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CANZONE D'AUTORE, VOCI DAL TENCO 2018

CANZONE D'AUTORE, VOCI DAL TENCO 2018

FRANCESCA INCUDINE, TARGA TENCO IN SALSA SICILIANA

 

Nata in Sicilia, Francesca Incudine ha al proprio attivo due recentissimi album (“Iettavuci” del 2014 e “Tarakè” del 2018); scrive e compone prevalentemente in dialetto siciliano e ha vinto la Targa Tenco 2018 per il miglior Album in dialetto.

 

Francesca, come è cominciata la tua carriera di cantautrice, e come mai hai scelto il dialetto siciliano per le tue canzoni?

 

“Il mio coinvolgimento nel mondo della musica inizia molto presto, all’età di 13 anni, quando suonavo il 'tamburo a cornice' (il tamburello, ndr) in una banda folkloristica del mio paese. Da lì ho cominciato a frequentare corsi di percussione e danze, appassionandomi alla tradizione popolare del Mediterraneo, con la musica salentina, la tammuriata napoletana e poi la musica greca, quella balcanica e più in generale il mondo contaminato della world music. La mia vena di scrittrice e successivamente cantautrice, si avvia per così dire in parallelo e in sordina. Da ragazzina comincio annotando le mie impressioni, i miei ricordi e le mie prime poesiole nel mio diario segreto, poi arrivano le mie prime canzoni che facevo ascoltare a pochi intimi nella mia stanzetta. La scelta del dialetto siciliano è venuta naturalmente. Il siciliano, così come altri dialetti del nostro paese, permette di condensare in poche parole immagini complesse che altrimenti sarebbe difficile rappresentare in italiano. In più, il siciliano è la lingua musicale per eccellenza, affonda le proprie radici negli endecasillabi dei greci ed è stato utilizzato sul campo dai nostri 'cuntisti' palermitani e da altri esponenti della tradizione”.

 

“Tarakè” è una parola che deriva dal greco antico, e che dà il titolo al tuo ultimo disco. Vuoi spiegarci cosa significa per te?

 

“L’amore per la parola è anche amore per la natura. Baudelaire diceva che la natura ci parla attraverso dei segni che dobbiamo decifrare e interpretare. Io mi sono subito innamorata del Tarassaco, fiore simbolico per eccellenza, detto anche Dente di leone o Soffione. Chi non ha soffiato da piccolo su questo fiore per disperderne i semi al vento ed esprimere un desiderio? L’album Tarake’ è appunto dedicato al mio desiderio di farmi ascoltare attraverso la mia parola e la mia musica. La parola Tarake’ (dal greco: scompiglio, turbamento) è la radice della parola Tarassaco (tarake’ - akos: problema e soluzione), e ben sottolinea le proprietà medicamentose di quel fiore, da cui si ricava un potente antinfiammatorio”.

 

Il tuo ultimo album, Tarake’ appunto - è ben registrato e suonato altrettanto bene. È anche un’opera assai più complessa e matura di quella precedente, “Iettavuci”. Ci vuoi raccontare come è nato e cosa hai imparato nel farlo?

 

“Con questo album ho voluto cimentarmi in prima persona in tutti gli aspetti del progetto, non solo quelli legati al canto. La parola è solo uno degli elementi che contribuiscono al racconto. La musica, gli arrangiamenti, gli strumenti utilizzati sono altrettanto fondamentali per definire i contenuti che si vogliono veicolare. Devo molto ai due direttori artistici del progetto, Carmelo Colaianni e Manfredi Tuminello, che mi hanno aiutato a pensare meglio l’abbinamento tra suoni, strumenti e testi. L’album ha sonorità prevalentemente acustiche, con l’impiego di strumenti quali il duduk armeno, la zampogna siciliana, il mandolino e altri strumenti a plettro, che sono stati accostati ai suoni tipicamente pop della chitarra acustica”.

 

Ci dici quali sono le due canzoni del tuo repertorio a cui sei più legata?

