Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

“Il peggio della tv”
di Umberto Piancatelli

Libri
Ogni settimana uno scaffale diverso, ogni settimana sarà come entrare in una libreria virtuale per sfogliare un volume di cui si è sentito parlare o che incuriosisce. Lo "Speciale libri" illustra le novità delle principali case editrici nazionali e degli autori più amati, senza perdere di vista scrittori emergenti e realtà indipendenti. I generi spaziano dai saggi ai romanzi, dalle inchieste giornalistiche, alla storia e alle biografie.

“Il peggio della tv” <br> di Umberto Piancatelli

“IL PEGGIO DELLA TV” DI UMBERTO PIANCATELLI

“Il peggio della tv”: ovvero le miserie del quinto potere. Sulla televisione esistono libri che trattano l’argomento dal punto di vista politico, culturale, economico e strategico, “Il peggio della tv” di Umberto Piancatelli (Editore Melville), per la prima volta, racconta invece risse, insulti, parolacce, gaffe, flop, polemiche, scandali, querele, censure e curiosità prodotti dal piccolo schermo dal 1954 ai nostri giorni. Il libro è un lungo viaggio attraverso le truffe smascherate dalla Venier e dalla Bonaccorti, le memorabili gaffe di Bongiorno, le censure a Vianello e Tognazzi, Tortora e Fo, i comizi e i silenzi di Celentano, gli scandali del Festival di Sanremo, l’ombelico galeotto della Carrà, l’attacco di Paolo VI alla tv, le parolacce di Maiorca, Mastelloni e Co., le polemiche di Costanzo e Baudo, gli storici interventi di Grillo e Benigni, le bordate di Funari, gli scontri verbali di Sgarbi, le picconate di Cossiga, le liti di Ferrara, le interviste scomode di Biagi, il gesto dell’ombrello di Pertini e Maradona, i salotti trash della D’Urso e le risse tra i politici. Non manca proprio nessuno, neppure Luciano Rispoli, celeberrimo per i suoi modi cortesi. Per la prima volta sono riportati integralmente i monologhi entrati nella storia e le risse più infuocate, le battute che hanno sollevato infinite polemiche e i testi delle canzoni massacrati dalla censura. Diviso in sei capitoli, il libro segue un ordine cronologico e attraverso gli aneddoti annota protagonisti e comprimari, che hanno segnato le nostre giornate e hanno scritto la nostra storia. “Il peggio della tv”, arricchito dalla prefazione di Mariano Sabatini,  è una sorta di album dove si ritrovano divi del piccolo schermo di ieri e di oggi entrati a far parte della memoria collettiva, ma è anche un’occasione per comprendere come abbiamo cambiato costumi e abitudini. È un’opportunità per capire come la televisione, da ‘grande sorella’ pedagogica e un po’ bacchettona, sia diventata un ring dominato dall’eccesso in cui si esibiscono personaggi negativi, smodati, esibizionisti ed esaltati, che portano l’arroganza ad essere l’unica costante rintracciabile sul piccolo schermo. “Il peggio della tv” è dunque un libro che si rivolge a tutti: a quelli che amano il piccolo schermo, a coloro che lo odiano e a chi lo vorrebbe cambiare.

 

