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direttore Paolo Pagliaro

La rivoluzione
del ’68 nello sport
e nel mondo

Libri
Ogni settimana uno scaffale diverso, ogni settimana sarà come entrare in una libreria virtuale per sfogliare un volume di cui si è sentito parlare o che incuriosisce. Lo "Speciale libri" illustra le novità delle principali case editrici nazionali e degli autori più amati, senza perdere di vista scrittori emergenti e realtà indipendenti. I generi spaziano dai saggi ai romanzi, dalle inchieste giornalistiche, alla storia e alle biografie.

La rivoluzione <br> del ’68 nello sport <br> e nel mondo

SESSANTOTTO, DIARIO DI UNA RIVOLUZIONE NELLO SPORT E NEL MONDO

“Infinito edizioni” presenta “Sessantotto, l’anno del non ritorno: Diario di una rivoluzione nello sport e nel mondo” (pag. 144 - € 13,00) di Carlo Santi, con la prefazione di Italo Cucci e la postfazione di Michele Maffei. Il 1968 è stato un anno spartiacque, segnato da molteplici eventi dal Vietnam al Messico, dagli omicidi di Martin Luther King e di Bob Kennedy alle contestazioni studentesche. La rivoluzione è globale: a Roma va in scena la battaglia di Valle Giulia; a Parigi, a Berlino e negli Stati Uniti centinaia di migliaia di persone manifestano nelle strade. A Città del Messico, il 3 ottobre, a piazza delle Tre Culture l’esercito spara sugli studenti uccidendo centinaia di persone e ferendone migliaia.Il mondo dello sport non è da meno. Alle Olimpiadi messicane di quell’anno Bob Beamon salta 8,90 metri, Dick Fosbury rivoluziona il salto in alto, Tommie Smith nei 200 piani fissa sulla prima pista in tartan della storia il record del mondo a 19”83 e si fa immortalare sul podio insieme a John Carlos con il pugno guantato di nero, pagando a caro prezzo quel gesto. Lee Evans nei 400 e David Hemery nei 400 ostacoli vincono stupendo, Abebe Bikila partecipa ai suoi ultimi Giochi e sono grandi anche gli italiani: Giuseppe Gentile realizza due primati del mondo nel salto triplo ma finisce al terzo posto; Eddy Ottoz e Giacomo Crosa si fanno valere nell’atletica; Klaus Dibiasi stupisce il mondo nei tuffi. “Abbiamo capito che nel 1968 a Città del Messico abbiamo perduto una grande occasione per far sentire la nostra voce, anche se allora la voce degli atleti, sia pure di grandi campioni, non era ascoltata come avviene oggi” scrive Maffei nella postfazione. Santi, già firma delle redazioni sportive de Il Messaggero di Roma e de Il Tempo, ha seguito Olimpiadi (da Atlanta 1996 a Rio de Janeiro 2016), tutte le edizioni dei Campionati mondiali di atletica, varie edizioni di Mondiali ed Europei di atletica, volley e nuoto. Cura per la Federazione italiana di atletica l’Annuario. Ha scritto diversi libri, tra i quali Nel mondo di Roma 1870, così nasceva lo sport nella Capitale; Maratona, cronaca di un secolo; Campioni per sempre (menzione d’onore al Premio Roma); Oro azzurro (Infinito edizioni, 2016, con Dario Ricci).


