Se non fosse stato per le “ingiurie” di una scrittrice irlandese, l’Ottocento italiano non avrebbe avuto - in forma tanto estesa - il suo primo repertorio sulla scrittura femminile. Lady Sidney Owenson Morgan viaggia in Italia nel 1819 per scrivere un libro sul paese del Grand Tour fuori dagli stereotipi, come nel suo stile. Vuole ripetere il successo da bestseller del suo reportage sulla Francia post-napoleonica, pubblicato tra le polemiche due anni prima. E ci riesce con un libro che, pubblicato nel 1821, finisce subito nell’indice di quelli proibiti. Se gli implacabili resoconti sul degrado romano fanno sobbalzare i cardinali (non a caso il papa aveva ordinato di far pedinare la scrittrice), i severi giudizi sui costumi sociali delle classi alte fanno scandalo. La libertaria autrice di “The Wild Irish Girl”, il primo “romanzo nazionale” anglo-irlandese, pur riconoscendo “gli svantaggi di una cattiva istruzione, di un cattivo governo, di una religione bigotta”, imputa in particolare alle dame italiane, pur lodandone l’esteriore “grazia della semplicità”, una generale ignoranza. Mentre riserva gli accenti più affettuosi alle popolane, “miscuglio di grazia e di miseria, di gonne a brandelli e acconciature eleganti”, “compendio della storia naturale e politica del paese. L’istinto di una nazione squisitamente regolata prorompe qui (come ovunque in Italia) attraverso gli stracci della penuria e della desolazione”. Tanto bastava per sollevare una ondata di indignazione tra gli intellettuali italici della quale si fa interprete una marchesa ferrarese, Ginevra Canonici Fachini, che impiega tre anni per compilare il “Prospetto biografico delle donne italiane rinomate in letteratura dal secolo decimoquarto fino a’ giorni nostri”. Accompagnato, come da sottotitolo, da “una risposta a Lady Morgan risguardante alcune accuse da lei date alle donne italiane”. Una replica che è una lettera di ben 64 pagine nelle quali l’erudita nobildonna può sentenziare: “Niun’altra Nazione forse potrebbe vantare nel gentil sesso tanti elevati ingegni, quanti dal XIV secolo a tutt’oggi ne conta l’Italia”. E bacchettare quindi così la reporter d’Oltremanica: “Per poco che accordare vogliate di riflessione al passato, negare voi non potrete a voi stessa, che troppo e troppo aspramente della Italia e del mio sesso a danno ed onta si scrisse; né tanta ingiustizia può essere accolta da noi senza sdegno”. Nasce così - per “sdegno” -, il “catalogo” che salverà dall’oblio tante autrici italiane le quali - all’esaurirsi della elitaria esperienza arcadica settecentesca e delle sue erudite verseggiatrici “pastorelle” -, sanciranno l’affermazione, nella prima metà dell’Ottocento, della presenza femminile nell’editoria italica. A dominare su tutte è la contessa torinese Diodata Saluzzo di Roero (1774- 1840), nel 1802 prima donna ad essere ammessa alla Reale Accademia delle Scienze di Torino (peraltro fondata dal padre scienziato che già da bambina ne incoraggiò la vena poetica, laddove le sue coetanee nobili venivano educate al canto e alle arti figurative). Diodata è la poetessa che incarna il passaggio dall’Arcadia (in cui entrò 19enne come Glaucilla Eurotea) al Romanticismo. E’ stimata da Alfieri (che le riconosce una “proprietà di termini somma”), Foscolo, Parini, Monti. La sua ode “Le Rovine”, del 1816, viene lodata da Alessandro Manzoni e citata da Ludovico di Breme come “esempio di perfetta lirica romantica”: “Ombre degli Avi per la notte tacita al raggio estivo di cadente luna v'odo fra sassi diroccati fremere, che 'l tempo aduna”, “qui gli Eroi che furono, stavan seduti della mensa in giro: del Trovatore qui su cetra armonica s'udìa sospiro”, “addio, sacre rovine: allor che polvere di voi non resti, gli obelischi e gli archi, opra di noi, di questa polve andrannosi pel tempo carchi. E forse andranno vaneggiando i posteri sul secol nostro lezioso e rio, il disinganno io m'ebbi, ombre terribili, rovine, addio!”.
