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I salotti / 3 - Le “divine” che resero grandi i “grandi”

Ritratti
Una galleria giornalistica di ritratti femminili legati all'Unità d'Italia. Donne protagoniste nell'economia, nelle scienze, nella cultura, nello spettacolo, nelle istituzioni e nell'attualità. Ogni settimana due figure femminili rappresentative della storia politica e culturale italiana passata e presente.

I salotti / 3 - Le “divine” che resero grandi i “grandi”

Una scena rinascimentale sullo sfondo della guerra francese dei 100 anni. Un tenore, nella parte dell'arabo Tamas, che canta il suo odio contro il conte di Vergy che l'ha reso suo schiavo: "Mi togliesti e core e mente, patria, numi e libertà...". E la platea del Teatro Carolino di Palermo, il 27 novembre 1847 , prorompe in un boato patriottico. Tanto che la soprano della serata, protagonista della "Gemma di Vergy", Teresa Parodi, corre ad avvolgersi in un tricolore per comparire in scena. Ed è l'apoteosi. Si sollevano gli evviva per Pio IX, il papa che ancora per cinque mesi verrà acclamato come liberale ed una gragnuola di cuscini sommerge il presidente della corte suprema, malauguratamente seduto in platea. Quarantasei giorni dopo, il 12 gennaio 1848, giorno del compleanno di Ferdinando II, Palermo insorge contro i Borbone ed accende la miccia del Quarantotto in tutta Europa. E Teresa Parodi, il 26 febbraio, torna sul palcoscenico del teatro palermitano, appena ribattezzato Bellini, per un programma apertamente politico, ad omaggio del nuovo governo provvisorio, cantando un "Inno a Pio IX" e le belliniane arie "Suonano le trombe intrepidi" dai "Puritani" e "Guerra, Guerra" dalla "Norma". A sentire il clamore che accoglie la sua "Gemma di Vergy", nel teatro che aveva diretto 20 anni prima, Gaetano Donizetti non c'è perché è morto da un mese e mezzo, ucciso dalla sifilide a 50 anni. Ad assisterlo nelle sue ultime ore l'amica e baronessa Rosa Rota Basoni, nel suo palazzo bergamasco, in quella che oggi è via Donizetti. Inutilmente la nobildonna costringe la figlia 22enne, Giovannina, a suonare le opere del maestro al pianoforte che tre anni prima lo stesso compositore le aveva regalato. Inutilmente chiama per cantare in duo con Giovannina Giovanni Battista Rubini, uno dei tenori preferiti del maestro. Donizetti non parla, guarda nel vuoto. Giovannina, che sposerà il patriota bergamasco Gianmaria Scotti, racconterà le ultime ore del compositore in una lettera alla mezzosoprano Margherita Tizzoni, moglie di Enrico Augusto Delle Sedie, uno dei tanti ragazzi toscani volontari della battaglia di Curtatone che diverrà uno dei baritoni più acclamati degli anni ‘50: "Durante la sera del 5 la febbre ridivenne più forte. Nella mattinata del 6 si incominciò a praticargli l'alimentazione indiretta fortificata da rossi d'uovo. Il 7 e l'8 il signor Donizetti andò sempre più declinando in uno stato d'agonia". Una agonia cominciata con una paralisi cerebrale che, per tutto il 1846, aveva visto Donizetti internato tra i pazzi nella Parigi in cui per un decennio aveva spopolato. Nel 1835 Rossini, che condirige il Théatre Italien, il tempio della musica lirica italiana a Parigi, invita lui e Bellini a rappresentarvi le loro opere, aprendo una sfida tra i due compositori italiani. Il primo titolo che Donizetti propone è il "Marin Faliero" che, seppure un clamoroso insuccesso, un anno dopo viene elogiato da Mazzini nella suo trattato "Filosofia della musica", quale opera emblematica del nuovo teatro musicale: "Donizetti, l'unico il cui ingegno altamente progressivo riveli tendenze rigeneratrici, l'unico ch'io mi sappia, sul quale possa in oggi riposare con un po' di fiducia l'animo stanco e nauseato del volgo d'imitatori