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La politica, i giudici e gli opposti stereotipi

La politica, i giudici e gli opposti stereotipi

di Paolo Pombeni

Non dovrebbe essere vittima di una coazione a ripetere lo scontro del sistema giudiziario con il mondo politico: come hanno autorevolmente detto alcuni commentatori responsabili non giova a nessuna delle due parti e nuoce gravemente al paese. Tangentopoli non ha migliorato il nostro sistema, anzi lo ha inutilmente avvelenato. Andare oltre quella fase sarebbe un bene per tutti.
Il punto centrale è che bisogna superare una reciproca delegittimazione. Da un lato il sistema giudiziario è pesantemente gravato dall’accusa di essere in mano ad una corporazione che cerca di salvare le sue abitudini di lavoro e che cede non di rado alla volontà di guadagnare spazi usando a sproposito i suoi poteri inquisitori. Dal lato opposto il sistema politico è presentato come profondamente corrotto, una casta rinserrata nei propri fortilizi che vorrebbe porsi al di riparo dalle incursioni dei magistrati che puntano a costituirsi arbitrariamente come un tribunale di salute pubblica. Non è certo difficile trovare casi che portino l’acqua al mulino tanto dell’una quanto dell’altra parte. Che però questo riguardi il funzionamento dell’intero sistema giudiziario e dell’intero sistema politico è sostanzialmente falso. Come sempre nell’uno e nell’altro campo tendono ad occupare gli spazi della comunicazione pubblica coloro che approfittano degli opposti stereotipi per consolidare il rispettivo potere.
Un sistema democratico deve fare ogni sforzo per uscire da questo impasse. Gli schemi semplicistici non risolvono nessuna questione: dire che il parlamento fa le leggi e i giudici le applicano è abbastanza astratto, così come il sostenere che l’indipendenza della magistratura significhi che essa è un potere separato, sovrano rispetto agli altri. La realtà è ben più complicata. Il primo nodo che andrebbe sciolto è quello che fissa i limiti dell’azione inquisitoriale in un sistema democratico. Non è che la magistratura possa usare qualsiasi metodo per ricercare una verità giudiziale nel contrasto ai reati: si mettono sotto esame cittadini e più in generale persone che vanno rispettate nei loro diritti fondamentali. Su questo terreno vanno superate le pigrizie che derivano dall’abitudine di poter utilizzare senza limiti strumenti delicati. È il caso delle intercettazioni che violando il diritto costituzionale alla libertà di comunicazione possono essere consentite solo in casi limitati. Non è vero che senza di esse non si possono più perseguire i reati: è un’argomentazione che ricorda, in tempi fortunatamente molto lontani, la convinzione che senza la tortura non si sarebbero ottenute confessioni. La storia ha dimostrato che non è così.
Altrettanto si dica per fattispecie di reato che sono configurate in maniera così generica da rivelare che hanno radici più in convincimenti a priori che in analisi di comportamenti effettivamente delittuosi. Il caso dell’abuso di potere è tipico dell’idea che il detentore di un potere pubblico sia portato ad usarlo male. Peraltro questo concetto non si applica a giudici e pubblici ministeri che anche quando è conclamato che hanno usato disinvoltamente il loro potere non vengono quasi mai sanzionati. Per converso per superare i pregiudizi verso la classe politica accusata di ricercare sempre l’impunità, sarebbe necessario che essa mettesse in campo strumenti propri per sanzionare quei membri che deviano da un corretto impiego delle loro posizioni e dei loro poteri. Ciò dovrebbe essere fatto prima e fuori della sfera della giustizia penale. Quando si riscontra la presenza della denuncia di un comportamento che si discosta dai doveri di chi ha accettato di servire in politica la comunità (nazionale o locale che sia) ci deve essere modo di esaminare subito quel caso e di eventualmente sanzionarlo sul piano appunto politico-morale.
Ci rendiamo conto che il punto è molto delicato, perché i partiti temono le vendette reciproche, perché le sanzioni su quel piano sono molto più dure di quelle della magistratura, perché consentono meno di ricorrere a garbugli procedurali e interpretativi. Il fatto è che se si riuscisse ad agire su questo piano da un lato si potrebbero avere tempi molto più rapidi nella emissione dei giudizi e dall’altro si avrebbe un effetto ben più deterrente per chi ha facilità a scivolare nelle commistioni fra politica ed affari, fra politica e interessi personali e quant’altro. Non si tratta certo di costruire un “foro privilegiato” per chi fa politica: nel nostro sistema costituzionale, così come in tutti quelli democratici nessuno può essere sottratto al suo giudice naturale stabilito per legge. Ma non si tratterebbe di anticipare un giudizio penale, ma di esercitare un controllo, con tutte le doverose garanzie, perché “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche” corrispondano al “dovere di adempierle con disciplina ed onore” (art. 54 della Costituzione).
Individuare gli strumenti per garantire una giustizia che sia funzione della coesione comunitaria della nazione e una sfera politica che non si consideri rappresentante assoluta del proprio potere invece che di quello della sfera pubblica governato dal consenso dei cittadini deve essere un obiettivo primario per chiudere definitivamente con una stagione che, per tante e complesse ragioni, ha indebolito la tenuta di legittimità dell’intera sfera pubblica. È un percorso complesso che richiede molto più che riforme e difese corporative. Richiede cultura politica, materia che in natura non si trova esattamente in abbondanza, ma che va ricostruita con determinazione e pazienza.
(da mentepolitica.it )

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