Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

Il Barone dell’Nba
si racconta a Trento

Una carriera condensata in un’ora. È questo il senso dell’incontro-ritratto dedicato a Baron Davis di sabato 12 ottobre al Festival dello Sport. Incalzato dalle domande di Davide Chinellato e Simone Sandri, “il Barone dell’NBA” ha infatti ripercorso la sua lunga storia sportiva e non, fatta di 12 stagioni di altissimo livello nel campionato più spettacolare del mondo, ma anche dell’avventura con quel “dream team” che è la nazionale degli Stati Uniti e di tanti altri progetti stimolanti realizzati una volta appesa la canotta al chiodo. Un precorso basato sul duro lavoro, come tiene a sottolineare subito il talento originario di Los Angeles, perché: “Chi fa il point guard nel basket deve sapere tutto, deve studiare la partita, gli avversari ma anche i suoi compagni, e c’è sempre qualcosa da imparare. È un ruolo che presuppone leadership e carisma ed io sono stato allenato a sapere cosa fare con la palla in mano fin da piccolo, senza preoccuparmi del peso o dell’importanza dei miei compagni di squadra”. È così che, nella stagione 1999-2000 Baron Davis arriva in NBA da rookie con gli Charlotte Hornets, e dopo tre anni è già un protagonista dell’All Star Game e della nazionale a stelle e strisce, con cui però fallisce la missione al Mondiale: “A Indianapolis fu la prima volta che si vide come il basket europeo avrebbe avuto sempre più rilevanza in futuro, c’erano un sacco di giocatori incredibili, la Jugoslavia che ci eliminò o l’Argentina di Ginobili, che dimostrarono come in seguito l’NBA si sarebbe dovuta adattare a questo tipo di basket”.

 

CHARLOTTE. A Charlotte Davis diventò quindi il giocatore che poi sarebbe stato in futuro: “Eravamo un grande gruppo con uno spirito particolare, abbiamo fatto la storia insieme”; poi a New Orleans e a Golden State gli anni della consacrazione, definitiva nel 2004 con l’All Star Game nella sua Los Angeles. “It was crazy”, dice Baron Davis, “Fu una cosa pazzesca, comprai un sacco di biglietti, costosissimi, per tutti i miei amici e fu un momento epico, il più bello della mia carriera, che univa il lavoro alla famiglia, agli amici e alle tante star che parteciparono alla festa dopo il match”.

 

WARRIORS. Ai Warriors l’impresa di riportare Golden State ai playoff dopo 17 anni, prendendosi il lusso di eliminare i Maveriks di Dirk Nowitzki, e l’arriivo di Marco Belinelli in NBA: “Era un rookie e nessuno gli parlava, sapeva poche parole in inglese e io per farlo sentire a casa lo portavo a mangiare nel mio ristorante italiano preferito. Da lì è nata una grande amicizia”. Quindi un commento sull’esperienza negativa ai Clippers: “Donald Sterling era un presidente del tutto disinteressato alla squadra e al basket, era un mezzo bandito ed è stato un bene il suo allontanamento dall’NBA”; ed il finale di carriera a New York: “Mi sono fermato per problemi fisici e lì ho pensato che era arrivata la fine”.

 

PRESENTE. In conclusione il Baron Davis di oggi, che si occupa di comunicazione, con la sua piattaforma di informazione sportiva online, e della produzione di documentari, come quello sulle gang di Los Angeles, di cui è stato anche regista: “Volevo recuperare le mie origini, è il mondo in cui sono cresciuto e per questo ci tenevo a raccontarlo”; ma anche un Baron Davis a cui manca il basket, che scherzosamente confessa quanto vorrebbe tornare a giocare, ed è così che l’Aquila Basket Trento tutta sale sul palco per omaggiarlo con la canotta bianconera della squadra locale. (Red – 13 ott)

 

(© 9Colonne - citare la fonte)