di Paolo Pagliaro

(14 febbraio 2019) Nel lessico della politica e della propaganda c’è una parola maledetta e questa parola è austerità. E’ irresistibile la tentazione di attribuirle la responsabilità di ogni disastro sociale, senza peraltro ben capire di cosa si stia parlando. Se cioè austerità significhi taglio della spesa, aumento delle tasse, contrazione dei consumi, modestia dei costumi o che altro.
Cosa doveva intendersi per austerità provò a spiegarlo 40 anni fa l’allora segretario del Partico comunista italiano Enrico Berlinguer. “Austerità – disse – significa rigore, efficienza, serietà e significa giustizia, cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora e che ci ha portato alla crisi gravissima che oggi si manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata”. 
Poi quella parola imboccò altri sentieri, perse per strada il suo significato -  che era morale prima che economico -  e fu fatta a pezzi. Ai giorni nostri  è diffusa la convinzione che di austerità si muoia.  Perciò va accolto come un  omaggio alla libertà di pensiero e di ricerca il volume che all’ “austerità”  (questo è il titolo) hanno dedicato tre noti  ecomomisti italiani: Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi.  E’ un contributo non dogmatico, perché il libro – pubblicato in America e ora tradotto da Rizzoli - non è un inno all’austerità ma si limita a spiegare quando l’austerità funziona e quando no.
Nella prefazione, Ferruccio De Bortoli ricorda che l’economia ha nemici visibili e insidiosi: il luogo comune, la diceria popolare, la mistificazione dei concetti. Questi nemici il libro di Alesina, Favero e Giavazzi li sfida, dimostrando che l’austerità non è un’ideologia, ma è semplicemente un insieme di strumenti di politica economica necessari ad affrontare una situazione d’emergenza. Che è poi la situazione in cui l’Italia si trova da molti anni.