servili che brulicano in questa nostra Italia". Al libretto del "Faliero", d'altronde, ha lavorato Giovanni Ruffini, intimo amico di Mazzini e autore anche del libretto del donizettiano "Don Pasquale" la cui paternità, al suo debutto a Parigi nel 1843, se l'è presa però Michele Accursi (enigmatica figura di doppiogiochista, mazziniano e allo stesso tempo spia pontificia), che da cinque anni è l'agente a Parigi di un Donizetti che - prostrato per la perdita in soli due anni di genitori, due figlioletti e della moglie Virginia Vasselli, uccisa dal colera (e per la nomina di Mercadante, al suo posto, alla direzione del Conservatorio di Napoli) - si è trasferito nella capitale francese e buttato nel più forsennato lavoro, tanto che un indispettito Hector Berlioz arriva a scrivere nel 1840: "La sua è una vera e propria guerra d'invasione. Non potremo più parlare dei teatri lirici di Parigi, ma dei teatri di Donizetti". Mazzini, a sua volta, utilizza a proprio profitto la popolarità del compositore bergamasco divenuto "maestro di cappella dell'imperatore d'Austria", allorché adotta il suo recapito postale parigino, complice la presenza di Ruffini, quale indirizzo delle missive segrete degli affiliati della Giovine Italia. Lo stratagemma funziona così: quando Accursi vede che la lettera è indirizzata a "G.no Donizetti, Maitre de Chapelle de Sa Majesté Apostolique l'Empereur d'Autriche", ossia con quel "no" aggiunto alla lettera "G", capisce che si tratta di lettere cospiratorie. Tutto ciò ad insaputa dello stesso Donizetti che, malgrado la stima di Mazzini, non si è mai dato animo di dare alle sue magistrali arie sentimentali significati patriottici. Eppure non gli vengono risparmiati problemi con la censura. Oltre al veto borbonico che impedì ai suoi cristiani perseguitati del "Poliuto" di andare in scena a Napoli nel 1838, si ricorda che il 3 febbraio 1831, nella Modena scossa dalla congiura di Ciro Menotti, le repliche del suo "Esiliati in Siberia" vengono fermate. Ma intanto la marcia dell'opera diventa l'inno dei rivoltosi. E, in quegli anni incandescenti, anche una altra opera apparentemente innocua, il "Guglielmo Tell" di Rossini si ritrova ad essere utilizzata in funzione politica. Al Teatro Comunale di Bologna, il 3 marzo 1831, un gruppo di donne canta i cori dell'opera rossiniana che, perché tratta da un libretto francese, era stata titolata "Rodolfo di Sterling" dalla censura pontificia (e 5 anni dopo alla Scala di Milano gli svizzeri in lotta contro gli austriaci diventeranno scozzesi in lotta contro gli inglesi). Reggono la bandiera tricolore. Tra di esse la 29enne marchesa Brigida Fava Ghisilieri, ammirata da Mazzini, animatrice, insieme col marito Giuseppe Tanari, di un salotto liberale attraverso il quale aiuta i rifugiati, intesse rapporti con le diplomazie straniere, finanzia opere pubbliche, come i primi asili infantili di mutuo soccorso della città. E a Bologna, tra i salotti militanti, si ricorda anche quello della contessa veronese Maria Teresa Serego Alighieri, discendente di Dante e che si fa chiamare Nina per non sentire quel suo nome impostole quale omaggio all'imperatrice austriaca, lei che - sposata dal 1840 al futuro senatore Giovanni Gozzadini -, protegge molti rifugiati, come il mazziniano Alberto Mario e soccorre Massimo d'Azeglio ferito nella disfatta di Novara del 1849, sostituendosi così alle cure femminili della moglie Luisa Maumary che, nel mirino degli austriaci, finisce esiliata (e salottiera a Parigi) ma anche in rotta con il marito, che si avvia a diventare capo del governo piemontese (d'Azeglio e Maumary si erano sposati nel 1835, entrambi vedovi: lei di Enrico Blondel, cognato di Manzoni, lui di Giulia Manzoni, figlia dello scrittore, morta