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Patrizia Scascitelli,
la prima compositrice jazz italiana

Ritratti
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Patrizia Scascitelli, <br> la prima compositrice jazz italiana

La prima compositrice jazz d’Italia: Patrizia Scascitelli. Sua la prima nota suonata al debutto dell’Umbria Jazz nel 1973 e suo l’album “Ballata” di un anno dopo, pietra miliare della musica giovanile degli anni ‘70 ma soprattutto della storia del jazz italiano, primo con una donna band leader. Anzi una ragazza ventenne. Minuta, tenace, concentratissima, rigorosa. I pantaloni a zampa di elefante ed il cappello di paglia hippie per una interprete che oggi vestirebbe in abito da sera. E il secondo album, annoverato tra le “micce” creative di quegli anni in cui i giovani ascoltavano il jazz come atto libertario e anticonformista e c’era chi per Scascitelli parlava di “jazz femmina” come fosse un manifesto di emancipazione: il live del 28 gennaio 1975 all’Università Statale di Milano, un concerto che riunì le “nuove tendenze del jazz italiano” - organizzato dal Centro di cultura popolare e dalla commissione culturale del Movimento Lavoratori per il Socialismo -, con Scascitelli alla guida di tre assi afroamericani: il sassofonista Larry Dinwiddie, il batterista Marvin "Boogaloo" Smith ed il suonatore di congas Karl Potter (poi musicista per il Banco, la PFM e Pino Daniele e cui Scascitelli dedica una delle sue prime composizioni, Potter's Dance). Con quel “Ricky” che resta ancor oggi una magistrale pagina di eleganza ritmica e liberatoria espressione in cui sonorità latina e bepop si intersecano, oltre i confini dello swing italiano. L’album è stato ristampato una decina di anni fa: non in Italia ma da una casa editrice giapponese. “Suonavamo un linguaggio jazz originale, eravamo un gruppo fuori dal consueto, mai visto prima in Italia” ricorda oggi Scascitelli quando, complice le chiusure Covid, ha raccolto 77 delle sue composizioni, con sconfinamenti anche nel classico e nel rock. Un viaggio sonoro in cui Scascitelli conduce in raffinatissime esplorazioni nel suo jazz “uno e trino” che va dal ragtime alla bossa ed al free, unendo l’Africa agli States ed all’Europa. Andata e ritorno. Ma con sempre la melodia a fare da bussola in quel mare senza approdi netti che Scascitelli esplora senza porsi limiti, con “l’armonia che offre il colore ed il ritmo che dà il movimento” lasciando che le idee “scendano sul pentagramma” perché “la musica è intorno a noi, bisogna solo coglierla”.  Il catalogo lo si può acquistare on-line (www.lulu.com/en/us/shop/patrizia-scascitelli/my-jazz-book) oppure scrivendo a musicsmile@gmail.com. Certo sarebbe significativo se ciò venisse fatto da istituzioni musicali ed interpreti per una giusta valorizzazione dell’autrice romana i cui brani in Italia si possono al momento ascoltare dal vivo solo grazie al “Patrizia Scascitelli Italian Jazz Quartet”, nato da alcuni anni, con Andrea Pace al sax, Stefano Cantarano al basso e Carlo Battisti alla batteria. Nelle interviste le chiedono sempre perché abbia scelto di vivere a New York, dal 1981. La risposta è scontata e accompagnata dal gesto della mano che si solleva all’indietro e che suona come un silenzioso “lascia stare…”, più che giustificato se la sua Italia non le ha ancora dato il giusto riconoscimento, eccetto il concerto del 1985 dal Madison Square Garden del “Maurizio Costanzo Show” trasmesso in tutto il mondo.

 

