Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

La solitudine del critico
nell’era dei social

Libri
Ogni settimana uno scaffale diverso, ogni settimana sarà come entrare in una libreria virtuale per sfogliare un volume di cui si è sentito parlare o che incuriosisce. Lo "Speciale libri" illustra le novità delle principali case editrici nazionali e degli autori più amati, senza perdere di vista scrittori emergenti e realtà indipendenti. I generi spaziano dai saggi ai romanzi, dalle inchieste giornalistiche, alla storia e alle biografie.

La solitudine del critico <Br> nell’era dei social

LA SOLITUDINE DEL CRITICO NELL’ERA DEI SOCIAL MEDIA

La critica si trova in una condizione critica: no, non è un gioco di parole ma è la sintesi dello stato di attuale marginalità in cui versa la critica letteraria, in un'epoca dominata dall'"angoscia della quantità", nella quale "l’ipertrofia della comunicazione e dell’universo culturale mette in difficoltà ogni tipo di critica, scalza ogni pretesa di controllare il panorama, di interpretarlo e di giudicarlo, secondo quella che è stata l’aspirazione che nei secoli ha guidato le più diverse forme di conoscenza e di coscienza critica: e questo vale anche per l’ambito più parziale della critica letteraria". Per fare il punto della situazione arriva in libreria un saggio dello storico della letteratura, critico letterario e scrittore Giulio Ferroni, pubblicato dalla casa editrice Salerno. “La solitudine del critico. Leggere, riflettere, resistere” mette a fuoco problemi e prospettive della critica letteraria, che deve inevitabilmente constatare la sua "perdita di prestigio: sempre minore lo spazio che le tocca nei media, sempre più debole la sua capacità di agire sui nodi capitali della cultura contemporanea e sulle scelte del mercato editoriale, a meno che non si ponga come sua subalterna fiancheggiatrice". C’è stato un tempo, quando l’autore si affacciava sul mondo della letteratura, in cui la critica si nutriva di teoria (prima che si arrivasse a quello che Ferroni definisce il “cimitero delle teorie”) in cui “la stessa letteratura che si veniva facendo era sostenuta da complesse riflessioni di poetica, alimentate in molti casi da un diretto esercizio della critica”. Non è un caso che molti dei maggiori scrittori del secondo Novecento (da Montale a Zanzotto, da Pasolini a Sciascia) siano stati anche dei grandi critici. Le cose cambiano a partire dagli anni settanta, “con un addensarsi di successive e contrastanti contraddizioni, di derive esterne e interne, in un lungo percorso che va dalla politicizzazione postsessantottesca all’attuale dominio dei social media”. “Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?” è titolo del libro con cui Cesare Segre lanciava il suo grido d’allarme nel 1993, emblematico come il titolo del successivo pamphlet di Mario Lavagetto, “Eutanasia della critica” (2005). Sia Segre che Lavagetto “tentavano di rispondere alla crisi ribadendo la continuità del proprio impegno critico, come adattando alla nuova situazione le prospettive che sostenevano le loro concezioni della letteratura”, ma “le loro diagnosi – sottolinea Ferroni - pur non trascurando i nuovi dati proposti dall’informatica, non ne consideravano gli effetti sempre più radicali, impostisi attraverso i primi decenni del nuovo millennio, specie con l’avvento dei social media, complicato dalla parallela crisi economica e politica”. Un mestiere in crisi, quello del critico, come lo è anche ad esempio quello del giornalista nell’età della disintermediazione. Come può uscire la critica da questa situazione di stallo? Secondo l’autore ripartendo da se stessa, dalla sua intima natura: “… la critica ha sempre nutrito crisi nel suo seno: in quanto critica, viene costitutivamente a trovarsi in crisi, a interrogare se stessa, a dislocarsi da se stessa, a dubitare dei propri fondamenti e di ogni fondamento considerato indiscutibile. Proprio partendo dal proprio essere in crisi, dall’assedio di questa crisi, può far leva su questa originaria disposizione a mettersi in crisi. I veri critici non sono stati mai quelli che si sono limitati a creare tassonomie, a proporsi come custodi di una presunta ‘verità’ della letteratura, con pretese di scientificità o di oggettività oracolare, esibendo le proprie scelte come assolute e incontrovertibili: la critica autentica non può non diffidare di se stessa, della propria sufficienza”.