 

“Tarake’ è il brano che al momento mi rappresenta di più, è il passaggio da quella che ero a quella che sono e voglio essere. Inoltre ha per me rappresentato una vera e propria sfida, perché in questa canzone il dialetto siciliano è usato in combinazione con la lingua italiana. Un altro brano al quale sono molto legata dal punto di vista sentimentale è ‘Quanto stiddi’, anch’esso contenuto nell’album Tarake’, e in cui racconto di un amore più complesso e maturo di quello del mio primo diario segreto”.

 

Puoi raccontarci su quali progetti stai lavorando attualmente?

 

“Questa estate, su invito del console italiano in Pakistan e in collaborazione con l’orchestra giovanile di Karaci, abbiamo riarrangiato i brani dell’ultimo album con strumenti tradizionali di quel paese. Il risultato di questa esperienza sarà proposto in una serie di concerti che abbiamo in programma di fare all’estero. In più, ho il progetto di lavorare come interprete di canzoni altrui”.

 

Ti aspettavi di vincere una targa Tenco? Cosa significa per te questo premio?

 

“Per me è stata già una grande soddisfazione entrare nella lista ristretta della giuria del Tenco assieme ad autentici pilastri della musica popolare come Otello Profazio. Vincere la targa, poi, è stata un’emozione straordinaria che ha dato senso a tutto il nostro lavoro. Questo riconoscimento è assolutamente uno stimolo a proseguire e far meglio in futuro”. (MC)

 

 

 

AL CLUB TENCO L’ESPERIENZA INTERNAZIONALE DI PIPPO POLLINA

 

Pippo Pollina è un cantautore siciliano, ma anche un autentico mistero vivente. Basta leggere Wikipedia per rendersi conto dello spessore della sua figura. Vive da anni a Zurigo, canta in varie lingue tra cui l' italiano, si esibisce e collabora con artisti e gruppi di fama internazionale, ha al proprio attivo più di venti album, ma è popolare soprattutto all’estero (specialmente in Svizzera e Germania) e non in Italia. In una rassegna dedicata ai “migrantes” della cultura, è tra i pochi che hanno pieno diritto di salire sul palco del Club Tenco.

 

La tua carriera è così ricca e variegata (e il tempo a nostra disposizione così breve) che eviterò domande specifiche. In generale, ti chiederei di parlare brevemente del “filo rosso” che lega la tua produzione musicale. C’è una linea evolutiva nel percorso espressivo da te fatto sin qui? Quali artisti ti hanno maggiormente influenzato a livello compositivo, e in che misura hanno contribuito i musicisti che hanno lavorato nei tuoi album?

 

“Il filo rosso di cui parli altro non è che la mia stessa vita, vissuta giorno dopo giorno ed esperienza dopo esperienza. Tutto quello che viviamo, ascoltiamo e leggiamo ci influenza. Sotto il profilo musicale ho studiato chitarra classica al conservatorio, poi ho intrapreso un percorso legato alla musica popolare, con gli Agricantus in Italia, che però si è combinato con molte altre esperienze, dal rock al jazz e alla musica latino-americana. Metto sempre molta passione in tutto quello che faccio e mi piace variare genere musicale nei brani che compongono i miei album, non sono d’accordo con quei critici musicali che ti vogliono a tutti i costi incasellare in una certa scuola e genere. Io ho tante anime e le amo tutte perché mi appartengono, derivano direttamente da quanto ho vissuto di persona”.

 

E quando è nato il tuo interesse per la musica latino-americana?

 

“Alla fine degli anni settanta ho suonato con gli Inti-illimani e ho iniziato a impratichirmi degli strumenti della tradizione andina e latino-americana. Poi ho studiato lo spagnolo e i principali poeti dell’America latina, e questi elementi hanno finito con l’entrarmi nel sangue. Per me è ormai assolutamente naturale esprimermi anche in spagnolo e comporre brani di sapore latino-americano”.

