di Paolo Pagliaro

(28 marzo 2018) Nel 2014 gli hacker presero d’assalto i sistemi informatici di Sony Pictures. Nei file pubblicati si trovò di tutto: sceneggiature inedite di film e serie TV, stipendi di 6800 dipendenti, contratti dei dirigenti con bonus economici, informazioni riservate sugli accordi di distribuzione, password dei dipendenti e persino i dati completi delle carte di credito dei manager e i certificati medici di chi era stato a casa in malattia. Si accusò Pyongyang di aver organizzato l’incursione perché Sony stava per far uscire un film che ridicolizzava il paffuto dittatore nordcoreano. In seguito si accusò la Russia di aver “bucato” le reti di distribuzione elettrica dell’Ucraina come ritorsione per il taglio dell’energia in Crimea; si accusò la Cina di rubare segreti industriali con spionaggio informatico perché solo in questo modo si potevano spiegare i suoi progressi tecnologici; si ritenne responsabile l’Iran dell’attacco ai sistemi di Aramco, la compagnia petrolifera saudita; si individuarono negli Stati Uniti e in Israele gli autori del virus che rallentò i programmi nucleari iraniani.
Ma, come spiega il presidente dell’Ispi Giampiero Massolo, non possiamo avere certezze, perché nell’ambito della guerra e dello spionaggio informatici non ci sono pistole fumanti. Gli esperti non possono addurre prove incontrovertibili, e si limitano a indicare agli orari in cui si sono svolti gli attacchi, le lingue in cui è scritto il software malevolo, lo schema di propagazione del virus. Troppo poco per trascinare qualcuno a giudizio e anche per predisporre adeguate difese. Massolo paragona lo spazio cibernetico a un far west in cui non ci sono regole e barriere d’ingresso. E chiede agli Stati di intervenire perché le reti globali non diventino il campo da gioco di un eventuale futuro conflitto. Il fatto è che per il momento gli Stati sono il problema, non la soluzione..