A testimonianza dell’importanza letteraria della contessa torinese vi è il fatto che la stessa Lady Morgan si affretta ad andare ad omaggiarla quando fa tappa a Torino (dove il rettore fa interrompere le lezioni per farle visitare le regie università). Tuttavia, nonostante fosse stata acclamata come la “Nuova Saffo” e accostata alle due regine della poesia femminile del ‘500 Vittoria Colonna e Veronica Gambara, Diodata fu costretta a soffrire tutta la vita le critiche malevole per la scelta di non essersi voluta risposare quando era rimasta vedova, in giovane età. Nel 1837, a 63 anni, un attacco le causerà una paralisi del lato sinistro del corpo e tre anni dopo morirà. Diodata aveva dedicato un’ode a Veronica Gambara, la vedova in armi che regnò su Correggio, immaginandola nel momento del trapasso, accolta dalle anime dei grandi poeti: “Quindi il varco passò, giunse alla sponda, e ‘l suo Giberto, e ‘l Bembo, indi Vittoria vennero a lei cinti di verde fronda. Veronica sorrise, al suo consorte porse la destra, e al tempio della Gloria saliro insiem, ove non giunge Morte”. E quando Diodata muore, nel 1840, un gruppo delle più importante letterate del tempo pubblica un “Serto” di componimenti in suo onore, a testimonianza della funzione simbolica acquisita dalla poetessa saluzzese. Firmano la torinese Matilde Joannini (1806-48) che l’anno prima con una sua poesia, “Alla mia cella” (… “m'ispirò la tua quiete pietosa in cui l'alma tranquilla riposa con solenne pacifico invito quel desir solitario, romito”, “meditando con te dolcemente il passato, il futuro, il presente”…), aveva partecipato ad una antologia di beneficienza per finanziare gli asili d'infanzia a Torino, insieme alla nizzarda Sophia Sassernò ed alla poetessa parmense Adele Curti (1810-1845), musa di Vincenzo Bellini, amica intima del soprano Giuditta Pasta, ammirata dai romantici lombardi. “Vive Diodata; e valida suona la sua parola: Oh! l’ascoltiam noi Itale chè di virtude è scuola, e voi, cui aviti meriti Fortuna prodigò”, “alme parole! Scuotano le menti italiane e questa Dora patria, spoglia di fogge estrane, s’abbia ad esempio e stimolo di Diodata il cor” verseggia in suo ricordo la pedagoga torinese Giulia Molino Colombini (1812-1879), corrispondente di Silvio Pellico, cui lo scrittore scriverà nel 1849: “Non so definire qual sia l’incanto de’ nobili suoi versi, ma leggendoli ho provato quella soave contentezza che fa qualche momento dimenticare i dolori. Il bello intellettuale e morale è così raro a’ nostri tempi! Felice chi sa, come lei, sentirlo e produrlo con tanto amore!”. Nel Serto per Diodata figura anche un’altra amica dell’autore delle “Mie Prigioni” (che ebbe peraltro un legame amoroso con un’altra famosa poetessa romantica, la milanese Cristina Archinto Trivulzio): la contessa torinese Ottavia Mombello di Masino, che ospitò lo scrittore nel suo salotto letterario e, abile pittrice, ne fece un ritratto. Del quale Pellico la ringrazia dedicandole dei versi, nel 1834: “Pensa, leggiadra Ottavia, quanto al risorto vate nuove sien cure amate l’arti ch’ei sempre amò! Quanto l’alletti il fascino del tuo gentil pennello, quanto ogni vero Bello che mente umana oprò!”. E nel Serto firmano anche altre letterate che, quando Diodata era in vita, ebbero con lei fitte corrispondenze, come la fiorentina Massimina Fantastici Rosellini (1789 -1859) (figlia della poetessa livornese Fortunata Sulgher, l’arcade Temira Parraside, una delle maggiori improvvisatrici del tempo insieme a Teresa Bandettini, entrambe peraltro amiche di Diodata) ed Enrichetta Dionigi Orfei, in Arcadia dal 1817 come Aurilla Gnidia, figlia della prima italiana ad occuparsi di archeologia, la nobildonna romana Marianna Candidi Dionigi.
