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Le “Anite” italiane del 1849, patriote contro il Papa re

Ritratti
Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all'Unità d'Italia. Donne protagoniste nell'economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell'attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

Le “Anite” italiane del 1849, patriote contro il Papa re

13 giugno 1849. Ore 18. Un giovane bersagliere scava un fossato sotto un inferno di ferro e fuoco. Sembra non sentire neanche il rombo dei cannoni che sputano incessanti i loro proiettili. E che, cadendo, sollevano turbini di terra e detriti. Con la terra scavata dal ragazzo - e da decine di altri che gli brulicano intorno con sacchi, carretti e pale - bisogna rapidamente tamponare la prima breccia che l’artiglieria francese ha aperto al mattino nella porta di San Pancrazio che, da dieci giorni, resiste al furioso assalto del generale Oudinot e dei cacciatori di Vincennes, i migliori tiratori dell’esercito francese. Una palla di cannone calibro 36 colpisce le mura martoriate e cade nel fossato spezzando le reni del giovane bersagliere. Geme, sta morendo, i compagni lo sdraiano su una barella che si caricano sulle spalle e faticosamente si arrampicano tra i cumuli di terra del bastione per raggiungere l’ambulanza. Ma vengono fermati da delle grida: un giovane tenente, Luigi Porzi, corre verso di loro disperato e pallido, saltando sui fossati, fa abbassare la barella, si getta piangente sul corpo insanguinato. Senza vita giace la moglie, Colomba Antonietti, 22 anni. Si era tagliata corti i lunghi capelli neri e aveva indossato una divisa del marito per combattergli accanto. Alta, snella, decisa: sembrava proprio un giovane soldato. Colomba e Luigi si erano conosciuti a Foligno dove lei era figlia di fornai e lui, giunto da Imola, era cadetto pontificio, un conte. Si erano innamorati e sposati di nascosto per la contrarietà delle loro famiglie. Allo scoppio della prima guerra d’indipendenza, lo aveva seguito volontario al Nord per combattere gli austriaci. Nella battaglia di Velletri aveva risposto così a chi le diceva di restare al sicuro: “Ma se ci lascio il marito, morirei di affanno”. Il giorno dopo la sua morte, coperto di rose bianche, tra la folla silenziosa, il corpo viene portato fino alla chiesa San Carlo a' Catinari dove Ugo Bassi, patriota dell’ordine barnabita, con la camicia rossa e il crocefisso sul petto, dava sepoltura ai compagni garibaldini. Lo stesso Garibaldi ricorderà la fine di Colomba nelle sue memorie, come la sua Anita “così tranquilla e così coraggiosa in mezzo al fuoco”. Peraltro la stessa compagna del generalissimo, anch’essa sulle barricate romane di quel ’49, sebbene incinta, l’ardimentosa brasiliana “dea delle battaglie” che conquistò l’eroe nizzardo passando dal moschetto alla miccia del cannone, si stupì dell’ardore battagliero di Colomba, ardore che verrà celebrato poi da Carducci e Dumas. E’ ricordata nella lapide posta nel 1867 sul Palazzo Senatorio del Campidoglio ma sotto un nome errato di uomo: Pozzi Antonelli Colombo. Ma il suo è l’unico busto di donna tra quelli dei patrioti garibaldini ricordati sul Gianicolo, il colle dove nell’ultima strenua difesa di Roma caddero buona parte dei mille caduti francesi e degli oltre duemila repubblicani.  E i suoi resti giacciono nel Mausoleo Ossario Garibaldino che accoglie dal 1941 i caduti per Roma capitale tra il 1849 ed il 1870. Insieme a lei i resti di un’altra donna - Giuditta Tavani Arquati, cospiratrice trasteverina uccisa dalle baionette degli zuavi con il figlio che portava in grembo - e le memorie di altre cadute del 1849: Marta Della Vedova, Anastasia Nobili Nassi, Teresa Valenzi Sorbetti, Orsola Cesari (e Luigia Poli, caduta a Bologna nello stesso anno). Accanto ai nomi di queste donne il cui sacrificio resta sconosciuto (come sconosciute sono le centinaia di ossa poi qui raccolte) riposano le spoglie di chi vide invece riconosciuti dalla storia i suoi atti di eroismo: Mameli, Manara, Morosini, Dandolo, Daverio, tra i tanti.