 

Quanta parte delle tue origini siciliane o italiane ha contribuito a decretare il grande seguito di cui godi in Svizzera e in Germania?

 

“Il segreto non risiede nelle mie origini, da questo punto di vista la storia non sarebbe cambiata se fossi stato marchigiano o ligure. Il segreto consiste nella mia curiosità. Non sono andato all’estero per promuovere quello che facevo, ma piuttosto per imparare cosa facevano gli altri. A mio modo di vedere, la curiosità del prossimo si alimenta mostrando curiosità verso il prossimo. Ho passato molto tempo a imparare la lingua e la letteratura di altri paesi, soprattutto in Svizzera e in Germania, seguendo da vicino la scena e gli artisti locali. È poi arrivato il momento in cui i rapporti si sono per così dire rovesciati: artisti tedeschi, svizzeri, belgi, olandesi e lussemburghesi sono venuti da me chiedendomi chi fossi. E lo stesso è accaduto con il pubblico e la stampa estera. In sintesi, questo non è stato il prodotto di una deliberata strategia promozionale, ma di un lungo lavoro che la mia naturale curiosità verso culture ed espressioni di altri paesi mi ha spinto a fare”.

 

Infine, una domanda sull’Europa. Tu sei via dall’Italia da più di vent’anni, la tua carriera si è svolta principalmente all’estero e in particolare in Europa. Fai, dunque, parte di una generazione che ha beneficiato dell’integrazione economica europea e che dall’Europa ha ottenuto cose che non avrebbe potuto ottenere in Italia. Cosa pensi come artista dell’attuale stato di involuzione politica del progetto europeo?

 

“Io sono un convinto europeista ma sono anche un più convinto assertore dell’Europa delle culture. Questa Europa non mi piace perché negli ultimi decenni si è incentrata sull’obiettivo di allargare il mercato comune prediligendo il tema dell’economia su tutto il resto. Io sono per il primato della politica, non quello dell’economia, la politica ha in sé una declinazione etico-morale importante. L’euro senza unione politica e condivisione delle culture è stato un errore madornale, di per se l’idea dell’euro è condivisibile, ma avrebbe dovuto rappresentare il coronamento di un comune percorso sociale e culturale dei paesi europei. L’Europa ha svolto un ruolo importantissimo nella storia dell’umanità. Ma le nostre radici storiche non sono state considerate quando si è deciso di accelerare il progetto della moneta unica. Paesi con strutture economiche inadatte a competere nell’area dell’euro sono stati inclusi nel progetto allo scopo di allargare il mercato e questo è stato un disastro. Di cui oggi paghiamo le conseguenze”.

 

Quale ruolo possono svolgere gli artisti per aggiustare la situazione? 

“Il ruolo degli artisti è in effetti fondamentale, a loro spetta il compito di stabilire quelle connessioni culturali che avrebbero dovuto appaiare il processo di unificazione monetaria ed economica. L’Arte con la A maiuscola, non quella di puro intrattenimento legata al profitto, deve recuperare la propria centralità. Ma questa speranza va alimentata con fatti concreti, anche la politica dovrà fare la propria parte”. (MC)

 


GIUSEPPE ANASTASI, TARGA TENCO A UN AUTORE DOC

 

Giuseppe Anastasi ha vinto la Targa Tenco 2018 per la migliore Opera Prima (l’album “Canzoni ravvicinate del vecchio tipo”). Anche lui nato in Sicilia come altri artisti presenti sul palco dell’Ariston, da anni insegna metrica musicale al corso per "Autori di testi" al Cet di Mogol. Da anni è autore dei testi delle canzoni che Arisa ha portato al successo.

 

Anzitutto complimenti per il tuo “Canzoni ravvicinate del vecchio tipo”. L’album è splendido e ha meritatamente vinto la Targa. Ho per te alcune domande specifiche e alcune domande generali. Quali artisti ti hanno maggiormente influenzato a livello compositivo e negli arrangiamenti? Qual è il tuo debito nei confronti dei musicisti per i quali e con cui hai lavorato?