A dimostrazione di quanto il “Prospetto biografico” della marchesa Fachini vada considerata un’opera fondamentale per conoscere il Parnaso femminile romantico, valga la citazione di “pienissima informazione” che Giacomo Leopardi ne fa, nel 1829, in una lettera all’editore milanese Luigi Stella che vuole coinvolgere il poeta di Recanati in una opera dedicata ai ritratti delle donne europee viventi più illustri. Stella fa il nome, in particolare, di quattro autrici - Costanza Moscheni, Teresa Bandettini, Teresa Albarelli Vordoni e Isabella Teotochi Albrizzi: tutte e quattro presenti appunto nel “Prospetto” della marchesa, “vendicativo” dell’onore letterario delle italiane. Se la livornese Moscheni (1786-1831), alias Dorilla Peneja e la lucchese Bandettini (1763-1837), alias Amarilli Etrusca, sono due dei pochi nomi delle 450 “pastorelle” d’Arcadia sopravvissute all’oblio letterario, la veronese Teresa Albarelli (1802-1868) - alla quale lo storico Giuseppe Maffei assegnerà un trentennio dopo un “distinto seggio fra le celebri poetesse italiane" -, è un giovane talento di sermoni dedicatori (come quello del 1831 alla pittrice Anna de Fratnich, la bella moglie di Salviotti, l’inquisitore di Silvio Pellico e dei carbonari, morta giovane per cancro al seno dopo lunga agonia: “Se il paterno ingegno consente a lui fortuna, e tu lo infiammi alle bell’opre, lo farai felice sarai felice; e, s’io t’invidio adesso, t’invidieran le madri tutte, allora”). Leopardi, pur sostenendo in maniera non troppo lusinghiera che al suo tempo vi sarebbero “molte autrici di libri o di libricciuoli, ma poche insigni”, sceglie però di tessere le lodi dell’affascinante Isabella Teotochi Albrizzi (1760-1836), nel cui salotto veneziano si incontravano da Canova, Chateaubriand, Lord Byron: la “Temira” cantata dal Pindemonte, la Laura dell’“Ortis” di Foscolo (che la amò perdutamente), una sorta di Madame de Stael italiana, incarnante bellezza ed erudizione. E Leopardi aveva visto giusto dal momento che, alla morte della Albrizzi, il “Corriere delle Dame” le dedicherà una ampia biografia, la prima di una donna contemporanea (e la stessa cosa farà nel 1840 alla morte di Diodata). Sulla stessa pubblicazione, per la prima volta, compaiono anche consigli per gli acquisti di poetesse viventi: la citata Massimina Fantastici Rosellini, la novarese Eufrosina Del Carretto, la milanese Adele Curti (tutte autrici presenti nel Serto per Diodata). Ma gli echi della polemica con Lady Morgan dureranno a lungo. Ancora nel 1836, il letterato padovano Giuseppe Vedova cura l’antologia “Poesie e Prose scelte di Donne Italiane” - con sul frontespizio i ritratti di Teresa Albarelli e della contessa bergamasca Paolina Grismondi Suardo (1746-1801), Lesbia Cidonia - per replicare alle “gratuite asserzioni di molti oltremontani”. Così anche il curatore, nel 1837, della milanese “Strenna Femminile Italiana” (la prima del genere), si rivolge alle “italiane leggitrici” per “onorare il vostro sesso gentile, mostrando come non solo vinca il nostro per ispontanee grazie e miti costumi ed avvenenza, ma ancora possa emularlo nelle arti e negli studi migliori il cui regno l’uomo sembra volere superbo e geloso dominare da solo”. Scusandosi inoltre di non poter offrire un panorama completo di tutte le “valenti donne che onorano la patria nostra letteratura”, a causa di lontananza geografica, “domestiche disavventure e pubbliche calamità” ma soprattutto “una soverchia modestia di alcune autrici”.
Nella “Strenna” non manca ovviamente Diodata Saluzzo di Roero e ancora Massimina Fantastici Rosellini, ma spiccano anche la contessa mantovana Caterina Murari Risenfeldt e la bolognese Antonietta Tommasini Ferroni (1780-1839) - che insieme alla figlia Adelaide (1798-1845) fu amica di Leopardi. Ed è tale il successo della prima edizione della “Strenna Femminile” che, nel 1840, esce una antologia con un dichiarato fine pedagogico: “Incitare la donna ad una maggiore istruzione”, perché “quanto più ampia ed universale diverrà l’istruzione femminile, tanto agli occhi della donna starà più ferma, grande, luminosa questa verità”. Nella presentazione si legge: “Sono lavori di donne, la maggior parte Italiane vostre contemporanee, che pensarono e sentirono altamente, ed altamente il pensato seppero rappresentare; Donne che osarono levarsi alla dignità dello scrittore”, “queste elette non solo con mirabili parole hanno descritto le purissime gioje domestiche, ma tenendosi a ragione principal parte dell’umana famiglia, trattarono pure con franca loquela la causa della Patria e dell’umanità”. Sulla copertina figura l’immagine di una suonatrice di arpa con il verso ariostesco: “Le donne son venute in eccellenza, di ciascun’arte ove hanno posto cura”. In essa, per la prima volta, sono divise le autrici italiane di prosa e di poesia e trova la sua consacrazione - inserita nella galleria di ritratti di “donne illustri”, al fianco di Elisabetta d’Inghilterra e Caterina di Russia -, l’arcade Aglaja Anassillide, l’acclamata “Saffo giardiniera”. Una curiosa scelta visto che Angela Veronese, all’epoca della pubblicazione, era ancora in vita (sarebbe morta 9 anni dopo, a 69 anni). Ma tale era il prestigio conquistato dalla poetessa autodidatta, salita agli onori letterari grazie ai potenti mecenati delle ville venete nel quale il padre giardiniere prestava servizio e poi, già trentenne, finita sposata ad un cocchiere mantovano, che non mancò di “sfruttarne” le doti per spingerla a farsi creatrice di componimenti su commissione, facendola quindi allontanare dal mondo dei salotti letterari.
