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direttore Paolo Pagliaro

Bellum in terris,
la memoria difficile
della Grande Guerra

Libri
Ogni settimana uno scaffale diverso, ogni settimana sarà come entrare in una libreria virtuale per sfogliare un volume di cui si è sentito parlare o che incuriosisce. Lo "Speciale libri" illustra le novità delle principali case editrici nazionali e degli autori più amati, senza perdere di vista scrittori emergenti e realtà indipendenti. I generi spaziano dai saggi ai romanzi, dalle inchieste giornalistiche, alla storia e alle biografie.

Bellum in terris, <br> la memoria difficile <br> della Grande Guerra

BELLUM IN TERRIS, LA MEMORIA DIFFICILE DELLA GRANDE GUERRA

"Pacem in terris" è la famosa enciclica di Papa Giovanni XXIII del 1963, invito al dialogo in un mondo dominato dalle tensioni della guerra fredda. "Bellum in terris" ("Mandare, andare, essere in guerra" il sottotitolo, a cura di Roberto Iannantuono, pubblicato dalla casa editrice Salerno) è invece il libro di Mario Isnenghi dedicato al centenario del primo conflitto mondiale, che raccoglie in forma scritta un ciclo organico di tredici incontri fatti dal grande storico veneziano con il pubblico dal 2014 al 2018, dopo quelli del 2011 che avevano dato alla luce "Dieci lezioni sull'Italia contemporanea" (Donzelli) in occasione del 150esimo anniversario dell'Italia unita. A un anno di distanza dalle lunghe celebrazioni dell'evento che ha dato il la al "secolo breve", questo libro rappresenta un’importante occasione per tirare le somme e stilare un bilancio.   

 

IL TITOLO. Isnenghi - da buon veneto - è uno storico schietto e diretto, aperto alla divulgazione ma non incline alle mode della storiografia che a volte mirano troppo a compiacere il pubblico, "tradendo" il passato per conformarsi alle sensibilità del presente. Tra l'altro, l'autore di “Bellum in terris” è uno storico ben vaccinato contro questi rischi, essendo oltre che tra i massimi esperti della Grande Guerra e del Risorgimento anche il più grande storico della memoria collettiva in Italia, consapevole che raccontare un evento storico significa anche fare un "racconto del racconto". Isnenghi, in merito alla scelta del titolo, precisa di non avere "intenti dissacranti rispetto alla famosa enciclica dedicata alla pace: la Pacem in terris è in sottofondo come il contraltare di questo Bellum in terris. Bellum in terris è la guerra, è la realtà. La pace è il dover esser, è l’auspicio, il sogno, il desiderio, il valore, quel che si vorrebbe essere, ma, molto spesso, non è l’essere. Uno storico della guerra deve occuparsi dell’essere, cioè della guerra. C’è stata, allora ragioniamone. Senza escludere di pensare al 'dover essere'". Non è semplice ragionare sui perché di un conflitto oggi che "gli spiriti sono dominati dai valori della pace. Momenti e fini di quella guerra di cento anni fa paiono a quasi tutti affatto remoti, incomprensibili, persino indicibili". "L'imbarazzo - sottolinea Isnenghi - sembra quello di non apparire retorici e quindi di non parlare mai della vittoria. Non si può quasi pronunziare questa parola e ogni 4 novembre si inventano formule sul perché è festa quel giorno. Non è mai la ricorrenza della più grande vittoria militare che l’Italia come Stato abbia raggiunto. Non ce n’è stata un’altra minimamente paragonabile" è la riflessione di Isnenghi.

 