giovane dopo un anno di matrimonio). E d'Azeglio è tra gli ospiti, a Bologna, anche della contessa Carolina Tattini Pepoli, nipote di Murat, che non esita a sostenere gli insorti sulle barricate dell'8 agosto 1848, i cui feriti trovano soccorso anche nel salotto di Brigida Tanari e della figlia Augusta. Tutti cenacoli politici che alimentano il mito della Bologna dei leggendari salotti culturali ottocenteschi, come quello della bionda contessa Anna Pepoli Sampieri che, poetessa arcade con il nome di Ipsinoe Cidonia, nel 1826 apre le porte del suo mondano ritrovo al timido 28enne Giacomo Leopardi, pupillo di suo fratello Carlo Pepoli, mazziniano autore del libretto dei "Puritani" di Bellini, poi sindaco di Bologna e sanatore. Il recanatese declama la poesia "Al conte Carlo Pepoli" in una tetra serata del lunedì di Pasqua all'Accademia dei Felsinei, con fare così sofferente da deludere il pubblico. Tra i pochi a complimentarsi con il poeta con sincerità si fa avanti però la 41enne Teresa Carniani Malvezzi, moglie del conte Francesco Malvezzi de' Medici, animatrice di un importante salotto culturale, il cui astro è Vincenzo Monti che, per divertire la sua ospite, si era inventato la sciarada Mal-vezzi: "Fugge ognuno il mio primo: e pochi al mondo/resistono al potere del mio secondo/D'un bel viso il cognome hai nell'intero/tutto pien del secondo e del primiero". Anche a Leopardi prende a frequentare il salotto della raffinata Malvezzi e presto se ne innamora. Così ne parla in una lettera al fratello Carlo, il 30 maggio 1826: "Non è giovane, ma è di una grazia e di uno spirito che (credilo a me, che finora l'avevo creduto impossibile) supplisce alla gioventù, e crea un'illusione meravigliosa. Nei primi giorni che la conobbi, vissi in una specie di delirio e di febbre. Non abbiamo mai parlato di amore se non per ischerzo, ma viviamo insieme in un'amicizia tenera e sensibile, con un interesse scambievole, e un abbandono, che è come un amore senza inquietudine. Ha per me una stima altissima; se le leggo qualche mia cosa, spesso piange di cuore senz'affettazione; le lodi degli altri non hanno per me nessuna sostanza, le sue mi si convertono tutte in sangue, e mi restano tutte nell'anima... Ha risuscitato il mio cuore, dopo un sonno, anzi una morte completa, durata per tanti anni". Ma dopo neanche sei mesi l'idillio è già spezzato. Leopardi le scrive in ottobre: "Contessa mia. L'ultima volta che ebbi il piacere di vedervi, voi mi diceste così chiaramente che la mia conversazione da solo a sola vi annoiava, che non mi lasciaste luogo a nessun pretesto per ardire di continuarvi la frequenza delle mie visite". Leopardi, dal 1827, va quindi a Firenze dove frequenta le riunioni del giovedì del Gabinetto Vieusseux, incontrandovi anche Manzoni. Con lo scrittore milanese, con il quale non nasce però alcuna simpatia, condivide anche la presenza nel salotto della baronessa Carolina Poerio, esule da Napoli con il marito Giuseppe Poerio, coinvolto nei moti carbonari del 1820. Qui Leopardi incontra un altro esule napoletano a Firenze, il 20enne Antonio Ranieri ed i due diventano inseparabili. Vivono insieme, tra il 1831 ed il 1832, a Roma (dove Ranieri perde la testa per l'attrice Maddalena Pelzet) e quindi dal 1833, a Napoli, dove Leopardi troverà la morte 4 anni dopo, 39enne, col capo abbandonato sulla tavola dove stava mangiando un piatto di pastina, ucciso dal colera (e non per una congestione da sorbetti e confetti, come Ranieri disse, per salvarne il corpo dell'amico dalla fossa comune). A soccorrere inutilmente Leopardi è Enrichetta Ranieri, la sorella di Antonio, donna tanto energica quanto raffinata che a Napoli, moglie del patriota Giuseppe Ferrigni, conduce un avanzato salotto