 

“I miei principali artisti di riferimento sono tutta la scuola genovese (Tenco De Andre’ e Lauzi) Francesco De Gregori e il cantautorato italiano. Poi sono un amante dei Beatles e dei Queen. I musicisti con cui lavoro sono la mia seconda famiglia. E’ importante che le persone con cui suoni siano tue amiche. E’ importante avere un po’ tutti la stessa visione della vita. L’album è stato arrangiato collettivamente da me, Antonio Lusi, Cristian Pratofiorito, Valter Sacripanti e Massimo Satta. Sono molto contento del lavoro fatto assieme e mi riconosco completamente nel sound del disco”.

 

Nel libro che hai scritto con Alfredo Rapetti Mogol, ‘Scrivere una canzone’ edito da Zanichelli nel 2012, hai sostenuto che la tua canzone ideale debba essere ‘sincera’ e ‘naturale’, e debba essere scevra da filtri o condizionamenti se non quelli legati al controllo logico-formale del testo. Queste indicazioni che date ai vostri studenti del CET bastano per individuare una canzone d’autore, o c’è dell’altro? 

“No ovviamente non basta. C’è la parte metafisica, ossia l’ispirazione, l’avere qualcosa da dire. La cosa che posso consigliare ai miei studenti è di essere curiosi. La curiosità nei confronti della vita è il motore di tutto. Poi, ovviamente, c’è una parte tecnica. Una canzone non dura di più di tre minuti e mezzo, e in questo lasso di tempo così breve non c’è spazio per divagazioni intellettualoidi. È imperativo coinvolgere quanta più gente possibile, io ho scritto sempre per la gente, amo il ‘pop’ perché è del popolo e di conseguenza cerco di essere più chiaro possibile”. 


C’e’ una canzone nel tuo album “Quando passa Maria”, che a mio parere è un piccolo capolavoro perché utilizza un linguaggio e richiama situazioni che si potevano trovare nei primi storici dischi di De Andre’. 

“In effetti quella situazione l’ho vissuta di persona. Io vivo in un piccolo paesino dell’Umbria e stavo prendendo un caffè in piazza quando in lontananza apparve una donna, decisamente notevole dal punto di vista fisico, con un leggiadro abitino colorato, che magnetizzò l’attenzione di tutti, mia e degli altri vecchietti seduti ai tavoli. Fu come se il tempo si fosse fermato. Seguimmo con lo sguardo quella signora fino a che scomparve dietro l’angolo. Nessuno seppe mai come si chiamasse, né si fece rivedere in paese. Nella mia canzone ho voluto rievocare quel momento magico e misterioso”.

 

Un’ultima domanda. In questi giorni sul palco dell’Ariston si sono alternati, oltre a te, altri tre artisti nati in Sicilia o di origini siciliane (Pippo Pollina, Sighanda, e Francesca Incudine) Come lo spieghi? È un caso o voi siciliani avete una marcia in più? E’ forse la naturale musicalità del vostro dialetto che ne agevola l’utilizzo nella scrittura di canzoni? O c’è dell’altro? 

“No, non è solo un punto di musicalità. La Sicilia vanta da sempre una solidissima tradizione letteraria e culturale, con autori del calibro di Sciascia, Quasimodo, Verga, Pirandello, Camilleri, Battiato e tanti altri. La Sicilia è l’isola più grande del Mediterraneo, ed è stata crogiolo di culture diverse che hanno arricchito questa tradizione. In Sicilia c’è il sole, c’è il mare, si mangia bene e la gente è gentile e ospitale. Ma ci sono anche tante contraddizioni e tanti problemi, e tutti questi elementi inevitabilmente si riflettono nella cultura e nello spirito di quella terra. Considera, per esempio, ‘Vitti na crozza’ cantata da Modugno. E’ una canzone assai triste e amara, ma contiene un ritornello allegro e brioso. Tutto questo è un modo scanzonato di rappresentare una tragedia, è la cifra che identifica l’utilizzo del dialetto siciliano in musica”. (MC)

