Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

Se Draghi è l’unico
che dice “qualcosa di sinistra”

di Marcello Bianchi

Mentre la sinistra ufficiale cade inesorabilmente in ogni trappola preparata dal Governo, consapevolmente o inconsapevolmente, passa sotto silenzio il recente intervento di Draghi al MIT, uno dei primi dopo la caduta del suo esecutivo. Si tratta di un intervento importante che delinea due temi chiave che dovrebbero costituire l’identità di un’opposizione di sinistra, quell’identità malamente cercata in un movimentismo che oscilla tra un libertarismo radicale sul piano delle “pretese” individuali e uno statalismo antiquato su quello delle tutele sociali.
Il primo tema indicato da Draghi è il significato dell’aggressione russa all’Ucraina, identificato come “un passo predeterminato dell’agenda di Putin e un attacco all’Unione Europea” nei suoi valori esistenziali della pace, della libertà e del rispetto della volontà democratica. Ed è per questo, dice Draghi, “che non c’è alternativa per gli Stati Uniti, per l’Unione Europea e per i suoi alleati che garantire che l’Ucraina vinca questa guerra”.
Draghi mette chiaramente in guardia contro il rischio, non solo di una vittoria russa, ma anche di un “pareggio confuso” che “invierebbe agli autocrati il messaggio che l’UE è pronta a rinunciare a ciò per cui si batte, a ciò che è”. In questa sfida l’Europa è coinvolta in prima linea, più degli stessi Stati Uniti, non solo per la vicinanza geografica del conflitto, ma, soprattutto, per la più stretta dipendenza della sua economia dal mantenimento di un equilibrio globale basato sull’apertura dei mercati e su un adeguato grado di stabilità geopolitica.
Se in gioco è l’identità dell’Unione Europea e quindi i suoi valori, una decisa posizione volta alla sconfitta della Russia dovrebbe essere presa soprattutto da chi ha costruito quei valori e vuole preservarli, e dalle culture politiche popolari e socialdemocratiche che hanno costruito l’Europa e il suo modello, pur imperfetto, di democrazia liberale e di economia sociale di mercato.
Non si vuole mettere in discussione la indubbia necessità di affiancare alla risposta militare una adeguata iniziativa diplomatica che renda l’obiettivo della sconfitta della Russia praticabile senza innescare catastrofi nucleari. Ma l’iniziativa diplomatica non può diventare un obiettivo in sé, a meno di non perseguire l’idea di quel “pareggio confuso” che equivarrebbe alla premessa di una sconfitta dell’Europa.
Se la sinistra italiana non adotta con determinazione questa strada, superando il tabù della sconfitta della Russia come primario obiettivo, essa rinuncia a guidare, o almeno a partecipare a questa battaglia decisiva per il futuro dell’Europa, lasciandola nelle mani di una destra italiana ed europea, sicuramente meno legata ai valori fondanti dell’Unione Europea e, non a caso, spesso indulgente verso le forme di autoritarismo, sia all’esterno dei suoi confini, sia al proprio interno.
E qui veniamo al secondo grande tema “di sinistra” dell’intervento di Draghi. Il complesso delle tensioni geopolitiche, enfatizzate dalla guerra in Ucraina, ma diffuse in altre aree geografiche a partire dal confronto sempre più strategico con la Cina, e dalle conseguenze della pandemia, ci sta esponendo a “un periodo prolungato in cui l’economia mondiale si comporterà molto diversamente dal passato più recente”, con una pressione inflazionistica che potrebbe diventare strutturale e quindi destinata a durare nel tempo. In questo quadro, in cui gli strumenti di politica economica si troveranno stretti tra le esigenze spesso contrastanti di contenimento dell’inflazione e della gestione delle sue ricadute sociali, in un difficile mix di misure restrittive ed espansive, un nodo cruciale, dice Draghi, è “l’interazione tra imprese e lavoro” nella gestione degli effetti dell’inflazione e di un ciclo economico incerto. 