L’ANNIVERSARIO. Un anniversario, se non viene ridotto a mera formalità ma viene preso sul serio, implica come in una seduta di psicoterapia collettiva il dover fare i conti con se stessi fino in fondo, esplorare le profondità del passato per capire di più del proprio presente e magari liberare energia operativa per il futuro. Operazione non facile, in un Paese che stenta a trovare nella propria storia forti elementi identitari. "Occhi loro, occhi nostri? - si chiede Isnenghi in un gioco di specchi tra passato e presente - Ma non ci fu e non c’è unità e tanto meno unanimità degli sguardi, né sull’intervento, né sulla conduzione della guerra, né su Caporetto, e neppure su Vittorio Veneto. Cosa pensare di Cadorna? Perché i neutralisti, ostili alla guerra, che in Italia sono più numerosi, perdono nonostante questo lo scontro politico con quelli che la vogliono, prima nelle piazze e nella stampa, e da ultimo anche in Parlamento? E questi, perché la vogliono, per liberare Trento e Trieste, per occupare Bolzano e la Dalmazia? Una virtuosa quarta guerra di indipendenza in un contesto di libertà europee – alla Salvemini e Battisti – ovvero imperialismo adriatico – alla D’Annunzio e Sonnino? Oppure – temi di giornata, imposti oggi dalle propensioni pacifiste e dal paradigma vittimario, che urge da fuori – come mettere a fuoco, non il senso, ma il non-senso della guerra, con gli attori in fuga, folli, automutilati, prigionieri, disertori?". È complicato gestire un anniversario, ammette Isnenghi, in particolare questo oggetto del libro: "Nel 2011 era quello dell’Unità d’Italia: c’era qualche detrattore, neoborbonico, municipalista, clerico-intransigente, antiunitario, ma quello era un riferimento d’insieme più accettabile dopotutto di una guerra, che invece noi qui dobbiamo gestire. Con tutti i rifiuti, le obiezioni etiche spontanee, pensando quanti milioni di morti, mutilati, ciechi, rovinati per la vita, vedove e orfani. Sono questi i grandi temi in auge negli ultimi venti o trent’anni, sembra ormai impossibile lavorare per lo storico e specie per chi storico non è, sui loro valori, le loro cause, i loro fini, e allora si trovano terreni più accettabili come gli itinerari ai luoghi delle memorie, una cosa che va molto, piace a pro-loco e assessorati. Caduti appunto i moventi e i fini di allora, e resa così più difficile la storia politica della prima guerra mondiale, ci si rifugia o nella storia fra i luoghi della memoria o nella storia dei sentimenti, delle emozioni, delle donne, le donne rimaste a casa senza uomini, operaie, tramviere, postine, il lavoro femminile, tutte realtà connesse alla prima guerra mondiale, dove la storia delle donne incontra i temi della privazione, dell’essere orfani, dell’essere vedove, dell’essere privati di: il caduto è stato tolto alla madre o alla moglie. Storia sociale interessantissima ma ogni volta è qualcosa che non è più il centro del fenomeno guerra, perché il centro sfugge e non ce ne si vuole occupare".

IL COMPITO DELLO STORICO. Nella memoria collettiva c'è stata la stagione del primo dopoguerra, della "vittoria mutilata" e dell'esperienza fiumana, che ha portato all'avvento del fascismo; la stagione dello Stato fascista che racconta come una guerra vittoriosa e giusta abbia messo in azione l'Italia come grande potenza; caduto il fascismo e messa da parte la motivazione della volontà di potenza, fino alla seconda metà degli anni ’60 riaffiorano Trento e Trieste come obiettivi di una guerra legittima mentre di Bolzano che si è presa non si parla, perché alla memoria si antepone l’oblio. E poi la nuova stagione tutt'ora in corso, con una nuova storiografia - che vede tra i protagonisti lo stesso Isnenghi - che pone nuovi problemi e interrogativi. Una storiografia che secondo l'autore ha un compito ben preciso, tra i meccanismi deformanti della memoria e gli abusi delle politiche della memoria, non limitandosi a raccontare - secondo "un abbastanza diffuso atteggiamento dimissionario" - ma spiegando: "Politiche della memoria? No. Educazione civica? No, storia ha da essere. Non è così semplice, non si può trattare la storia, in questo caso si tratta di storiografia, senza un approccio ai fatti realmente avvenuti, a quei sentimenti, a quelle idee. Io vorrei condurvi a rivivere per un attimo quel che vivevano loro, pensavano, credo sia questo l’atteggiamento dello storico, non il negare quel che facevano e pensavano: vi siete sbagliati, in realtà dovevate far pace. Molti di loro lo sapevano già, però non ci sono riusciti". E solo capendo il perché, non raccontandosi solo ciò che attualmente si vuol sentire, si può (forse) tentare di non sbagliare di nuovo. "Dopo trent’anni a occuparsi di monumenti funebri, mutilati, vedove e orfani - spiega l'autore non senza una stilettata polemica verso alcuni suoi colleghi - ne sappiamo abbastanza per tornare a una visione complessiva di cui certo fanno parte la tragedia e i morti. È una guerra, sanguinosa e devastante, ma quelli che allora erano vivi e quel che sentivano e facevano non può restare fuori quadro". (Roc – 9 dic)