L’ORO NEL SANGUE E GLI INTRIGHI INTERNAZIONALI DI UN EX FUNZIONARIO SISDE IN CINA

È appena arrivato nelle librerie italiane il primo romanzo di Gian Paolo Aloi, “L’oro nel sangue” (Historica, 2018, 244 pagine, 17 euro). Il libro, un racconto di spionaggio, è il primo di una trilogia sulla storia di Paco, un non brillante imprenditore italiano che vive in Cina, dove la pizzeria italiana che aveva aperto, più che guadagni, gli procura debiti, fino a condurlo quasi alla bancarotta. La storia, seppure parte dalle vicende di un “migrante” che cerca il business nella emergente potenza cinese, non ha pretese letterarie né vuole essere racconto di cronaca, non è nemmeno una denuncia della crisi economica globale di quest’ultimo decennio, né vuole essere metafora di una condizione umana o generazionale a cui pure, leggendo il libro, si potrebbe pensare. Il libro è un concentrato di azione e avventura, dove fatti e personaggi narrati sono di fantasia, anche se soggetti e ambientazioni sono chiaramente ispirati a persone conosciute e incontrate dall’autore durante gli anni vissuti per lavoro in Cina. Aloi, infatti, nato a Roma nel 1959, entra nel Sisde, il servizio segreto italiano e, dopo tre anni di antiterrorismo a Bologna e a Roma, diventa collaboratore di Bruno Contrada, col quale lavora fino al suo ritiro, dopo di che  finisce in Africa a lavorare per le Nazioni Unite, in Somalia e in Kenya e, nel 2008 diventa responsabile degli affari consolari del Consolato italiano a Guangzhou, la città cinese di Paco. Una vita movimentata, con incontri originali, in situazioni e ambienti particolari, che gli consentono di assistere a fatti veri che lo portano a immaginare e descrivere in questo primo libro vicende verosimili. Ecco, dunque, che nell’avventura letteraria Paco, il protagonista finito a Guangzhou e sull'orlo della bancarotta, impegnato in lavori di restauro della sua pizzeria, trova nascosta sotto al pavimento una grossa quantità di lingotti d’oro che lo renderà miliardario, risolvendogli così tutti i problemi economici e proiettandolo verso una vita agiata e tranquilla, magari via dalla Cina. Ma… c’è sempre un ma. Infatti, gli intrighi del destino che gioca con le vite degli uomini, a questo punto trascinano Paco, suo malgrado, in un più grande intrigo internazionale in mezzo a immancabili 007, in questo caso dei servizi cinesi, italiani, americani e israeliani. E il libro diventa un susseguirsi di avventure che travolgono il lettore – in un italiano leggero, semplice e senza pretese – in una lettura tutta d’un fiato, appassionata e avvincente dalla prima all’ultima pagina, così convincendolo che l’autore sia, anche per i suoi trascorsi biografici, un vero esperto del mondo dello spionaggio, tanto informato da mettere nero su bianco aneddoti della sua vita in Cina e in giro per il mondo.

 

AUGÉ E LE MIGRAZIONI COME ESSENZA DELL’UMANITÀ

L’essenza dell’umanità è il movimento. Potrebbe essere questo il sunto del pensiero di Marc Augé (etnologo di fama mondiale ed ex direttore dell’Ecole des hautes études en sciences sociales di Parigi), raccolto nel dialogo-intervista tra lui, Anna Mateu e Domingo Gonzalez e divenuto il libro “Migrazioni” (Castelvecchi, 2018, 48 pagine, 5 euro). Augé, tra i più autorevoli pensatori dell’antropologia contemporanea, le cui opere si basano principalmente sull’analisi antropologica della nostra quotidianità e inventore dei concetti di “nonluogo” e “surmodernità”, inserisce le migrazioni tra le principali caratteristiche della società contemporanea e globalizzata. Nel libro-intervista afferma che se è vera l’ipotesi che la popolazione umana si sia prodotta a partire dall’Africa è chiaro che l’essenza dell’umanità sia il movimento, le migrazioni. Per lui urbanizzazione, globalizzazione, migrazione, “sono nozioni quasi identiche” e il movimento non avviene solo da Sud a Nord. Il mondo tutto è divenuto una immensa città per cui, per molti aspetti, viviamo tutti nella stessa città di un Pianeta che è divenuto via via più omogeneo, per altri le metropoli sono diventate il luogo che riflette tutte le differenze del Pianeta. In questo senso si è creato un doppio movimento di diversità interna e di apparente omogeneità su scala planetaria. In questo complesso discorso affronta dunque i termini e gli equivoci della globalizzazione nelle sue contraddizioni, convinto del fatto che essa non sia un fenomeno neutro. Spiega come la parola global sia spesso utilizzata intendendo universale, mentre i concetti sono molto diversi. Il termine global è fondato sulla differenziazione crescente delle classi sociali e, al contrario, universale corrisponde alla proiezione dell’individuo verso l’uguaglianza di diritti tra esseri umani. Ma oggi non è così, poiché la globalizzazione come la si sta governando (o non governando) genera e accentua diseguaglianze, non solo tra ricchi e poveri, anche “tra coloro che sanno qualcosa e coloro che non sanno nulla”. Non solo tra una nazione e un’altra, ma anche all’interno di ogni nazione. Per cui Augé estende questo concetto e questo discrimine anche alle culture: non vi è una cultura che non crea diseguaglianze o un’altra che le crea, poiché all’interno di ogni cultura vi sono diseguaglianze e, oggi, sono anche crescenti. È per questo che egli crede non nelle nazioni o nelle culture, ma negli individui e nell’Illuminismo, cioè “l’assenza di contraddizioni tra lo sviluppo individuale e quello collettivo. Questi sono i diritti umani che si possono materializzare solo attraverso la difesa dell’individuo, perché in lui si incarna l’uomo in senso generico”. In questo contesto sostiene che non bisogna avere paura delle frontiere, poiché esse non sono una barriera, ma qualcosa che “implica una negoziazione simbolica per passare da un punto a un altro”, un arricchimento, come la frontiera linguistica che crea mutuo arricchimento nell’attraversarla. E in questo impianto culturale, i migranti diventano “gli avventurieri dei tempi moderni, spinti dalla loro situazione”. E da antropologo, poi, mette in risalto, all’interno delle varie migrazioni, la fuga dei cervelli, ma non quella della narrazione nazionale a cui siamo abituati in Italia,  bensì quella africana. Per Augé il Continente nero vive il dislocamento delle élite negli Stati Uniti. Si tratta di un nuovo tipo di migrazione individuale molto dannosa per l’Africa, giacché questi intellettuali non trovano nei loro Paesi i mezzi per esercitare la loro forza e il loro talento”. E aggiunge che questo fenomeno si verifica ormai anche in Spagna e in Francia.