politico frequentato da note intellettuali napoletane, come Lucia De Thomasis (che a sua volta riunirà nel suo salotto i patrioti che si prepareranno al ‘48, da Silvio Spaventa a Carlo Troya) e la stessa sorella Paolina Ranieri, ultima fiamma di Leopardi e sua collaboratrice (tanto che si dice che "Leopardi disponeva, Ranieri chiariva, Paolina scriveva"). Anch'essa di animo battagliero. Si racconta che, incontrando in strada, il ministro Antonio Mordini col petto costellato di decorazioni, avrà il coraggio di dirgli, per rimproverargli il tradimento delle sue idee repubblicane: "Queste cianfrusaglie in petto a Mordini! Vergogna!". Tornando ai salotti di Bologna, il 26 luglio 1836 si ricorda, a Casalecchio, la festa in onore di Rossini che si tiene nella villa del marchese Francesco Antonio Sampieri. Il momento clou vede 15 fanciulle di bianco vestite declamare nel mezzo del laghetto del parco un inno per l'illustre ospite, composto dal padrone di casa. Al suo fianco c'è la moglie Anna De Gregorio, detta la "Sampireina". Dal suo amante, il marchese Alessandro Guidotti, che finirà ucciso nel maggio 1848 a Treviso, ha avuto un figlio che verrà allevato segretamente a Madrid ed inutilmente, da adulto, rivendicherà il blasone di famiglia. Ad aiutare la "Sampireina" a nascondere il frutto della sua colpa è l'amica Maria Malvezzi Hercolani il cui salotto bolognese è l'unico che il 44enne Rossini ama frequentare da quando, nel 1836, si è ritirato a Bologna, accettando un posto di consulente al liceo musicale. D'altronde il compositore pesarese, ormai malato di nervi, aveva già deciso di chiudere la sua carriera 7 anni prima, all'apice del successo, a 37 anni, con il "Guglielmo Tell", che resterà il suo canto del cigno. Al suo fianco c'è la francese Olimpia Pellissier, sua nuova compagna da quando si è separato dalla cantante Isabella Colbran, che pure vive poco lontano, nella villa di Castenaso del compositore, in cui i due si erano sposati 14 anni prima. Qui la Colbran morirà nel 1845, 60enne, chiudendo la prima stagione delle grandi interpreti rossiniane. Nel 1836 era già morta, solo 28enne, per una caduta da cavallo a Londra, entrando così nel mito, Maria Malibran, l'interprete per eccellenza della Rosina del "Barbiere di Siviglia" e di Desdemona nell'"Otello", la quale aveva una tale potenza vocale da riuscire anche a cantare da tenore (nel "Pirata" di Bellini). E ancora prima, a Brescia, nel 1832, era morta a 47 anni il contralto Adelaide Malanotte, che per la sua bellezza aveva fatto girare la testa a Lucien Bonaparte, fratello minore di Napoleone e sulla cui voce Rossini, nel 1813, modellò il ruolo femminile di "Tancredi". Si tramanda che abbia convinto Rossini a musicare per lei l'aria "Di tanti palpiti" che non era inizialmente presente nello spartito. Per certo il suo amante, il bresciano Luigi Lechi, rimaneggiò la prima versione dell'opera con un finale tragico che fece fiasco ma che oggi è la versione che tramanda la bravura anche del Rossini "serio". Malanotte fu anche una delle prime interpreti de "L'italiana in Algeri" che, nel 1815, a Napoli, finisce censurata a causa dell'aria cantata dalla protagonista: "Pensa alla patria, e intrepido il tuo dover adempi: vedi per tutta Italia rinascere gli esempi d'ardir e di valor". In realtà, nel suo libretto, Angelo Anelli - che nel 1802 aveva soffiato al Foscolo la cattedra di eloquenza forense a Milano -, non aveva avuto intenti patriottici ma solo inteso solleticare il pubblico ispirandosi alla reale avventura di una bella milanese, Antonietta Frapolli, che nel 1805 era finita rapita dai corsari algerini, mentre viaggiava in veliero fra Sicilia e Sardegna ed era finita nell'harem del bey d'Algeri Mustafà-lbn-Ibrahim (e 20 anni