 


L’ARTE DI TOSCA TRA TEATRO E CANZONE

 

Tiziana Tosca Donati, in arte semplicemente Tosca, e chiamata Titti in privato, è stata tra gli artisti che si sono esibiti al Premio Tenco 2018. Basta leggere quanto scritto su di lei in Wikipedia per rendersi conto dell’estrema ricchezza delle sue esperienze artistiche. Inizia il proprio percorso giovanissima con Renzo Arbore, e collabora con i nomi più importanti della canzone italiana (fra cui Renato Zero, Riccardo Cocciante, Lucio Dalla, Ennio Morricone, Ivano Fossati, Chico Buarque e Ron). Con quest’ultimo vince nel 1996 il Festival di Sanremo, e successivamente ottiene la Targa Tenco come migliore interprete. Ha al proprio attivo una decina di album, fra cui il bellissimo “Il suono della voce” edito nel 2014 da Sony Classical. Tra i vari spettacoli della sua carriera teatrale si ricordano: I monologhi della vagina, Romana, Gastone, La strada, Musicanti, Il borghese gentiluomo, Zoom spartito cinematografico, Italiane, Esperanto, ’Sto core mio. Dal 2014 dirige la sezione Canzone dell’Officina delle Arti PierPaolo Pasolini. 

Anzitutto complimenti per la tua voce: è bellissima e molto espressiva. Quali artisti e generi musicali hanno maggiormente influenzato le tue scelte? Penso in particolare all’influsso che la grande Gabriella Ferri ha esercitato su di te nel campo del teatro-canzone . . . 

“Gabriella Ferri è stata la mia fondamentale musa ispiratrice. Se faccio questo mestiere lo devo principalmente a lei. Mio padre era un appassionato di recitazione e mi portava sin da piccina al cinema e a teatro. Già all’età di 6-7 anni conoscevo De Filippo e Carmelo Bene. La Ferri l’ho vista recitare al Teatro 2, un piccolo teatro di Roma dove si faceva anche cabaret. Ricordo che non mi volevano far entrare perché gli spettacoli erano inadatti per una spettatrice così giovane, ma mio padre riuscii e intenerire la maschera e mi tenne in braccio per tutto il tempo. Quella volta fu un amore a prima vista e in seguito continuai ad avere rapporti con lei tramite la mia famiglia. Gabriella era una artista completa che poteva cantare e recitare parti diversissime. Devo a lei la mia immersione con la canzone popolare (incidentalmente, da piccola ho cominciato a cantare prima di parlare). Due anni prima di morire - era malata già da tempo - mi chiese se avevo voglia di recitare e cantare in teatro. Mi segnalò al Bagaglino e Pingitore mi prese per fare una piccola parte in cui cantavo: quello fu un primo piccolo passo, ma per diversi anni fui restia a impegnarmi nella canzone popolare romanesca - un genere che sentivo non appartenere alla mia generazione. Solo più tardi - e direi quasi per caso - mi capitò di ricascare dentro la musica romana, con uno spettacolo scritto da Nicola Piovani. Da lì è partito un processo che mi ha portato ad approfondire la canzone popolare napoletana, quella siciliana, e quelle legate ad altre culture come l’yiddish”.

 

Puoi raccontarci su quali progetti stai lavorando attualmente? 

“Anzitutto sto continuando un lavoro di ricerca su elementi di cultura musicale popolare che rischiano di essere perduti per sempre in assenza di una loro ripresa e valorizzazione. Poi ho appena finito un documentario per Rai Cinema che dà conto di una serie di concerti fatti in giro per il mondo (Brasile, Portogallo, Francia, Tunisia e Algeria) nei quali mi sono incontrata con artisti residenti in quei paesi. Il fulcro del progetto è quello di raccontare l’integrazione e commistione fra mondi diversi attraverso la musica - un tema assai appropriato per il Premio Tenco di quest’anno, che è appunto dedicato ai migrantes culturali”. 