CHIAVINI RACCONTA LA GUERRA DELLE DUE ROSE  

La guerra civile che ha insanguinato l’Inghilterra nella seconda metà del XV secolo è una delle principali fonti utilizzate da George R.R. Martin per le sue Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, per l’incredibile successo televisivo del Trono di Spade. Ma come si svolse il vero conflitto? È stata realmente la punizione divina per l’usurpazione di Enrico IV Bolingbroke ai danni del legittimo Riccardo II come la propaganda Tudor ha cercato di tramandare? Oppure è stato il frutto malato della deriva morale che travolse la nobiltà inglese alla fine del Medioevo, come ricostruito dalla storiografia vittoriana? Per rispondere a questi quesiti arriva in libreria per Odoya “La guerra delle due rose. La nascita dell’Inghilterra moderna” di Roberto Chiavini. Molteplici personalità presero parte al conflitto: re e regine, usurpatori e consiglieri malfidi, vittime innocenti e sovrani impazziti. Uno spazio particolare è riservato nel libro alle molte protagoniste femminili di quei decenni. L’autore si sofferma  anche sulle battaglie che infiammarono il paese, le rotte e le ritirate, tradimenti e colpi di scena, molti dei quali ripresi dallo stesso Martin, mettendo in luce come la sua fonte principale sia stata non tanto la storia di per sé, ma la sua reinterpretazione a opera di Shakespeare, il primo a riunire sotto un unico arco narrativo l’intera sequenza di conflitti dinastici che insanguinò l’Inghilterra fra la deposizione di Riccardo II nel 1399 e la salita al trono di Enrico VII Tudor all’indomani della vittoria di Bosworth nel 1485. Accanto alla storia illustreremo come i fatti siano stati riletti dalla letteratura (a partire da Walter Scott, che a quella guerra civile assegnò il nome con cui è stata poi per sempre identificata), dal cinema, dalla televisione e dagli altri media contemporanei. Chiavini, laureato in lettere classiche e dottore di ricerca in storia antica, si occupa di cinema, letteratura fantastica, giochi e insegnamento. Vincitore per cinque volte del Premio Italia per la fantascienza (anche per il saggio Odoya Guida alla letteratura horror, scritto insieme a Walter Catalano, Gian Filippo Pizzo e Michele Tetro), con Odoya ha pubblicato anche Guida al cinema di fantascienza (con Pizzo e Tetro), Guida al cinema horror (con Catalano, Pizzo e Tetro) e, a sua sola firma, La guerra di Secessione. Storie, battaglie e protagonisti della guerra civile americana e Guida al gioco da tavolo moderno.

 

 

I “CONTAGIATI” SECONDO ANDREA MAURI

La quarantena è il periodo di segregazione cui è sottoposto il contagiato, il diverso, una fase probatoria necessaria a smascherare la malattia, un luogo di isolamento in cui la salute è sospetta, spiata da dietro un vetro di diffidenza. Fino al momento della diagnosi, la condanna alla solitudine forzata è preventiva, perché la salute degli uomini è troppo precaria per rischiare, e l’untore va isolato. Il virus fa tanto più paura quanto più viene da lontano, perché le vie sconosciute percorse dal diverso non possono che essere strade pericolose, terre infette. Così, lo spauracchio del contagio separa mariti da mogli, genitori contagiosi da figli deludenti; i seni nutrienti delle madri divengono ricettacolo di batteri, il latte un veleno trasmesso con l’inganno della vita. Perfino l’amore diventa un sospetto episodio virale, quando l’inverno lo spoglia dei suoi fiori e ne rivela i frutti guasti. In dodici storie tormentate e visionarie, di cui alcune apparentemente improbabili ma realisticamente percepite, Andrea Mauri in “Contagiati” (Ensemble) ci racconta la sua ossessione per la malattia e il disagio del vivere moderno, descrivendo magistralmente quello sconvolgimento causato dal contagio che tocca amori, amicizia, famiglia e proponendoci la scrittura come unica terapia efficace contro le infezioni della vita, siano esse fisiche o psicologiche. Una raccolta di brevi, intensi, racconti orizzontali, in cui il registro narrativo si pregia di un pathos via via crescente, che consacra l’autore tra le più interessanti penne del panorama della scrittura contemporanea. Andrea Mauri è nato e vive a Roma. Dal 1995 lavora come redattore Rai nelle produzioni di Raiuno, Raitre e Rai Educational. Ha pubblicato Mickeymouse03 (2016), L’ebreo venuto dalla nebbia (2017), Due secondi di troppo (2018). Scrive racconti sulla rivista letteraria “Carie” e sui blog “Svolgimento”, “Words Social Forum” e “Squadernauti”. Da inedita, la raccolta di racconti Contagiati si è già guadagnata il primo posto al Premio Letterario Nazionale Autori Italiani 2017, una menzione di merito al Premio Gustavo Pece 2017, ed è stata finalista al Premio Quasimodo 2017.