 

“IL FARO IN UNA STANZA”, FESTIVAL DEDICATO A VIRGINIA WOOLF

Scrittrice, saggista, una delle più significative voci del novecento sul pensiero femminile: sono solo alcuni dei motivi che fanno di Virginia Woolf una delle donne più amate del ‘900. Per queste ragioni Raffaella Musicò, proprietaria della libreria monzese Virginia e Co, ha deciso ormai tre anni fa di dar vita a un festival a lei dedicato, organizzato assieme a Elisa Bolchi, ricercatrice presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, e Liliana Rampello, critica letteraria e saggista. Dopo una prima edizione dedicata a presentare l’opera e il pensiero di Virginia Woolf e a una seconda edizione dedicata alle sue traduzioni italiane che ha visto l’aggiunta nel comitato organizzatore di Sara Sullam, ricercatrice alla Statale di Milano, quest’anno il festival apre al circolo di Bloomsbury e agli amici che hanno contribuito a fare di Virginia la grande scrittrice e pensatrice che conosciamo. Il Gruppo di Bloomsbury prende il nome dal quartiere centrale di Londra in cui si trovano il British Museum e vari istituti universitari. Qui, al n.  46 di Gordon Square, si trovava la casa dei fratelli Stephen (Vanessa, Virginia, Adrian e Thoby), dove tra il 1907 e il 1930 si riunì ogni giovedì un gruppo di intellettuali di cui fecero parte gli scrittori E.M. Forster, Lytton Strachey e Leonard Woolf, i critici d’arte Roger Fry e Clive Bell, il pittore Duncan Grant, l’economista J.M. Keynes, il giornalista Desmond MacCarthy e, via via, altri qualificati esponenti della vita culturale del tempo. La terza edizione de Il Faro in una stanza, in programma dal 23 al 25 novembre presso la sala degli Affreschi della Biblioteca Civica di Sesto San Giovanni, si colloca nell’anno del novantesimo anniversario della pubblicazione di Orlando e vedrà un’ospite d’eccezione: la ricercatrice Nino Strachey. Autrice del libro Stanze tutte per sé, edito in Italia da L’Ippocampo, e direttrice del Consiglio per la ricerca del National Trust, Nino Stratchey è discendente diretta della famiglia di Lytton Strachey, tra i fondatori del gruppo di Bloomsbury, biografo e amico di Virginia. Come nelle pagine del suo volume, la Strachey ci guiderà così nella Stanza della Torre Azzurra del castello di Knole, dove un vecchio baule di alluminio custodiva testimonianze intime di vite vissute nel cuore della Bloomsbury letteraria degli anni Venti. Un mondo fatto di estro, dandysmo e ricercata raffinatezza, che vide tra i suoi protagonisti Eddy Sackville-West, Virginia Woolf e Vita Sackville-West, poetessa, scrittrice, straordinaria giardiniera e intima amica di Virginia Woolf nonché ispiratrice di Orlando, il romanzo a lei dedicato e pubblicato nell’ottobre del 1928. Il festival si apre venerdì 23 novembre alle 19 presso la libreria Virginia e Co. di Monza con una lezione spettacolo di Cesare Catà. Il Faro in una stanza è organizzato in collaborazione con la Italian Virginia Woolf Society, la cui presidente Nadia Fusini interverrà nella mattinata di domenica 25 novembre.