Il monumento è posto proprio al termine di quello che fu il fronte dei repubblicani: neanche un chilometro, lungo le Mura Gianicolensi, lungo il quale i francesi scavarono trincee e bombardarono in due mesi di assedio, dal 30 aprile ai primi di luglio. A difendere la giovane repubblica, nata a febbraio, il più eterogeneo esercito che mai i romani abbiano visto. Posto al servizio dell’esperienza di governo più avanzata mai vissuta dal Risorgimento: allo stesso tempo socialista e liberale, repubblicana e monarchica, comunitaria e combattentistica. Ideali tanto diversi quanto le divise lacere e i dialetti dei 12mila militari repubblicani e dei loro capi che accorrono per liberare Roma dal Papa Re. Dei triumviri solo Armellini è romano, Mazzini è genovese, Saffi è forlivese. La metà dei volontari sono ex papalini; molti non hanno neanche fatto in tempo a coprire il loro stemma pontificio con la coccarda tricolore. L’altra metà viene da tutta Italia. Ci sono legioni dal Bolognese, dalla Toscana, dall’Umbria, gli emiliani Lancieri della morte di Angelo Masina, patrioti fuggiti dallo Stato borbonico, 1500 studenti universitari. E ancora polacchi, svizzeri e giovani artisti stranieri che studiano a Roma come l’olandese Jan Philip Koelman che disegnava nell’infuriare della battaglia. Vi è anche il figlio di Giuditta Sidoli, Achille, innamorata di Mazzini. Ma il grosso lo fanno i 600 reduci dalle battaglie del lombardo-veneto e dalle giornate di Milano, con i bersaglieri genovesi guidati da Luciano Manara, i volteggiatori del toscano Giacomo Medici e soprattutto la Legione Italiana di Garibaldi, i fedelissimi del generale, i più irruenti e avventati, i garibaldini che mal sopportano la disciplina imposta dal napoletano Carlo Pisacane.

Le ferite e le strazianti agonie di molti di loro furono assistite e alleviate da cure femminili. In centinaia furono le romane che, quando i francesi avevano iniziato la loro marcia su Roma e sorgevano le barricate, risposero all’appello del 27 aprile 1849 firmato da Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Marietta (Enrichetta) Pisacane Giulia Bovio Paulucci perché portassero vestiario e bendaggi. Pochi giorni prima la principessa rivoluzionaria reduce dalle battaglie di Milano, la compagna di Carlo Pisacane e la moglie del marchese Vittorio Paulucci de’ Calboli, comandante dei giovani bolognesi del Battaglione della Speranza, erano state scelte da Mazzini - insieme ad un sacerdote bolognese liberale, il cappellano militare Alessandro Gavazzi - per organizzare la rete di soccorso della repubblica. Già l’1 maggio lanciavano la chiamata di arruolamento per le infermiere laiche volontarie. La loro nascita non si deve quindi a Florence Nightingale, nella guerra di Crimea ma appunto alla Belgioioso, che in quel 1849 è anche la prima donna al mondo nominata direttrice delle ambulanze militari. “Romane, coraggio! Si avvicinano i momenti nei quali faremo conoscere al mondo come da noi si onori l'amor della Patria” si chiudeva l’appello. Rispondono a centinaia. Entreranno in servizio in trecento, le più robuste e risolute. Iniziava così la battaglia delle donne nei 12 ospedali militari. Quello principale era l'antico Ospizio della Trinità dei Pellegrini fondato da san Filippo Neri. E’ diretto da Giulia Paolucci e Dina Galletti, bolognese, moglie del presidente dell’assemblea costituente; a  S. Spirito dirige Giulia Calame Modena, contessina che si era ribellata per sposare l’attore Gustavo Modena e  al cui fianco aveva combattuto nel ’48 a Venezia,  “fiera gonfaliera”; a S. Giacomo c’è Malvina Costabili, ferrarese, moglie di uno dei componenti della commissione delle finanze, a San Gallicano la bella veneziana Adele Baroffio, amante di Mameli; a S. Giovanni, Paolina Lupi; a San Pietro in Montorio Enrichetta Pisacane, al Fatebenefratelli Margaret Fuller; a Santa Teresa, Enrichetta Filopanti, moglie del bolognese Quirico Filopanti, segretario dell’assemblea costituente che aveva scritto il decreto che aveva proclamato a febbraiola Repubblicaa; a Monti Olimpia Razzani. Tutti gli ospedali erano resi riconoscibili da una bandiera nera per renderli riconoscibili all’artiglieria nemica, vi venivano curati anche i feriti francesi, ma non sempre il cannoneggiamento li risparmiò. Una bomba cadde sull’ospedale dei Pellegrini mentre stava operando il milanese Agostino Bertani, il 37enne medico dei garibaldini nella seconda guerra di indipendenza, amico di Mazzini e Cattaneo. Grazie alla presenza di spirito suo e delle infermiere si impedì il panico tra i feriti. Ma la stessa dedizione dimostrata da queste donne venne colpita anche da maldicenze infamanti. In corsia le nobili si mescolavano alle popolane, le madri di famiglia alle prostitute. Molte erano le compagne dei militari: la bolognese Anna Grassetti Zanardi, moglie di Carlo Zanardi che sei anni prima aveva organizzato il tentativo insurrezionale mazziniano di Savigno; la nobildonna romana di origine francese Anna Galletti de Cadilhac, moglie dell'ufficiale Bartolomeo Galletti, vicedirettrice alla Trinità dei Pellegrini, che Garibaldi soprannominò l’“angelo degli ospedali” e i romani "la bella Roma". Esule a Parigi dopo la fine della Repubblica, fece innamorare Napoleone III e poi ebbe una relazione con Vittorio Emanuele II, dal quale ebbe nel 1864 una figlia, Aurora, che il re non volle mai riconoscere. E ancora Rosa Strozzi, medaglia al valore. Perse il marito, il capitano garibaldino Vincenzo Santini, sotto le bombe di San Pancrazio ma lei rimase fedele a Garibaldi che seguì in Sicilia, in Trentino, a Mentana. E Caterina Baracchini, liberale romana che la repressione pontificia condannerà a 15 anni di carcere e che dopo l'Unità divenne direttrice degli asili infantili di Napoli e si battè per il riconoscimento dei diritti civili delle donne. insieme a Teresita, figlia di Garibaldi e Anita.