 

 

“EXITUS” DI SALVATORE ENRICO ANSELMI

In “Exitus” – romanzo di Salvatore Enrico Anselmi edito da GBEditoriA - la repentina svolta degli eventi, la via d’uscita, la virata che segna la vicenda dei protagonisti, costringe il lettore a seguire il tenace filo di continuità, ora sotteso, ora macroscopico e dirompente. I capitoli – La stagione agra, Bovary, Sebastien prima di Valmont – costituiscono una trilogia, raccontano tre storie autonome, tuttavia strettamente connesse le une alle altre dalla struttura di riferimento e dall’articolata architettura di sostegno. Questa si avvale di continui rimandi, di corrispondenze, di richiami. La narrazione diretta e contemporanea, secondo la contemporaneità cronologica del racconto, si mescola e si fonde con la narrazione indiretta, interna ed evocata quasi come se Exitus fosse un romanzo costruito come una storia di storie. La svolta felice o drammatica, la rinuncia alla vita, l’innamoramento, il rovello della creazione artistica, il voler conoscere se stessi e dare alla propria esistenza un assetto definitivo, dopo lungo vagabondare, sono alcuni dei temi centrali. Il ritmo serrato e, allo stesso tempo che rispecchia un atteggiamento introspettivo, attraversa un ampio lasso di tempo, dal Settecento, periodo nel quale si svolge il terzo e conclusivo capitolo, fino all’inizio del XXI secolo. La scansione diacronica, pertanto, è frazionata e volutamente discontinua. Lo stile persegue in forma costante l’intento della bella scrittura; è duttile, versatile, coniugato con l’intento di rispondere al contesto di civiltà al quale si riferisce. La svolta si compie attraverso virate repentine e inattese che coinvolgono il protagonisti. Anselmi è storico e critico d’arte, autore di monografie dedicate alla storia della pittura italiana in età moderna, alla committenze nobiliari, in particolar modo dei Farnese, alla diffusione del linguaggio gesuita e pozziano in Tuscia, alle vicende di committenza giubilare in età rinascimentale a Viterbo. Suoi contributi sono apparsi in atti di convegno e riviste specialistiche (“Bollettino d’Arte”, “Storia dell’arte”, “Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’arte”, “Studi Romani”). Alle attività di docenza e ricerca affianca la scrittura, con particolare dedizione per la narrativa d’introspezione. Alcuni dei suoi racconti e testi poetici sono pubblicati in “Rapsodia. A magazine of art and literature”, e “Critica Impura. Letteratura. Filosofia, arte e critica globale”. Cura inoltre la rubrica Marginalia - cascami d’arte e letteratura per “Yawp: giornale di letterature e filosofie”. Pubblica racconti e poesie sul suo sito: enricoanselmivt.wixsite.com/mysite.