Se invece non fosse stato proprio per il marito, non si sarebbe nulla della vicentina Vittoria Madurelli (1794-1841). D'indole “stranissima” (come la definisce lo storico Sebastiano Rumor), Vittoria così si descrive in una autobiografia che chiude la sua più importante raccolta di poesie, del 1827: “Sono bizzarra, credula, debole, malaccorta... orgogliosa ma nobile, sentimentale, sincera... vivace a suo tempo, melanconica per natura”. Fin da piccola confessa di essersi sentita inadatta ai “femminili lavori... all'ago e al telaio d'Aracné bensì interessata agli studi di Pallade: mia sola occupazione la lettura, lo scrivere”. A 23 anni, nel 1817, sposa il vedovo 30enne Giambattista Berti, futuro ingegnere municipale di Vicenza. Lui è già padre di 4 figli e, sposando l’ombrosa Vittoria, è come se ne adottasse un quinto. “Amico senza similazione, soffre con gentile bontà del mio bizzarro carattere, scusa i miei difetti e le mie debolezze, previene i miei desideri... Mi procacciò tutti i possibili mezzi onde maggiormente istruirmi. Si compiace de' miei poetici passatempi; mi sollecita ad occuparmene” scriverà Vittoria parlando di quel marito che la fa entrare nel circolo arcadico vicentino, lei con lo pseudonimo di Dafnide Eretenia, lui di Ismenio Aracintio. E poi la convince a pubblicare i suoi versi. Si ricorda poi anche un’altra coppia di coniugi arcadici nella quale fu proprio la moglie a surclassare il marito, ma con minore affetto da parte di quest’ultimo: Gasparo Gozzi (1713-1786), uno dei primi giornalisti italiani (fondatore nel 1760 della Gazzetta Veneta che importò in Italia il modello dello “Spectator” inglese, l’antesignana delle riviste) venne infatti chiamato il “marito di Luisa Bergalli”, ovvero la veneziana Irminda Partenide (1703-1779). Il marito era un bambino quando, nel 1725, solo 22enne esordì a Venezia, al teatro San Moisè, con il suo melodramma, “Agide re di Sparta”, musicato da Giovanni Porta. Tra i suoi maggiori estimatori figurava il librettista Apostolo Zeno, poeta di corte a Vienna prima di Metastasio: “Ho riletta l'opera della Bergalli, che sempre più mi è piaciuta. Ella è condotta e scritta assai bene, e fa vergogna a tante puerilità e sciocchezze, che escono alla giornata dalla penna di cotesti poetastri”. Nel 1726 Luisa pubblicò anche “Componimenti poetici delle più illustri rimatrici d’ogni secolo, dalla più lontana antichità greca e romana fino alle autrici contemporanee”, la prima antologia del genere mai pubblicata. Su 251 poetesse citate, 56 erano le sue contemporanee. Poi, nel 1738, sposa il nobile decaduto Gasparo Gozzi, più giovane di lei di 10 anni (lui “contentandosi d’aver in dote le aeree dovizie dell’Elicona” si legge in misogino passaggio del libro “Galleria dei letterari ed illustri delle Provincie Veneziane”, del 1824), che le dà cinque figli. Lei li accudisce, sacrificando molta della sua passione per l’erudizione, mentre l’astro letterario del marito cresce, acclamato come un nuovo Annibal Caro. E lei lo sostiene in ogni sua impresa letteraria. Per risollevare le finanze non fiorenti del marito Luisa trova anche il tempo per dedicarsi alle traduzioni, che spesso firma con il nome di Gozzi. E questi finirà per abbandonarla sostituendola con una giovane francese.
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