prima stessa sorte era toccata ad una madeoiselle du Buc de Rivery - cugina 18enne della mondana Giuseppina di Beauharnais, prima moglie di Napoleone - che, viaggiando dalla Martinica per raggiungere il convento di Nantes, dove doveva essere educata, venne catturata dai corsari algerini che la "regalarono" al sultano ottomano Selim cui diede un figlio che, nel 1808, guidò l'impero turco sotto il nome di Mahmoud II). Adelaide Malanotte fin dal 1820 si era ritirata a vivere sul lago di Garda, nell'isola Lechi (acquistata dall'amante Luigi Lechi, che nel 1823 venne anche arrestato per cospirazione anti-austriaca), dove creò un salotto culturale che faceva anche da facciata alle trame carbonare di Confalonieri e Porro. Vi passarono anche Donizetti e la soprano Giuditta Pasta che quando si ritirò dalle scene nel 1845, dopo 30 anni di carriera, a 48 anni, era un mito vivente della lirica, superiore anche a quello di Colbran e Malibran, musa ispiratrice di Donizetti e di Bellini, che definì il suo stile "sublime tragico". Nella sua lussuosa villa di Blevio, il cui loggiato era stato disegnato da Hayez ad imitazione di quello del teatro alla Scala, per un mese visse Donizetti per comporre l'"Anna Bolena" che la stessa Giuditta interpretò al suo debutto, nel 1830; l'anno dopo Bellini le affidò la "Norma" (pensando "Casta Diva" proprio per lei, che fece abbassare però l'ara di un tono) e a seguire anche il debutto della "Sonnambula". Ma furoni ospiti di Giuditta anche Rossini, Stendhal, Manzoni e la cantante Matilde Juva, sorella di Cirilla Branca, considerata "il Liszt delle pianiste lombarde". Sempre Bologna ricorda poi il salotto della conturbante contessa Cornelia Rossi Martinetti che, come disse Stendhal, "avrebbe fatto scalpore persino a Parigi" e che, nei primi tre decenni dell'800, rimase noto in tutta Europa come il "tempio della Venere bruna", visitato da Leopardi, Rossini, Byron, Shelley, Lady Morgan, Valery, Chateaubriand, Ludwig di Baviera, Stendhal (che davanti alla maliziosa Cornelia dovette provare le stesse vertigini vissute, da adolescente, per la milanese Angela Pietragrua, sorella della soprano Giuseppina Borroni, "sublime sibilla, terribile nella sua bellezza folgorante e soprannaturale", ispiratrice della Sanseverina nella Certosa di Parma). La "grazia penetrante" di Cornelia fece invaghire Napoleone, come raccontò la scrittrice Louise Colet, che della contessa tracciò un ritratto degno di una dea, (come d'altronde la definiva Monti): "Mi apparve tutta vestita di bianco, la sua veste drappeggiata ricadeva in morbide pieghe attorno alla sua cintura sottile; i suoi capelli, vera lanuggine di cigno, ondeggiavano sulla fronte e sulle guance". Napoleone, nel 1805, aveva destinato la favolosa somma di 200mila lire al rifacimento del parco della città, facendolo rivaleggiare per grandezza con le Tuileries, proprio su progetto del marito di Cornelia, Giovanni Battista Martinetti, ispettore delle opere pubbliche del Dipartimento del Reno. Martinetti aveva trasformato il convento delle Benedettine nel palazzo in cui la colta e civettuola consorte faceva da regina, l'orto delle monache in un incantato giardino delle Esperidi, la cripta romanica in una favolosa grotta (con grande scandalo dei clericali). Qui il 34enne Foscolo vi entrò per la prima volta nel 1812 per rimanere subito stregato della 21enne Cornelia che, con raffinata civetteria, tanto tenne sulla corda le sue passionali profferte, da spingerlo a definirla "la donna più pericolosa ch'io abbia veduto mai". D'altronde si narra che Canova, in un eccesso di gelosia, abbia distrutto il blocco marmoreo nel quale stava scolpendo l'incantevole immagine della baronessa, che finirà i suoi giorni cieca. Ma Foscolo non rinuncerà