 

 

 

STORIA DEL MONDO DALL'ANNO 1000 AI GIORNI NOSTRI

Tutte le storie, è stato scritto, sono storie del mondo. Eppure di questo mondo noi conosciamo solo una piccola parte. Il nostro sguardo si è sempre concentrato a osservare il continente che abitiamo, l’Europa, o al più il nostro mare, il Mediterraneo. Proviamo allora ad ascoltare altri racconti per scoprire finalmente la parte che noi recitiamo su quel palcoscenico assai più vasto che è la vicenda millenaria degli uomini e delle donne. In “Storia del mondo. Dall'anno 1000 ai giorni nostri” (Laterza) Francesca Canale Cama, Amedeo Feniello, Luigi Mascilli Migliorini. Mille anni di storia del mondo in poco più di mille pagine. Del mondo da quando si pensava fosse al centro dell’universo a oggi che ci appare un puntino blu perso nell’infinità del cosmo. Un mondo che già mille anni fa era interconnesso e globale. A renderlo tale gli uomini che lo percorrevano in tutta la sua estensione: i mercanti arabi che si spingevano fino alle coste della Spagna o ai confini dell’India, o quelli veneziani, come Marco Polo, che in Cina ci arrivarono attraverso la Via della seta e che consentirono all’Europa di conoscere la straordinaria realtà di un impero sapiente e organizzato posto all’altro capo del pianeta. E allora, oggi più che mai, è necessario restituire dignità alla storia delle civiltà e dei popoli che hanno abitato questo pianeta e che forse, troppo a lungo, abbiamo relegato ai margini. Non si tratta solo di far conoscere le storie dimenticate degli imperi africani e asiatici, delle cui epopee secolari pure sappiamo pochissimo, ma di mostrare i fili e i legami nascosti che uniscono la storia degli uomini sulla terra. Il racconto di migrazioni, conquiste, scoperte scientifiche porta alla luce proprio questa costante interconnessione che ci appare erroneamente come la grande novità del solo nostro tempo. Un’opera innovativa, che prova a superare le storie tradizionali, fatte solo di Stati, di confini, di guerre. Una storia del mondo che è oggi probabilmente l’unica storia possibile.

 

  

PALERMO NELL’ETA’ DEI FLORIO  

Sul finire del XVIII secolo una famiglia di commercianti calabresi si insedia a Palermo aprendo una modesta drogheria. Trascorsi alcuni decenni, diventa nel frattempo la protagonista assoluta della vita economica siciliana, costituisce insieme alla sua dirimpettaia genovese, la famiglia Rubattino, la più grande società di navigazione del Paese. Agli inizi del ‘900 il mito dei Florio raggiunge il suo culmine. L’architetto Basile progetta le loro sontuose dimore, il famoso mobilificio Ducrot arreda le loro navi. Grazie ai Florio Palermo diviene una delle capitali del Liberty: ma più ancora di uno stile di vita. Imparentati con i più bei nomi dell'aristocrazia siciliana, i pronipoti dei droghieri calabresi ricevono a casa re Vittorio Emanuele, il Kaiser, il fior fiore del Gotha internazionale, sono amici di D’Annunzio, Boldini, Leoncavallo, Enrico Caruso, di Robert Montesquiou, testimone immancabile nel tramonto della Belle Époque. È un “tramonto dorato” che vede dissolversi in breve tempo anche le fortune dei Florio: non solo, come vorrebbe una diffusa opinione, per la prodigalità e le minori capacità imprenditoriali degli ultimi discendenti della dinastia, ma soprattutto, se così si può dire, per una “colpa geografica”. L’Italia si avvia a divenire un paese industriale, che non può avere due opposti poli di sviluppo. Così finisce l'età dei Florio, mentre alla Sicilia resta la speranza di un futuro post-industriale. La loro storia è raccontata nel libro di Romualdo Giuffrida e Rosario Lentini “L'età dei Florio”, con introduzione di Leonardo Sciascia, ripubblicato da Sellerio. Giuffrida (1919 - 2008) storico e docente universitario, è stato tra i massimi studiosi della Sicilia dell'Ottocento. Soprintendente onorario all'Archivio Centrale dello Stato. Docente in Storia economica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Palermo. I suoi studi più impegnativi hanno per oggetto la storia economica e finanziaria della Sicilia. Ha collaborato alla Revue Internationale d'histoire de la Banque, alla Rivista Storica Italiana ed alla rivista Economia e Storia. Segretario e poi presidente dell' Accademia di scienze, lettere e arti di Palermo, è stato medaglia d' oro dei benemeriti della cultura. Lentini (1952),  laureato in Scienze Politiche all'Università di Firenze, ha proseguito gli studi in storia economica dedicando la sua attenzione allo sviluppo della borghesia imprenditoriale in Sicilia, con particolare riguardo ai negozianti-banchieri italiani e stranieri.

 

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