Per il caldo afoso ed il sangue dei feriti le infermiere si rimboccano le maniche. Spogliano i feriti, li assistono nelle lunghe ore di agonia notturne. Lo storiografo francese Balleydier attacca queste donne dalle "nude spalle e seducentemente adorne" che “assidevansi al capezzale dei malati francesi per far proseliti colla voluttà”. L’accusa di mercimonio viene lanciata anche dal gesuita Antonio Bresciani che attacca le svergognate “profetesse” della Belgioioso colpevoli di avere requisito i conventi, le “infemierine” che “s’avvolgean snellette e leggere intorno ai letti in grembiulino di seta a ventaglio; colle mani-che riboccate assai sopra il gomito”, “coi capi benacconci, per non aver sembiante di suore, e non metter tedio e nausea agli eroi d’Italia, ai martiri della libertà; con certi risolini in bocca,con certe parolette dolciate, da mandarli all’altro mondo in ben altra guisa che non fanno i preti in cotta e stola”.  I francesi arrivano a soprannominarela Belgioiosola “Bellejoyeuse”, il papa Pio IX la condanna nell’Enciclica “Noscitis et Nobiscum”: “Più d’una volta gli stessi miseri infermi già presso a morire, sprovveduti di ogni conforto della Religione, furono astretti ad esalare lo spirito fra le lusinghe di sfacciata meretrice”. Lei rispose al pontefice con una lettera parlando di donne che “erano state per giorni e giorni al capezzale dei feriti; non si ritraevano davanti alle fatiche più estenuanti, né agli spettacoli o alle funzioni più ripugnanti, né dinnanzi al pericolo, dato che gli ospedali erano bersaglio delle bombe francesi”.  

Ma i lettori americani leggono tutt’altre cronache. La 39enne Margaret Fuller Ossoli, prima corrispondente estera americana (per il New-York Daily Tribune), battagliera, imperiosa, cosmopolita, da due anni amava il marchese Giovanni Angelo Ossoli, che un anno prima le aveva dato un figlio, Angelino. L’appello dell’amico Mazzini la vede però in prima linea a Roma. Scrive corrispondenze accorate che invocano l’aiuto degli americani per il “nostro popolo”:  “La notte del 30 aprile l’ho passata in ospedale e ho visto la terribile agonia di chi moriva o di chi doveva essere amputato: ho provato le loro sofferenze mentali e la mancanza dei cari lontani”. Il 9 giugno - quandola Repubblicaè sotto assedio e gli scontri con Garibaldi sono all’ordine del giorno - Mazzini le scrive: “Merito d'esser perdonato; se poteste passare tutto un giorno vicino a me vi maravigliereste non del mio silenzio con quelli che amo, ma che io sia vivo!”, “se la cosa dovesse durare a lungo, non v'è forza né volontà umana che possa resistere”. E le annuncia che deve accorrere al capezzale di Goffredo Mameli per “persuaderlo a sopportare l'amputazione della gamba”. Da pochi anni e solo negli Stati Uniti si usava l’anestesia con il cloroformio. Per trovarla sui campi di battaglia si dovrà attenderela Crimea.Perbloccare le emorragie si cauterizza con ferri roventi o olio bollente. Belgioioso lamenta: “Manca l'etere per lenire le sofferenze, i feriti decedono in preda ad atroci convulsioni; non ci sono i letti per le vittime di fratture; l'incompetenza dei chirurghi sfiora il crimine”. Bertani opera solo con il bi-cloruro di mercurio - le cui esalazioni lo intossicano gravemente - ed uno strumento per iniezioni.