ad eternarla nel suo carme "Le Grazie" come la dea dell'eloquenza che si aggira fra "frondose indiche piante" e "ne' freschi orezzi di un armonioso speco". Mentre le altre due "grazie" saranno Maddalena Bignami (la splendida moglie di un banchiere milanese che nel 1808, lei 17enne, venne definita da Napoleone "la più bella tra le belle", cugina delle carbonare Bianca Milesi e Matilde Viscontini) ed Eleonora Nencini che lo scrittore, lasciata Bologna, conosce nel più famoso salotto di Firenze, quello di Luisa di Stolberg, la contessa d'Albany, all'epoca 60enne, che nell'antinapoleonico Foscolo sente rivivere la passione che trent'anni prima, nel 1777, lei 25enne moglie di Carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d'Inghilterra, l'aveva accesa per il 28enne Vittorio Alfieri, per il quale lasciò il marito per vivere un tormentato amore, scandito da peregrinazioni tra Parigi e Firenze. Per rivivere salotti culturali di prestigio come quello della contessa d'Albany, Firenze dovette attendere gli anni in cui divenne capitale provvisoria, dal 1865 al 1870. In quegli anni si ricorda infatti il cenacolo culturale della quarantenne esule tedesca e scrittrice Ludmilla Assing, in cui passa il giovane Verga; il salotto di lady Laura Acton, l'anticonformista moglie dell'ex presidente del Consiglio Marco Minghetti (che dopo la breccia di Porta Pia si trasferì a Roma con nove vagoni ferroviari per portare solo i suoi mobili) ma soprattutto quello di Emilia Toscanelli, moglie di Ubaldo Peruzzi, già ministro degli Interni nel governo Minghetti e, con Firenze capitale, prima presidente della Provincia e poi sindaco di Firenze. E' lei l'anima del "Salotto Rosso" frequentato da Edmondo De Amicis (che lo descrive nel suo "Un salotto fiorentino del secolo scorso" quale "bella e operosa fucina intellettuale"). Ma si ricorda anche il salotto di Maria Letizia Bonaparte Wyse, figlia della frivola Letizia Bonaparte (una delle figlie di Luciano, nipote di Napoleone che, con i suoi tanti amanti, diede filo da torcere al serioso marito, diplomatico britannico) e moglie di Urbano Rattazzi, nel 1867 tornato ad essere presidente del Consiglio dopo che l'affare Garibaldi in Aspromonte, 5 anni prima, lo aveva costretto alle dimissioni.
Quindi Foscolo, appena giunto a Firenze, il 20 agosto 1812, scrive alla bella contessa Cornelia lasciata a Bologna: "Io non posso amare se non altamente, ardentemente, forsennatamente forse". E di lì a breve vivrà infatti il suo amore con la 21enne Quirina Mocenni, moglie di Ferdinando Magiotti, un ricco possidente demente e infermo che lei, rimasta orfana della madre Teresa Mocenni (sfibrata per le violenze del marito, un banchiere senese), era stata costretta a sposare 10 anni prima, in un matrimonio combinato proprio dalla contessa d'Albany, già intima amica di sua madre. Quirina e Foscolo vivranno alcune settimane di sfrenata passione nella primavera del 1813, in una garconnière fiorentina. Poi diventeranno amici, lei trasfigurata nella foscoliana "donna gentile", epiteto quanto mai indovinato visto che si deve a Quirina se molti dei libri e delle lettere di Foscolo sono giunti fino a noi, molti dei quali da lei raccolti tramite Silvio Pellico, amico di entrambi. Lo stesso testo del sonetto "Alla donna gentile" è stata Quirina a preservarlo perché Foscolo lo abbozzò, nel 1813, su di un foglietto, mentre posava per quello che diverrà il suo ritratto più famoso, commissionato dalla duchessa d'Albany al pittore Fabre. Quando Foscolo rilesse quei versi non ne fu contento e stracciò il foglietto in tanti pezzettini che Quirina però ricompose ed incollò dietro una copia del celebre ritratto di Fabre che, ancora tre anni dopo, le faceva battere il cuore, come