Niente in campo cinematografico? Ti piacerebbe seguire le orme di Monica Vitti e reinterpretare il ruolo della tua omonima nel vecchio film di Gigi Magni?
 

“In effetti mi piacerebbe moltissimo interpretare la Tosca di Magni in versione teatrale, ma aspetto ancora l’occasione giusta. Quel film era molto avanti per i propri tempi ed è tuttora valido”. 

Nelle tue passate esperienze musicali, prevalgono quelle legate a progetti di tipo collettivo, mentre la spazio per una tua carriera da solista sembra rimanere limitato. Ci sai spiegare perché? 

“Io vengo da una cultura prevalentemente teatrale e popolare; credo moltissimo nel gioco di squadra, tra l’altro sono una ex pallavolista che a 15/16 anni se ne andava in giro per il mondo a giocare. Ho sempre creduto al valore della squadra e mi piace avere attorno una squadra quando gioco. Anche grandi interpreti solisti come Fiorella Mannoia hanno nei fatti una squadra, uno staff che li aiuta e li sostiene. Ma c’è chi decide di giocare la partita tutta in campo e c’è chi decide di tirare il rigore. Io amo ragionare in termini di gruppo, pur rimanendone il leader”. (MC)

 

GIUA, QUANDO MUSICA E PITTURA SI DANNO DEL TU


Tra gli artisti che si sono esibiti al Premio Tenco 2018 c’è stata Maria Pierantoni Giua, in arte semplicemente Giua. Cantautrice e chitarrista italiana, Giua ha al proprio attivo tre album: “Giua” (2007); “TrE” (2012), ed “E improvvisamente” (2016) e numerose partecipazioni a festival nazionali e internazionali e collaborazioni teatrali come autrice delle musiche e interprete in scena (Festival dei due mondi di Spoleto, Barnasants Festival di Barcellona, Teatro della Tosse e Teatro Stabile di Genova). Ha collaborato con artisti importanti (Avion Travel, Armando Corsi - di cui è stata allieva -, Riccardo Tesi, Adriana Calcanhotto, Pippo Pollina, Fausto Mesolella, Neri Marcorè per citarne alcuni), e si è fatta notare come raffinata interprete di De André, Bindi, Lauzi, Gaber, De Gregori. Parallelamente al suo percorso musicale, Giua è impegnata nel campo della pittura e della scultura. 

Anzitutto complimenti per i tuoi ultimi due lavori. “TrE” ed “E improvvisamente” sono album molto belli che incidentalmente mi ero comprato su segnalazione di amici e che già avevo avuto modo di apprezzare. Quali artisti e generi musicali ti hanno maggiormente influenzato a livello tecnico e compositivo, e qual è il tuo debito nei confronti dai musicisti con cui hai lavorato? 

“Ho sempre ascoltato musica classica, il rock e il jazz, ma i miei pilastri fondamentali sono stati anzitutto cantautori italiani come Fossati De Andre’ De Gregori e Dalla. Ma anche la musica popolare in genere, prima attraverso mio padre che pur essendo italiano è nato in Venezuela e mi ha trasmesso tutto un bagaglio musicale legato alla tradizione sudamericana e brasiliana in particolare. Tutto questo è poi stato approfondito grazie ai miei studi con Armando Corsi, che tra l’altro mi ha introdotto al fado portoghese. E poi ancora mi sono interessata di tradizione popolare italiana, in particolare quella napoletana, e di altri cantanti popolari come la grande Rosa Balistreri. In sintesi, il mio debito principale è verso la canzone d’autore e verso la musica popolare, la world music direi. Circa i miei debiti con i musicisti con cui ho lavorato, quelli con Armando Corsi sono certamente i più grandi. Armando per me è stato un secondo padre, un amico e un compagno di viaggio. Mi ha svelato l’essenza della struttura di una canzone e i suoi componenti fondamentali come la melodia, l’accompagnamento e la voce. Tutto questo mi ha reso più autonoma dal punto di vista compositivo ed esecutivo. E poi io vivo dell’integrazione e contaminazione con altri musicisti. Adoro la dialettica che si instaura attraverso il rapporto con un musicista che esegue una canzone non sua. Fra questi devo assolutamente ricordare Beppe Quirici, bassista e produttore del mio primo disco, che mi ha l’importanza della sintesi e del rigore. Poi ancora Jaques Morellenbaum e Stefano Cabrera, Fausto Mesolella e tanti altri”.