Il poeta genovese combattente era stato ferito di striscio alla gamba sinistra, dal fuoco amico, durante la battaglia del 3 giugno. Pensava di avere scampato quella giornata di carneficina. Le inutili trattative tra il plenipotenziario Lesseps e Mazzini avevano permesso ad Oudinet di rinforzare l’esercito con 30mila uomini e 75 cannoni. E di notte aveva attaccato violando la tregua. A centinaia erano caduti trala VillaCorsini, - sulle cui scale si era combattuto per ore con sanguinosi corpi a corpo - e la villa a forma di nave del Vascello, che  resisterà tra le macerie, sotto una tempesta di fuoco, finché Garibaldi dovette firmare di suo pugno un ordine per convincere gli assediati guidati da Medici a ritirarsi (ma qualcuno tornerà addirittura per riprendersi il tricolore dimenticato). Quel 3 giugno erano stato ferito l’amico di Mameli, Nino Bixio, che aveva guidato gli attacchi alla baionetta, erano morti Angelo Masina dei valorosi Lancieri della morte dai fez rossi, il capo di stato maggiore dei Legionari garibaldini Francesco Daverio ed Enrico Dandolo, ferito il fratello Emilio. Il bersagliere lombardo era stato colpito a tradimento da un francese che gli aveva parlato in italiano. Il suo leggendario capo, Luciano Manara, morirà per una palla che gli squarcerà l’addome nella battaglia finale del 30 giugno, a Villa Spada, lo stesso giorno in cui verrà ferito a morte il suo bersagliere Emilio Morosini. Il 19enne tenente continuerà a menare fendenti con la sua spada stando sdraiato sulla barella, conquistando l’ammirazione dei francesi che tenteranno di curarlo, ma inutilmente). Quando medicarono all’ospedale la ferita di Mameli non estrassero lo stoppaccino del proiettile e questa si infettò. Quandola Belgioisolo seppe le sue urla risuonarono per tutto l’ospedale. Lei era amica della madre di Mameli, la marchesa Adelaide Zoagli. Malgrado l’amputazione della gamba, il giovane morirà, a 22 anni, il 6 luglio, divorato dalla cancrena, assistito dalla Belgioioso che spesso la notte gli leggeva l’amato Dickens. Durante la sua terribile agonia i compagni cantarono sotto le finestre dell’ospedale il suo "Fratelli d'Italia", il futuro inno italiano. Al suo fianco, fino alla fine, l’amata Adele, cui il poeta dedica i suoi ultimi versi: “Come l’astro morente arde e balena, ferve l’anima mia rinvigorita, nel bacio della morte. Addio, per sempre addio, sogni d’amor di gloria. Addio mio suol natìo. Addio diletta all’anima del giovane cantor”. Belgioioso scriveva in quei giorni: “Potevo prevedere quante mani avevano stretto la mia per l’ultima volta? Quanti lenzuoli rovesciati sul guanciale mi avrebbero annunciato alla vista del mattino, un martire in più?”. Dalla leggendaria principessa alla vecchia popolana il cui nome resta ignoto. A Ponte Sant'Angelo, l’altro fronte che vive le battaglie della Repubblica romana insieme a Ponte Sisto (dove il 29 giugno finì dilaniato Righetto, il 12 enne garzone che guidava la banda di ragazzini che quando cadevano le bombe si gettava con stracci bagnati sulle micce per spegnerle: ne morirono almeno una cinquantina), risponde così ai soldati nemici: "Io non posso andare appresso agli uccelli che volano e io non so dove sia mio figlio e se lo sapessi lo rimetterei piuttosto nelle mie viscere che svelarlo a voi". Poco lontano da qui, sulle mura vaticane, la romana Teresa Narducci aveva pianto la morte del figlio Paolo, primo caduto nella difesa di Roma, il 30 aprile. Il ventenne artigliere era stato colpito al petto. La fucilata aveva invece risparmiato il fratello Pietro, che a soli 13 anni già combatteva nel Battaglione della Speranza e che si salvò. Il cannone che manovrava Paolo era stato posto in mezzo ad una aiuola. Il pittore Nino Costa, trasteverino, garibaldino, nelle sue memorie descriverà il corpo senza vita di Paolo disteso tra i fiori sbocciati in quella primavera di bombe e speranze.

 

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