel bar della sede di via Tiburtina, tutti senza contratto e ci si scambiavano musiche e testi e anche letti, perché c’era gente che veniva senza soldi e ci si aiutava in nome della passione e della volontà di fare musica. Ma ogni epoca ha la musica che merita”.

 (9 dic -Marcello Lardo)


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