 

Potresti descrivere in sintesi le differenze tra i tuoi ultimi due album e il percorso espressivo da te fatto sin qui? Ho appreso che in questo periodo stai lavorando a un nuovo album: potresti parlarcene? 

“Il passaggio da ‘TrE’ a ‘E improvvisamente’ è caratterizzato dal ricorso a linguaggi musicali più sofisticati, dalla ricerca di un nuovo blend tra musica popolare e jazz. Con il nuovo album, che uscirà a marzo dell’anno prossimo, ci saranno ulteriori cambiamenti, con il ritorno a miei grandi amori di gioventu’ come i Queen e Joni Mitchell. Il primo disco di Joni, ‘Blue’, è tuttora uno dei miei preferiti. Il mio sarà un disco prevalentemente chitarristico, fatto con molte chitarre e armonizzazioni vocali e altre cose ancora che non ti voglio rivelare oggi. Paolo Silvestri mi ha aiutato negli arrangiamenti, e il disco si avvarrà del contributo del grande violoncellista brasiliano Jaques Morelenbaum”. 

Vi è una interazione tra la tua anima musicale e quella legata alla pittura e alla scultura? 

“Musica e pittura sono due parti che si intersecano, due linguaggi a mio avviso molto simili. Sono due cose che da sempre mi appartengono perché giravano nella mia famiglia. Entrambi i miei genitori sono architetti, e mia sorella ha fatto l’Accademia delle Belle Arti. Io faccio arte astratta e non figurativa, e il colore è un mezzo per tradurre la pittura ritmicamente. Da anni collaboro con l’Archivio di Arte Contemporanea Internazionale di Genova con Tiziana Leopizzi, e in tutte le mie mostre ho sempre cercato anche di 'vestire' lo spazio musicalmente. Tra le due cose c’è totale complementarietà e totale contemporaneità”. 

La tua formazione ha radici nella musica latina e mediterranea, ma è anche contaminata dalla tradizione popolare internazionale dal jazz e dalla "canzone d'autore". Qual è a tuo giudizio il futuro della canzone d’autore in Italia? Cosa pensi in particolare della situazione italiana, c’e’ un problema di scarso interesse da parte del pubblico o una penuria di autori interessanti e quindi capaci di “rimanere” nel tempo? 

“Non sarei pessimista sul lato dell’offerta di proposte. Ci sono ancora molte buone idee che potrebbero essere veicolate e avere spazi che oggi non hanno. Di musica bella oggi ce n’è tantissima, il problema sono i canali attraverso cui veicolarla al pubblico. Internet ha dato un contributo importante in questo senso, ma i canali tradizionali come la televisione la radio e la pubblicità rimangono a mio avviso troppo condizionati da logiche che li ingessano e ostacolano la diffusione di nuove idee e artisti. Dal lato della domanda, esiste sempre una fetta di pubblico più attento al quale gli autori di qualità possono e devono rivolgersi. Ma il linguaggio con cui esprimersi è in continua evoluzione. Oggi non sarebbe possibile riscrivere un grande classico come ‘Sapore di sale’ usando le medesime parole. Sapore di sale è una canzone che ha ‘azzeccato’ un linguaggio che sconfina nel tempo e nello spazio, la sfida è scrivere una cosa altrettanto bella e semplice in un modo che oggi abbia senso”. (MC -  22 ott)

 

 

 

 

 

(© 9Colonne - citare la fonte)