confessò all'ex amante in una delle loro tante lettere: "Ti guardo, ti vedo, e mi pare di veder quello, che una volta rincontrandolo fra il Ponte Vecchio e Mercato nuovo, mi fece battere il cuore con tanta veemenza! E allora non ti conoscevo, e allora parlò il cuore prima della testa". A presentare Foscolo alla contessa d'Albany era stata Isabella Teotochi, che nella sua villa del Terraglio, in cui viveva con il secondo marito, il nobile veneziano Giovanni Battista Albrizzi, già acclamata come la più celebre salottiera della Serenissima (amica di Walter Scott, Pindemonte, Canova, Byron, Alfieri) nel 1794, esperta 34enne, aveva dato al 17enne Foscolo la sua iniziazione erotica. Isabella, bruna bellezza corfiota, compete per fascino e supera per erudizione le salottiere e nobildonne veneziane Marina Benzon (la "biondina in gondoleta") e Cecilia Tron (che fece girare la testa a Parini, alle cui "belle braccia" dedicò nel 1787 l'ode "Il pericolo" (ma lei gli preferì Cagliostro) e che cedette per 80mila zecchini, nel 1785, ai duchi di Curlandia, il suo palco a teatro, ribattendo spregiudicata con un "la Trona, la mona, la dona" a chi la criticava con il motto "la Trona la vende el palco più caro de la mona..." (la mona è il sesso femminile). Foscolo idealizzò Isabella nella Laura della prima stesura dell'"Ortis" (laddove Pindemonte l'aveva già cantata nella sua Temira) mentre tra i "grandi alberi ospitali" di villa Albrizzi incominciò ad immaginare i "Sepolcri". Nel salotto di Isabella, Foscolo viene descritto, nel 1806, dalla 27enne Angela Veronese, la semplice figlia di un giardiniere dal talento letterario straordinario che la contessa ama esibire nel suo salotto. L'acclamata "Saffo giardiniera" prima rimane delusa da quel giovanotto dalle lascive labbrone che le si avvicina "più che non permettea la decenza" ma poi, quando lo sente declamare, le appare "un genio celeste che rendesse omaggio alle divinità della terra". Nel 1805 Madame de Stael passa per il salotto di Isabella, mettendo in allarme la polizia (ma Isabella non può certo lasciare l'esclusiva del salotto politico solo all'amica Giustina Renier Michiel, ritrovo veneziano dei giovani liberali). E ancora, 16 anni dopo, in piena bufera carbonara, non esiterà ad invitare, appena scarcerato a Venezia, Giovanni Arrivabene (che tra l'altro diverrà cognato della marchesa Teresa Valenti Gonzaga che, a Mantova, tenne il salotto politico che dal 1848 divenne il quartier generale degli antiaustriaci e lei stessa, nel 1859, finì imprigionata con l'accusa di avere organizzato una messa per i caduti italiani e francesi della battaglia di Solferino). Il Foscolo "tombeur di nobildonne" venne invece bistrattato dalla bella contessa Silvia Curtoni Verza Guastaverza. Nel suo salotto veronese, che faceva concorrenza a quello di Isabella, il poeta si infiammò per una disputa letteraria accesasi in merito al suo "Ortis" e la padrona di casa lo zittì con fermezza. Infine il ricordo di due donne cremonesi misconosciute ma con una importanza emblematica sul proscenio del Risorgimento. A Cremona, il 2 aprile 1848, in occasione dell'entrata delle Truppe Pie, viene eseguito l'"Inno di guerra per gli italiani". La musica è di una donna, Elisa Beltrami Barozzi, già animatrice anche delle barricate degli insorti. E cremonesi sono anche le cantanti Ernesta e Selene Galli che, a Milano, il 18 agosto 1849 - la prima 20enne, la seconda 16enne -, si rifiutano di cantare inni di lode in occasione del compleanno dell'imperatore austriaco, innescando una manifestazione di piazza, subito repressa. Ernesta, per condanna, verrà colpita con 40 vergate in piazza Castello.

( Marina Greco )

 

 

 

 

 

 

 

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