Infatti, se da un lato è da temere l’innescarsi di un pericoloso processo inflazionistico trainato da una rincorsa tra prezzi e salari, dall’altro una perdurante mortificazione dei salari potrebbe non solo rendere drammatiche le conseguenze sociali dell’inflazione ma anche indurre tendenze recessive dell’intera economia. Ritorna quindi centrale, nell’analisi di Draghi, il sistema di relazioni industriali come strumento di contrattazione tra capitale e lavoro nel creare non solo le condizioni di remunerazione dei fattori produttivi, in un’ottica di distribuzione della “torta” realizzata, ma soprattutto nel determinare le condizioni di utilizzo di questi fattori, al fine di far crescere la dimensione della “torta” realizzabile.  L’unico elemento che può conciliare il trade-off tra tendenze inflazionistiche e tendenze recessive è la crescita della produttività nei luoghi dove il valore economico viene creato, in primis nelle imprese private e pubbliche, ma anche nelle amministrazioni che producono beni pubblici.
Ben vengano gli investimenti strutturali, e in questo la realizzazione del PNRR può svolgere un ruolo essenziale, e le politiche di assistenza per le fasce più deboli, ma solo se imprese (intese in senso lato) e lavoro sapranno trovare una strada per creare una maggiore produttività e per assicurarne un’efficace distribuzione sarà possibile superare le strettoie dell’attuale fase, una fase destinata probabilmente a durare.
Senza una crescita economica trainata da una produttività perseguita e distribuita, quegli investimenti strutturali non faranno che provocare ulteriore inflazione e quelle politiche di assistenza non faranno che accrescere ancora di più il debito pubblico, rendendo il sentiero della politica economica e monetaria ancora più impervio. 

Il richiamo alla centralità del sistema di relazioni industriali rispetto allo stato di salute del sistema economico non è nuovo nell’analisi di Draghi. Durante il suo mandato governativo, in un fondamentale quanto ignorato discorso all’assemblea di Confindustria, Draghi aveva preso una posizione molto forte, indicando nella “totale distruzione delle relazioni industriali” alla fine degli ’60 del secolo lo scorso la causa principale del declino pluridecennale dell’economia italiana. È da lì che occorre ripartire, superando quella statalizzazione del sistema di relazioni industriali avviata con lo Statuto dei lavoratori e proseguita con un progressivo spostamento della contrattazione dai luoghi di lavoro a inconcludenti tavoli di concertazione politica. Si tratta di una sfida imponente per le parti sociali e per i partiti, soprattutto quelli di tradizione popolare e socialista la cui storia si era intrecciata con le vicende delle relazioni industriali degli anni ’50 e ’60, prima che si avviasse il suo declino. Ma si tratta di una sfida decisiva che solo quelle culture possono affrontare.
Qui si rivela l’assoluta inadeguatezza di tutte le forze che attualmente compongono il centro-sinistra: legge sui contratti a termine, legge sulla rappresentanza e salario minimo sono proposte che perpetuano  ed enfatizzano la marginalizzazione delle parti sociali, in una visione che affida alle leggi e allo Stato la gestione del ruolo del lavoro. Né si discosta da questa visione l’assegnazione, peraltro bipartisan, sulla cosiddetta riduzione del cuneo fiscale come strumento per alzare i salari, trattandosi dell’ennesimo trasferimento a carico della spesa pubblica.
Un passo nella giusta direzione viene invece dalla recente iniziativa della Cisl, che ha avviato la raccolta di firme su una legge di iniziativa popolare sul tema della “Partecipazione al Lavoro”. La proposta contiene una serie di misure volte a incentivare forme di partecipazione economica e strategica dei lavoratori alla gestione delle imprese, basate sulla contrattazione collettiva. Come si sostiene nella relazione che accompagna la proposta, questa “è un’occasione per far diventare patrimonio comune ciò che l’intelligenza della contrattazione ha già generato sui territori”, citando una serie di accordi aziendali che, pur nella loro parzialità e occasionalità, hanno dimostrato la fattibilità di un modello negoziale incentrato sull’incremento della produttività.
È ovvio che affidare a una legge il compito di colmare l’enorme vuoto lasciato dal declino delle relazioni industriali può apparire ingenuo e rischia di ridurre l’impegno che potrebbe essere dedicato a una più ampia e sistematica diffusione di prassi negoziali di partecipazione, negli spazi già ampi che l’attuale quadro normativo concede. Anche su alcuni contenuti della proposta si potrebbero avanzare dei dubbi, in particolare riguardo al tentativo di istituzionalizzare la partecipazione dei lavoratori ai consigli di amministrazione attraverso incentivi fiscali, che rischia di diventare un fine in sé invece che uno strumento, da adottare eventualmente in specifiche situazioni, per realizzare il vero obiettivo di perseguire il miglioramento della produttività attraverso il coinvolgimento strategico ed economico dei lavoratori. Ciononostante, si tratta dell’unico segnale di vita di un mondo sindacale che rischia di essere sempre più marginalizzato nei poderosi cambiamenti che sta affrontando oggi l’economia e la società nel suo complesso, e cui la sinistra dovrebbe ricominciare a guardare con attenzione, se non vuole essere travolta dalla stessa marginalizzazione. 

 (da isril.it

(© 9Colonne - citare la fonte)