IRENE RANALDI RACCONTA LA NASCITA DELLE BORGATE ROMANE

A Roma spesso si perde il senso della lettura dei territori e si ragiona con le sterili categorie di centro e periferia. Con un “centro-boutique” senza più residenti (ormai poco più di 100 mila abitanti nei 22 rioni storici all’interno delle Mura Aureliane), orrende “piadinerie” o “pinserie romane” (perché la pizza fa antico, mentre la pinsa fa urban food) e turisti allo sbando tra la cartolina magnifica del Colosseo e dei Fori e il degrado della mancanza di servizi igienici, di trasporto, di informazioni turistiche appena un po’ più approfondite. E con una “periferia” di cui si sono persi da anni i confini. “Passeggiando nella periferia romana. La nascita delle borgate romane” di Irene Ranaldi rappresenta un’incursione urbana nelle 12 borgate ufficiali romane (il termine borgata è usato per la prima volta nel piano regolatore di Roma del 1935 da Marcello Piacentini che lo ha redatto): San Basilio, Trullo, Tor Marancia, Primavalle, Acilia, Tufello, Prenestino,Tiburtino III, Pietralata, Gordiani, Quarticciolo, Val Melaina. Una guida per chi vuole conoscere l’altra faccia della città e scoprire angoli di Roma pieni di fascino e di storia. Ranaldi è Dottore di ricerca in Teoria e analisi qualitativa presso la facoltà di Sociologia, a La Sapienza di Roma, presidente dell’associazione culturale Ottavo Colle e giornalista. Ha pubblicato numerosi articoli su riviste scientifiche su temi riguardanti la sociologia urbana. Ha partecipato a convegni e workshop nazionali ed internazionali, pubblicato articoli, ideato e curato una serie di eventi e iniziative culturali e di impronta sociale. Autrice nel 2012 per Franco Angeli di Testaccio, da quartiere operaio a village della capitale, e per Aracne nel 2014 di "Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York".

 

 

“L'ARTE DI PERDERE” DI ALICE ZENITER

Alí ha perso tutto. Eppure non ha mai creduto che la Storia potesse riservargli qualcosa di brutto. Non a lui che è sopravvissuto alla battaglia di Montecassino combattendo per la Francia. Non a lui, a cui il cielo ha - letteralmente - donato un torchio e Dio un primogenito bello e sano come Hamid. Ma quando nel 1962 l'Algeria ottiene l'indipendenza, Alí non è piú l'uomo onorato e rispettato del suo piccolo villaggio. Ha dovuto collaborare con gli oppressori francesi: ora nuovi oppressori lo perseguitano in nome di un'altra bandiera. Alí deve lasciare per sempre - ma questo ancora non lo sa - gli uliveti della sua amata montagna in Cabilia. Hamid è ancora piccolo quando perde tutto per la prima volta. O meglio, scambia tutto quello che ha: l'innocenza per lo spettacolo delle torture della guerra civile, la casetta sul crinale per una tenda in un desolante campo d'accoglienza, i suoi fieri genitori per due ombre svuotate da un'anonima banlieue francese. Di quello sradicamento Hamid finisce per farne una religione, condannando il paese della sua infanzia all'oblio e se stesso alla condizione permanente di straniero. Naïma ha perso l'Algeria prima ancora di poterla avere. Perché il padre Hamid non ha mai voluto raccontarle niente, sua nonna non parla la sua lingua, la metà dei suoi zii è nata in Francia, suo nonno Alí è morto da tempo e in fondo va bene cosí. Naïma è francese e pensa di non avere nulla in comune con quel paese sulla riva opposta del Mediterraneo. Fino a quando decide di conoscere meglio la travagliata storia della sua famiglia. Anche se tutti la considerano “un'algerina” - soprattutto negli anni del terrorismo e della xenofobia che infetta l'Europa - Naïma capisce presto che un paese non è un tratto somatico e non si può ereditare. Questa la trama di “L'arte di perdere” di Alice Zeniter, edito da Einaudi. Alice Zeniter è nata nel 1986, ha studiato teatro a Parigi e insegnato francese in Ungheria. Drammaturga e regista, ha rivelato il suo talento letterario precoce pubblicando il primo romanzo a soli sedici anni. L'arte di perdere (Einaudi, 2018) è la sua quarta prova narrativa e ha vinto il Prix Goncourt des Lycéens nel 2017.

 

SIMBOLI DELLA FINE DI FEDERICO VERCELLONE

Di che cosa ci parlano i Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer? Che cosa additano, se non il fallimento di una modernità che ha ormai perduto la sua energia di Età nuova per eccellenza? Edifici solidi e pericolanti ad un tempo, quelle torri sembrano riflettere un’ansia arcaica nel rimandarci l’immagine della nostra epoca, alle prese con la sua forza distruttiva, con il terrore che la dilania e la frustra. La molteplicità di immagini senza misura che oggi popola il mondo produce sconcerto e disorientamento, ma proprio in un tale semi-barbaro proliferare di immagini - sembra dirci Kiefer - possiamo scoprire la traccia di nuove risorse simboliche, o forse addirittura una chance di salvezza. Federico Vercellone analizza queste tematiche nel saggio “Simboli della fine”, edito dal Mulino. Vercellone insegna Estetica nell’Università di Torino. Per il Mulino ha tra l’altro pubblicato «Oltre la bellezza» (2008), «Dopo la morte dell’arte» (2013) e «Il futuro dell’immagine» (2017).

 

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