 

ANGELA BORGHESI SFOGLIA LA CAMELIA

Vi può stupire con corolle sontuose ed eccentriche o dalla complessa perfezione geometrica, monocrome o dalle screziature più bizzarre. Ma può incantarvi con un semplice e fragrante giro di petali. La camelia conta infatti più di 22.000 varietà. Novità travolgente nei giardini dell’Ottocento, divenne il fiore del Risorgimento nazionale, un’icona di stile che decretò fortune letterarie e musicali. Ma prima dei fiori – bellissimi – in Europa sono arrivate le foglie. Quanti sanno infatti che la pianta del tè è una camelia? Davanti a una tazza di tè quanti di noi sanno che in infusione mettiamo per lo più i giovani germogli essiccati e variamente trattati di una pianta chiamata da Linneo Camellia sinensis (L.) O. Kuntze? A queste domande risponde  Angela Borghesi ne “La camelia” (Laterza). Le foglie della camelia hanno conquistato il mondo, ne hanno rivoluzionato aspetti culturali, sociali ed economici, intorno a esse si sono canonizzati riti e millenarie cerimonie. E fu proprio cercando di possedere la pianta del tè che gli europei scoprirono altre specie di camelia. Ecco perché la vicenda della diffusione del tè si incrocia con quella della diffusione dei semi e delle piante di alcune tra le molte varietà di camelia. La storia del viaggio di questa pianta è affascinante e, in parte, ancora avvolta nelle nebbie. Asiatica nell’origine, in Europa e in Italia diviene, soprattutto, storia di ville e giardini, di passioni aristocratiche, esclusive, per un fiore dalle forme e dai colori così diversi, talora persino sul medesimo esemplare, da soddisfare i capricci estetici sia di chi l’ama per le corolle dalla perfezione geometrica sia di chi le predilige bizzarre e vezzose.  

 

 

EGIDIO IVETIC RACCONTA LA STORIA DELL'ADRIATICO

Un mare chiuso, un mare di passaggio, una frontiera tra Oriente e Occidente; un mare che ad un tempo unisce e divide; nell’Adriatico si sono intrecciate e sovrapposte molteplici vicende di natura politica, culturale, religiosa, nazionale. Anche i mari hanno una storia, come ci ha insegnato Braudel con il suo grande Mediterraneo. Egidio Ivetic in “Storia dell'Adriatico. Un mare e la sua civiltà” (Il Mulino) ci racconta la storia di questo mare dall’antichità a oggi: storia dei popoli che vi si sono affacciati, che da sponda a sponda hanno commerciato e navigato, hanno imposto il loro dominio, come Bisanzio e poi Venezia e gli Ottomani; e volta a volta hanno convissuto o si sono scontrati, come l’Impero asburgico e l’Italia, il mondo occidentale e il mondo comunista, i paesi generati dalla ex Jugoslavia. Una storia millenaria di rotte e traffici, guerre e convivenze, che compone il ritratto di una civiltà che si è fatta sul mare, grazie al mare. Egidio Ivetic insegna Storia moderna e Storia del Mediterraneo nell’Università di Padova. Tra i suoi libri: “Jugoslavia sognata. Lo jugoslavismo delle origini” (Angeli, 2012), “Un confine nel Mediterraneo. L’Adriatico orientale tra Italia e Slavia” (Viella, 2014), “I Balcani dopo i Balcani” (Salerno, 2015) e, per il Mulino, “Le guerre balcaniche” (nuova ed. 2016).

 

 

 