DON MAZZI, AMORI E TRADIMENTI DI UN PRETE DI STRADA

“Amori e tradimenti di un prete di strada” (Edizioni San Paolo 2017, pp. 170, euro 16): questo il titolo dell’autobiografia di Don Antonio Mazzi, in cui il sacerdote “mette a nudo il suo cuore, un cuore grande, così grande da riempirsi di tutte le debolezze, le fragilità, le schifezze che gli altri volentieri schivano o fanno finta di non vedere”. Don Mazzi nasce a Verona nel 1929; termina gli studi classici nel 1950 presso il seminario vescovile di questa città, mentre quelli teologici e filosofici li conclude a Ferrara nel 1955. Il 26 marzo 1956 è ordinato a Ferrara sacerdote nella Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, fondata da san Giovanni Calabria. Nel 1979 è chiamato a dirigere il Centro di formazione professionale di via Pusiano (Milano), a ridosso del Parco Lambro. Nel 1984 fonda il Gruppo Exodus per recuperare i tossicodipendenti che avevano trasformato uno dei più bei parchi d’Italia nel più grande ipermercato europeo dell’eroina. Dal 1996 è presidente della Fondazione Exodus onlus che gestisce e coordina una trentina di strutture sul territorio nazionale e internazionale. Svolge attività di comunicazione sociale, di formazione, di promozione di percorsi personalizzati con bambini, adolescenti, giovani e famiglie, di prevenzione e cura delle tossicodipendenze e delle forme di grave disagio sulla base di un approccio di tipo educativo. Ben nota è la sua attività di pubblicista in importanti testate giornalistiche (Gente, Famiglia Cristiana, Vita Pastorale…) e televisive. I suoi titoli più recenti sono: È severamente proibito fare figli; Ho perso i chiodi; Non mollare; Lettere a Cristo Bambino; Le parole di papa Francesco che stanno cambiando il mondo; Don Mazzi dà i numeri; Spinocchio.

 

NICOLA LABANCA SPIEGA CAPORETTO  

“Dove andate? Le linee sono rotte; gli austriaci hanno preso Caporetto e ci hanno portato via i cannoni: non andate su perché non v’è da far niente”: in “Caporetto. Storia e memoria di una disfatta” di (Il Mulino), lo storico Nicola Labanca ricostruisce le ragioni di quanto avvenuto un secolo fa. Il 24 ottobre 1917, truppe austroungariche e tedesche travolgevano le malpreparate trincee italiane sul Carso fra Plezzo e Tolmino, attorno a Caporetto. L’attacco portò alla conquista austriaca di tutto il Friuli, minacciando addirittura la pianura padana. Il fronte italo-austriaco precipitò sino al Piave e il rischio per l’Italia liberale fu enorme. Il comandante supremo Luigi Cadorna gettò invece la responsabilità sulle truppe, accusandole di aver ceduto, e su quelli che considerava gli avversari interni della guerra: socialisti, cattolici, liberali neutralisti. Nacque la paura che Caporetto fosse stata uno sciopero militare, quasi una rivolta. Qualcuno si apprestava in Italia a “fare come in Russia”? Disfatta militare o campanello d’allarme politico? Il libro ricostruisce lo scontro militare e politico giocato attorno a Caporetto e rilegge le spiegazioni che ne sono state date, da allora sino ad oggi. Nicola Labanca insegna Storia contemporanea all’Università di Siena. È presidente del Centro Interuniversitario di Studi e Ricerche Storico-militari. Per il Mulino ha pubblicato “Oltremare” (nuova ed. 2007), “La guerra italiana per la Libia” (2012), “La guerra d’Etiopia” (2015), “Una guerra per l’impero” (nuova ed. 2015); ha inoltre curato “I bombardamenti aerei sull’Italia” (2012) e “La guerra italo-austriaca” (con O. Überegger, 2014).

 

