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Nostalgia e shock culturale, se il “cervello in fuga” decide di tornare

Nostalgia e shock culturale, se il “cervello in fuga” decide di tornare

Partire e restare, partire e ritornare.  Mentre si conoscono bene le motivazioni che dettano la scelta di una partenza - maggiori soddisfazioni economiche, stabilità lavorativa, carriera più rapida, minore precariato, desiderio di evasione e di crescita - un po’ meno approfondito è il fenomeno dei rientri in Italia da parte di chi con tanto coraggio è partito e con ancora più coraggio decide di fare il biglietto di ritorno.  Certo è che i nuovissimi dati dell’Istat sulla mobilità internazionale dei cittadini italiani rivelano una frenata.

Tanti dicono di tornare nel Belpaese perché è solo qui che si sentono davvero a casa, felici. Secondo l’Harvard Study of Adult Development a rendere appagante la vita, infatti, non sarebbe tanto il denaro quanto la vita sociale e affettiva, la qualità dei legami: “Le esperienze all'estero hanno diversi motivi per essere affrontate e di solito sono positivi, gratificanti, come l'aumento dei compensi e maggiori opportunità di carriera - spiega a 9Colonne Mauro Schiavella, psicologo di Doctolib - rappresentano un arricchimento sia dal punto di vista professionale sia delle relazioni sociali. La capacità di relazionarsi con gli altri potrebbe rappresentare per un datore di lavoro un valore aggiunto: chi ha vissuto all’estero ha infatti flessibilità e capacità di adattarsi” sottolinea l’esperto.

Non sempre però il “cervello in fuga” vive l’avventura lavorativa all’estero in modo totalmente appagante e questo gli fa sentire urgente il desiderio di tornare: “Ci sono almeno tre grandi categorie di ostacoli vissuti dagli expat: relazionale, lavorativa e personale. La nostalgia di casa, delle proprie abitudini, ad esempio. Ma anche la mancanza di familiari e amici. Non è da trascurare il cosiddetto shock culturale, ossia la difficoltà di adattarsi a tradizioni, usi e costumi molto diversi dai nostri. Queste differenze possono richiede un grande sforzo di adattamento. E c’è anche il rischio di non essere accettati e di diventare dunque vittime di razzismo. Questa è una molla molto forte a rimpatriare. Il fatto che nessuno – o quasi – parli la nostra lingua può determinare un forte disagio che può arrivare a una vera e propria crisi d'identità, ossia dubbi su chi si è o su chi si vuole diventare. Non riconoscersi nella nuova comunità può generare un profondo senso di solitudine”.

Schiavella dà poi un suggerimento: "Andare preparati, studiare la cultura, imparare almeno qualche parola della lingua locale aiuta ad avvicinarsi alle persone, ad essere inclusi". Anche la questione economica è un elemento da considerare, aggiunge lo psicologo: “Può capitare che i costi della vita nel Paese ospitante siano stati sottovalutati e che quello che si guadagna basti a malapena per arrivare a fine mese”, aggiunge lo psicologo che a proposito della salute aggiunge: “Chi non sta bene ha bisogno di essere rassicurato sul fatto che le cure di cui necessita siano disponibili, che ci siano le strutture adeguate. Spesso però si sviluppa nel malato un senso di sfiducia nei confronti della sanità locale e il bisogno di rassicurazione trova soddisfazione solo nel Paese d'origine, accanto alle persone cui si è legati affettivamente”.

Ma ci vuole più coraggioso a partire o a tornare a casa? “Ci sono persone che trovano particolarmente difficile staccarsi da ‘casa’ anche se ci sono degli obiettivi elementi di gratificazione nel partire e quindi trasferirsi richiede un grandissimo atto di coraggio. In queste persone c'è molta ansia dovuta all’incertezza del futuro. Ci sono poi molti individui per cui è facile partire, perché vedono nella partenza una sfida entusiasmante, ma è difficile tornare: i dubbi che rientrando a casa ci siano le stesse opportunità e la stessa libertà sono molto forti, quindi la paura di mollare tutto è grande”. (Tis)

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