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JP Morgan sconfitta a Valmy ma la guerra continua 

JP Morgan sconfitta a Valmy ma la guerra continua 

di Michele Mezza

Gli straccioni di Valmy hanno battuto le levigate e tronfie armate di Jp Morgan. Il richiamo all’epica prima grande vittoria della Francia rivoluzionaria nel 1792 non dovrebbe suonare retorico. La superlega, sostenuta da imperi finanziari e infrastrutture tecnologiche possenti, frana anche per la pressione di robuste reti sociali in cui comunità di tifosi, organizzati , che hanno incontrato l’attenzione delle istituzioni. La SuperLeave, la grande fuga, della squadre inglesi , ieri sera, seguita dall’abbandono dell’Inter, una delle tre compagini italiane della falange costruita dal presidente del Real Madrid Perez e della Juventus Agnelli, ha ratificato il fallimento del golpe calcistico, come era stato definito subito da tutti gli addetti ai lavori. 
Ma il vero primo squillo di tromba che aveva guidato la controffensiva era venuto da un generale aristocratico, che aveva ancora la divisa degli invasori. Nel pomeriggio infatti Amazon, la grande piattaforma di e-commerce, oltre che il gruppo che controlla gran parte delle memorie cloud del mondo, aveva fatto sapere di non essere più interessato. Un segnale che bisogna seguire per capire realmente cosa è accaduto. In campo infatti si sono confrontati due modelli di business del calcio, ma più in generale di ogni emozione che porta ad una decisione di consumo. la partita ha infatti riguardato un passaggio antropologico non certo futile, investendo anche l’intero comparto dell’intrattenimento, dei beni artistici e culturali, delle modalità di acquisto, e più in generale delle relazioni sociali. 
La domanda era: chi comanda? Decidono le reti sociali, le infrastrutture materiali che esprimono bisogni e ambizioni, o è l’offerta di servizi, più schematicamente, sono le piattaforme ad organizzare i comportamenti e le emozioni ? La Superlega, in piena pandemia, che avrebbe dovuto sostenere quella proposta, prevedeva appunto un modello di graduale e completa virtualizzazione dei rapporti fra produttore e utente. 
Ogni singolo tifoso, o anche spettatore, visitatore di musei, consumatore, viaggiatore, diventa un cliente, separato da ogni comunità, rintanato dinanzi al suo cruscotto multimediale con cui programmare palinsesti personali. Su quel clienti si concentravano le arti e le alchimie degli esperti per incrementare l’Ebit, il sacro indice di rendimento per un’azienda di ogni proprio cliente individuale. E’ l’Ebit che guida il mercato. Ormai tutti siamo clienti, conquistare o spostare un utente da un servizio o un prodotto all’altro costa troppo, bisogna intensificare la relazione con i clienti già inglobati. Il progetto ipotizzato da JP Morgan e sostenuto da piattaforme collaudate sia negli USA che in Europa era proprio questo. Ma la buccia di banana si chiama reputation. 
Tutta questa nuova economia delle relazioni, che confluisce appunto sulle piattaforme, ha bisogno di una credibilità, un’aura, una reputazione che rende l’opzione di acquisto una scelta persino etica. Opto per quella offerta rispetto alle mille che mi inseguono perché io sono diverso. 
Rimane valida la straordinaria intuizione di Google al momento del suo lancio all’inizio del 2000: don’t be devil, io non faccio il male. L’appartenenza ad una cerchia di eletti rimane il valore aggiunto del consumo digitale. Se questa cerchia si ribella, rigetta il messaggio e capisce di essere ostaggio di pura speculazione allora il gioco di ribalta nel suo contrario. I primi ad intuirlo sono stati i vertici politici delle istituzioni dei paesi europei: Macron, Johnson, i tedeschi, Draghi. Loro bene sanno che il calcio, come l’intero sistema di intrattenimento è un medium per parlare al paese, e un apparato per organizzarlo. L’intesa fra istituzione e patrimoni materiali delle squadre, quale sono i tifosi, gli stadi, l’indotto del merchandising, ha dato sostanza ad una strategia alternativa: radicarsi sul territorio e non snaturarsi in una piattaforma. E questa ha vinto. Per ora.
L’intrigo di interessi rimane in campo. La tendenza alla virtualizzazione non scompare, tutt’altro, si combina con gli altri fattori e spinge ad una evoluzione antropologica del fare società. Sicuramente in queste ore stanno fibrillando tavoli di trattative. Il pesante deficit accumulato, anche per il virus ma non solo, dovrà in qualche modo essere compensato, magari trovando voci anche nelle pieghe del Recovery Fund. 
Certo però che le armate dei lealisti, per tornare a Valmy, hanno subito uno scacco e il potere negoziale di comunità sociali e territoriali si propone come variante, non solo nel mercato sportivo. Pensiamo a cosa potrebbe essere il piano della banda larga o del 5G se forse condiviso con le comunità territoriali in un piano regolatore metropolitano che dia colore e calore a queste infrastrutture ancora troppo asettiche. 
Comunque la rete dimostra di avere un cuore, di non potersi solo ridurre ad un menù digitale di offerte. Non è un bancomat. La mobilitazione dei gruppi di tifosi a Londra, Madrid e Milano ci dice che proprio l’economia digitale deve fare i conti con il capitale umano. Chi programma giri d’affari di 10 miliardi, come era stato fatto intravvedere, non può non sapere che una squadra come l’Inter, fondata da 44 intellettuali irregolari, poeti, scrittori, pittori, aveva come missione l’inclusione nel calcio di tutti i fratelli europei, da cui il nome Internazionale. Tutto questo non diventa solo un click. Per ora.

(© 9Colonne - citare la fonte)