“LA RABBIA DEI VINTI” DOPO LA GRANDE GUERRA  

“Questa guerra non è la fine, bensì l’inizio della violenza. È la forgia nella quale verrà plasmato un mondo con nuovi confini e nuove comunità. Nuovi stampi richiedono di essere riempiti col sangue, e il potere sarà esercitato con pugno di ferro”. Parole di Ernst Jünger. L’11 novembre del 1918 segna un momento decisivo della storia d’Europa: la fine di una guerra che aveva distrutto un’intera generazione e l’estinzione di grandi imperi secolari. Ma quale è stata l’eredità che ci ha lasciato la Prima guerra mondiale? Questa la domanda a cui cerca di rispondere Robert Gerwarth in “La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923” (Laterza). Per molti aspetti il futuro dell’Europa non è stato condizionato tanto dai combattimenti sul fronte occidentale quanto dalla devastante scia di eventi che seguirono la fine del conflitto mondiale quando paesi di entrambi gli schieramenti vennero travolti da rivoluzioni, pogrom, deportazioni di massa e nuovi cruenti scontri militari. Se nella maggior parte dei casi la Grande guerra era stata una lotta fra truppe regolari che combattevano sotto la bandiera dei rispettivi Stati, i protagonisti di questi nuovi conflitti furono soprattutto civili e membri di formazioni paramilitari. La nuova esplosione di violenza provocò la morte di milioni di persone in tutta l’Europa centrale, meridionale e sud-orientale, e questo ancor prima che nascessero l’Unione Sovietica e una serie di nuovi e instabili staterelli. Ovunque c’erano persone animate da un desiderio di rivalsa, disposte a uccidere per placare un tormentoso senso di ingiustizia, e in cerca dell’opportunità di vendicarsi contro nemici reali o immaginari. Un decennio più tardi, l’avvento del Terzo Reich in Germania e l’affermazione di altri Stati totalitari fornirono loro l’occasione che tanto avevano atteso. Robert Gerwarth insegna Storia contemporanea presso lo University College di Dublino, dove dirige il Centre for War Studies. Fra le sue pubblicazioni si ricordano “The Bismarck Mith” e una biografia di Reinhard Heydrich. Ha studiato e svolto attività di insegnamento negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Germania e in Francia.

 

“IL CASO TULAEV” DI VICTOR SERGE

Mosca, 1938. Il giovane Kostja uccide Tulaev, membro del comitato centrale del Partito Comunista. In seguito all’attentato, la polizia segreta organizza la ricerca non tanto dell’esecutore materiale, quanto dei responsabili morali che, con il loro atteggiamento critico verso lo stalinismo, avrebbero contribuito a creare il clima in cui è maturato il delitto. Cinque sono i colpevoli designati: l’intellettuale Rublev, l’alto commissario di polizia Erchov, il contadino-soldato Makeev, il vecchio bolscevico Kondriatiev e il trockista irriducibile Ryjik. A tutti costoro, rivoluzionari di provata fede, sono rivolte le accuse più fantasiose e infamanti e si chiede il sacrificio supremo per una causa per la quale hanno già sacrificato tutto. Nel libro “Il caso Tulaev” (Fazi editore, introduzione di Susan Sontag e traduzione di Robin Benatti) Victor Serge ricostruisce il clima di terrore e menzogna in uomini irreprensibili, noti per la loro devozione e apprezzati per la loro competenza, arrivano al punto di riconoscersi colpevoli dei peggiori crimini e, per una rivoluzione che è pur sempre la loro, preferiscono morire disonorandosi piuttosto che denunciare gli orrori del regime alla borghesia internazionale. Il caso Tulaev è una lucida analisi dell’universo staliniano, unita a una rigorosa interpretazione storica della Rivoluzione russa, dove il dolore e la consapevolezza di un fallimento non sono però mai per lo scrittore, che pure ne ha sofferto sulla propria pelle le conseguenze, un motivo per venire meno ai propri principi e alla propria coerenza. In occasione del centenario della Rivoluzione d’Ottobre torna lo splendido romanzo di Serge, una delle figure più affascinanti del movimento rivoluzionario e un autore alla cui grandezza si sono inchinati scrittori come Gide e Orwell. Giornalista, saggista e romanziere. Dapprima anarchico, poi bolscevico, in seguito schierato con Trockij e deportato a Orenburg, Victor Serge fu tra i primi a denunciare nei suoi scritti i crimini compiuti da Stalin. Oltre a Il caso Tulaev, tra i suoi libri più noti ricordiamo: Memorie di un rivoluzionario, L’Anno primo della rivoluzione russa e La città conquistata. Di Victor Serge Fazi Editore ha pubblicato anche È mezzanotte nel secolo. 

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