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La crisi di governo
e il ruolo del Quirinale

La crisi di governo <br> e il ruolo del Quirinale

Luca Tentoni

Questa lunga crisi di governo sta mettendo alla prova, oltre alle capacità di ascolto e mediazione del Capo dello Stato, anche la pazienza degli elettori. Tuttavia, è stata ed è l'occasione per portare alla luce alcuni aspetti poco valutati dall'opinione pubblica. Il primo è il ruolo del Quirinale. Ogni presidente ha il suo stile, ma il compito del Presidente della Repubblica è - in casi come questo - unico e insostituibile: si tratta di essere al tempo stesso notaio, arbitro, tessitore, facilitatore di intese, difensore delle istituzioni (e, di conseguenza, attivo nel sollecitare le forze politiche ad assicurare il buon funzionamento del sistema).
Prima delle elezioni - e in questi giorni - qualcuno ha talvolta voluto strattonare l'arbitro, cercare di indurlo a prendere decisioni, non suggerendole ma anticipandole e pretendendole. Un buon arbitro deve sopportare, ascoltare, se necessario far valere la propria autorevolezza e infine la propria autorità, nell'interesse del Paese. Anche se non eletto direttamente dal popolo, il Capo dello Stato non ha bisogno di mettere la spada di milioni di voti sul piatto della bilancia: è una cosa che possono provare a fare, col dovuto garbo istituzionale, i vincitori, sempre che i numeri siano davvero tali da permettere loro di realizzare i desideri e le promesse fatte in campagna elettorale. Il secondo punto emerso in questo mese e mezzo è che la nostra è sempre stata una Repubblica parlamentare. Non esistono governi o presidenti del Consiglio "eletti dal popolo" (una sgrammaticatura costituzionale buona per guadagnare i voti di chi ci crede, ma grossolanamente falsa e ingannevole): un conto sono le pretese dei leader, un altro conto i rapporti di forza e il rispetto di ruoli e prerogative istituzionali. Inoltre, le trattative per formare un governo - se dalle urne non emerge una possibile coalizione maggioritaria in entrambi i rami del Parlamento - non rappresentano un ripugnante compromesso, ma lo svolgimento di un confronto tipico della dialettica democratica.
Ipotizzare che si possa fare a meno di intese significa non comprendere l'essenza e la forma della democrazia repubblicana. Raggiungere intese non può essere considerato aprioristicamente un fattore negativo. Come scrive Gianrico Carofiglio nel suo recente "Con i piedi nel fango - Conversazioni su politica e verità" (Edizioni Gruppo Abele, 2018) «c'è un passaggio esemplare in Contro il fanatismo di Amos Oz in cui mi riconosco del tutto: "il compromesso è considerato come una mancanza di integrità, di dirittura morale, di consistenza, di onestà. Il compromesso puzza, è disonesto. Non nel mio vocabolario. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo, determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo e morte"». Dunque, prosegue Carofiglio, deve essere chiaro «che il compromesso di cui stiamo parlando è il compromesso ostensibile, che si può esibire, raccontare e spiegare; se devo nasconderne ragioni e contenuti allora è, con ogni probabilità, sbagliato e moralmente discutibile. Il compromesso di cui parliamo è figlio di una convinzione: nelle opinioni altrui, degli avversari, c'è quasi sempre qualcosa di giusto, qualcosa da accettare e includere».
Le intese fra i partiti, dunque, possono e debbono essere ricercate. Sta all'opinione pubblica, alla stampa, a tutti gli osservatori vigilare affinché siano "compromessi positivi" e non accordi spartitori di potere e di altre utilità. Una democrazia sana vive di accordi puliti e di giusti compromessi, sempre preferibili allo stallo e ad una guerra senza quartiere fra partiti nella quale l'unica vittima è il Paese. Di qui, il terzo aspetto da rivalutare: la necessità di servirsi di una fase "rituale" (o procedurale: le consultazioni, gli incarichi esplorativi e il resto), che non è un gioco di palazzo, ma la fase delicata durante la quale gli "eserciti" che si sono combattuti in campagna elettorale depongono le armi, abbassano i toni e danno vita ad una nuova fase, costruttiva. Il dialogo è sempre una valida soluzione, anche quando appare impossibile. Perché ciò avvenga, il tempo è un fattore essenziale. Mattarella non è un signore che si diletta a prendere il caffè con i leader dei partiti, chiamandoli più volte al Quirinale per passare qualche giornata in compagnia. Quello che si definisce un lungo e sterile balletto è invece una paziente opera diplomatica che può dare frutti o meno: dipende dall'abilità dell'arbitro-notaio, ma anche dall'intelligenza e dalla disponibilità delle "parti in causa" (come si usa definirle, in questo periodo nel quale va di moda il linguaggio contrattuale). C'è poi un ultimo dettaglio, fra i tanti che si potrebbero richiamare: l'idea che in caso di stallo si debba "ridare la parola al popolo" va sfrondata da risvolti propagandistici e populisti. Le elezioni sono il più alto momento della democrazia, dunque è fondamentale che il popolo si esprima. Ma è altrettanto importante che le forze politiche siano capaci di svolgere il proprio ruolo: è per questo che esiste la democrazia rappresentativa. Affermare che, in fondo, si può rinunciare a qualcosa e a qualche ambizione personale o di bottega partitica per dare un governo stabile ed efficiente al Paese, non è disdicevole. Lo è, semmai, non fare abbastanza per onorare il mandato e invitare i cittadini a sbrogliare una matassa intricata solo perché i leader (i rappresentanti) non sanno, non vogliono o non sono capaci di farlo. In tal caso, il ritorno alle urne non è una vittoria della democrazia, ma dell'impotenza della politica: la miglior propaganda possibile, insomma, per screditare il sistema. Può funzionare, certo: ma questo meccanismo, se serve una volta per guadagnare qualche voto, può ritorcersi al giro successivo contro chi ne ha beneficiato.
Per questo, una delle virtù democratiche è la prudenza, unita ad una sana lungimiranza e alla capacità di ascolto. Qui torniamo al ruolo del Quirinale, che può essere importante ma non decisivo, se i partiti non assicureranno al Presidente quella collaborazione che non sempre, nel corso di questa crisi, hanno dimostrato di volergli concedere.

(da mentepolitica.it )

 

 

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