IL PROFESSORE E LA CANTANTE, LA STORIA D’AMORE DI ALESSANDRO VOLTA   

Nel 1789 Alessandro Volta ha quarantaquattro anni, occupa la cattedra di Fisica sperimentale all’Università di Pavia – allora uno dei principali poli scientifici d’Europa – ed è tra gli scapoli più ambiti della nobiltà lombarda. Figlio cadetto di un’ottima famiglia, non solo è famoso in tutto il mondo per i suoi studi sull’elettricità, ma è bello, spiritoso, elegante nonché un tombeur de femmes senza alcuna propensione ai legami. Tutto cambia quando nella primavera di quell’anno conosce una giovane cantante lirica, Marianna Paris: Alessandro se ne innamora perdutamente e da quel momento lei diventa la sua ragione di vita. È una passione ricambiata ma difficile da regolarizzare: la mentalità bigotta dell’epoca non consente che un professore di un ateneo così prestigioso sposi una donna di un ceto popolare dalla professione così sconveniente. Un’intera società si schiera contro di loro: la famiglia Volta, l’ambiente accademico e il governo di Milano. Alessandro ingaggia una lotta disperata che durerà tre anni, giungendo a supplicare persino l’imperatore Leopoldo II d’Austria. Con questa storia vera scritta sulla base di una rigorosa documentazione – tra cui gli appassionati epistolari di Alessandro – Paolo Mazzarello in “Il professore e la cantante. La grande storia d’amore di Alessandro Volta” (in arrivo per Bompiani) non solo ci mostra il lato umano e inesplorato di un genio destinato con le sue scoperte a cambiare il mondo, ma ricostruisce lo spirito di un’epoca straordinaria percorsa dai venti dell’Illuminismo, del progresso scientifico e della Rivoluzione francese. Mazzarello insegna Storia della medicina all’Università di Pavia. Per Bompiani ha pubblicato "Quattro ore nelle tenebre" (2016), "L’elefante di Napoleone. Un animale che voleva essere libero" (2017) e "L’inferno sulla vetta" (2019).

 

 

 

 

 

 

 CLAUDIO LAGOMARSINI, AI SOPRAVVISSUTI SPAREREMO ANCORA

Una “tragedia della porta accanto” dai toni alti e trasfigurati. Il ritratto lucido e impietoso di un mondo al tramonto visto con gli occhi di un ragazzo, impotente di fronte alla realtà in cui si trova a vivere. Tutto questo è “Ai sopravvissuti spareremo ancora” di Claudio Lagomarsini, in arrivo per Fazi editore. Un giovane è costretto a tornare nel paese d’origine per vendere la casa di famiglia: è un ritorno doloroso così come lo è il ritrovamento di cinque quaderni scritti molti anni prima dal fratello maggiore Marcello. Leggendoli per la prima volta, il ragazzo, ormai uomo, ripensa all’estate del 2002 quando i due fratelli vivevano ancora insieme, con la madre e il compagno della donna, soprannominato Wayne. La loro casa era stretta tra quella della nonna materna e quella di un uomo, soprannominato il Tordo. Nei quaderni, Marcello racconta molte cose di quell’estate: le cene all’aperto, le discussioni furibonde tra il Tordo e Wayne, la relazione amorosa tra la nonna e il Tordo, il rapporto conflittuale tra la madre e la nonna. Fra i vari episodi riportati nel diario, uno in particolare sarà quello che scatenerà la serie di eventi che porteranno all’inaspettato e drammatico epilogo. Con uno stile perfettamente calibrato e una lingua che mescola tratti eleganti a termini più colloquiali, Lagomarsini riesce a svelare il crepuscolo di un mondo patriarcale, sessista e arretrato, fotografando dall’interno una società destinata a sparire, eppure ancora così rappresentativa del nostro paese. Tra cene in cortile, litigi per un orto e comportamenti retrogradi, Ai sopravvissuti spareremo ancora racconta la quotidianità di un ambiente provinciale piccolo e meschino e l’angoscia di chi con questa quotidianità non riesce più ad avere a che fare. L’attaccamento ai confini della proprietà privata e l’atmosfera oppressiva del nucleo abitato al centro della storia sono il cuore di questo notevole romanzo d’esordio che affronta il dramma di un ragazzo che, pur dotato di un’acuta sensibilità, nulla potrà contro la grettezza e la distanza della famiglia che gli è toccata in sorte. L’autore è ricercatore di Filologia romanza all’Università di Siena. Oltre a diverse pubblicazioni accademiche, suoi articoli di approfondimento sono usciti per “Il Post”, “minima&moralia”, “Le parole e le cose”. Come narratore, ha pubblicato diversi racconti per “Nuovi Argomenti”, “Colla” e “retabloid”, vincendo un contest organizzato dal Premio Calvino nel 2019. Questo è il suo primo romanzo.

 

 

 

(© 9Colonne - citare la fonte)