Per una jazzista di valore la Grande Mela è da sempre una meta d’obbligo. Il restarvi un naturale conseguenza. Qui ha suonato con i più grandi: Don Cherry, Maxine Sullivan, Clifford Jordan, Buster Williams, Charles McGhee, David “Fathead” Newman, la big band di Buster Williams (quando, appena arrivata, le venne subito riservato l’assolo di “Satin Doll” di Duke Ellington). Solo per citare alcuni nomi. Dal 2004 è ospite fissa, una volta al mese, del 55 Bar, celebre jazz club del West Village. La precisione tecnica, unita alla maestria improvvisativa, la vede protagonista negli show e negli off di Broadway, il suo eclettismo la porta per anni anche dietro all’organo di una chiesa, in composizioni per forme artistiche le più varie, in progetti cittadini a scopo sociale fino, ormai da dieci anni, all’insegnamento all'Hunter College Elementary school frequentato da bambini con alto grado intellettivo. Alcuni prodigi, come è stata lei, per il pianoforte. Dalla seggiolina accanto alla radio a transistor dove – bambina, nella Roma degli inizi anni ’50 - ascolta arie liriche, Modugno e Nilla Pizzi come fossero fiabe e filastrocche, ai “24 mila baci” urlati in bagno come faceva ogni ragazzina, e poi lo scoprire che la tastiera del pianoforte può essere suonata con lo stesso rigore “alla Bach” (che ancora oggi suona quando ha bisogno di “riordinare le idee”) come “alla Oscar Peterson”-, fino al primo corso di jazz al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, appena diplomata eccellente pianista, nel 1972, con un geniale Giorgio Gaslini che si incunea come un fulmine nell’accademismo musicale. Una esperienza durata solo tre anni (abolita dal direttore del conservatorio per “ragioni di spazio”) ma che deflagrò a ritmo di bepop e free jazz creando una generazione di musicisti che ha innovato e rende oggi ancora grande nel mondo il jazz italiano. Il primo incontro con la tastiera, per Patrizia Scascitelli, arriva a 8 anni alla scuola, dalle suore, con la signorina Vittoria, organista non vedente. Non ci sono soldi in casa per un pianoforte e allora la bambina si disegna la tastiera su un cartone. In due mesi coglie note, scale, accordi come farfalle. Quindi il consiglio di rivolgersi a maestri più importanti. La mamma - cantante dilettante ma col raro dono dell’orecchio “assoluto” – non esita ad entrare nel portone del Conservatorio di Santa Cecilia, nella classe che fu di Ottorino Respighi, Alfredo Casella, Goffredo Petrassi. Per i bambini, le viene spiegato, ci sono sole lezioni private, molto costose. Ma Tito Aprea, maestro della cattedra di pianoforte, ascoltata la bambina suonare, accetta di seguirla. Solo per mezz’ora a settimana però. Una manciata di mesi bastano perché la piccola apprenda tutto il programma del primo anno, passi l’esame di ammissione col massimo dei voti, abbia una deroga per continuare a frequentare la quinta elementare. Verranno negli anni poi altri maestri - Armando Renzi, Lia De Barberis, Pietro Scarpini - che forgiano la giovane virtuosa. Ma, siamo negli anni Sessanta, anche altri e inaspettati maestri raggiungono la giovane pianista. I Beatles, i Rolling Stones, Santana e, dal palco del teatro Brancaccio nel 1968, l’incontro con Jimmy Hendrix, ribellismo fatto carne e riff. Dai giradischi suonati con gli amici: il rock blues di Ray Charles, Otis Redding, James Brown. Ed il free jazz di Charles Mingus, Don Cherry, Ornette Coleman la cui spregiudicatezza e ribellione diventano colonna sonora della contestazione giovanile dell’epoca e le cui le arditezze armoniche gettano in Scascitelli un seme che, con l’incontro con Giorgio Gaslini, inizia a germinare in modo inarrestabile. I giovani si trovano a seguire un Gaslini in stato di grazia, ideologo di un jazz concepito come leva sociale (da portare in fabbriche, scuole, carceri) e del manifesto della musica totale che applica con una innovazione trascinante e visionaria, che gli varrà di lì a poco il riconoscimento di primo jazzista italiano invitato al Festival di New Orleans. In un anno Gaslini accompagna Patrizia Scascitelli e i suoi altri allievi - il trombonista Danilo Terenzi, i sassofonisti Massimo Urbani, Maurizio Giammarco ed Eugenio Colombo, i bassisti Bruno Tommaso e Roberto Della Grotta -, in un viaggio a tappe serrate nella storia del jazz, trascinandoli dallo swing più elegante fino alle sfrenate improvvisazioni del free jazz. Lezioni lucide e sfrenate, a cui potevano accedere anche studenti esterni ed in cui si ascoltava dal blues al free jazz, da Duke Ellington a Charlie Parker, da Mingus a Dizzy Gillespie, da John Coltrane a Herbie Hancock. Note inusitate salivano dal piano terra del Conservatorio, in cui si teneva il corso di Gaslini, ai piani alti in cui risuonavano ciaccone e sinfonie. Era quello che oggi Patrizia Scascitelli, nel suo accento romano impastato morbidamente all’inglese americano, chiama “crash course”, “un fenomeno culturale che da Roma si espanse in tutta Italia”. E fu davvero un “crash” per lei che si credeva avviata ad una carriera di pianista classica. Un “turbine”, racconta, da cui l’allieva ne uscì dopo “tormentosi” rovelli sulla strada da prendere con quel suo primo album “Ballata”, del 1974, in trio con Roberto Della Grotta al basso e Mario Marinelli alla batteria. In cui “suonammo senza sosta proprio come si sente nel disco”. Un gioiello assoluto in cui il jazz incontra il folk ed il progressive. E la scoperta del suo essere una band leader capace di tener testa ai tanti colleghi maschi. Con la sua austerità e leggiadria che le fa dire: “È importante conoscere l'universo maschile per poter interagire con adeguatezza” e “la passione che ho per la musica mi ha consentito di superare tante barriere, mi sono sempre concentrata sulla qualità”. Le parole di Gaslini, dice oggi, l’hanno sempre accompagnata: “Fai come me che vado avanti per la mia strada”. E la loro strada ha fatto ancora incontrare l’ex allieva e il suo maestro. Prima a Milano da cui nasce l’album “Homecoming” che Scascitelli registra nel 1998, prodotto dalla Splash Records e poi per la registrazione del loro concerto reunion del 2000 all’Auditorium del Seraphicum di Roma (14 anni prima della scomparsa di Gaslini), suonando davanti a due pianoforti Steinway a coda.  Venne registrato un album dal vivo, poi pubblicato come “Live in Rome”. “Chiesi a Gaslini il permesso di registrare e lui mi disse: ‘Sì, sarà un mio regalo per te’” ricorda la pianista. L’album - in cui rilucono sue perle compositive come “Lucky Number e “Life and Death” - entra nella classifica degli album top del 2002 secondo la rivista “Musica Jazz” che acclama la stessa Scascitelli musicista dell’anno nel 2003. Nel 2004 arriva“ Close Up”, seguito nel 2009 da “Open Window”. Due album con 23 sue composizioni in cui c’è tutta la quintessenza della pianista, con eccellenti solisti tra cui il trombettista Jim Seeley (vincitore di diversi Grammy), i sassofonisti Mark Gross ed Ada Rovatti, la flautista Jamie Baum, il trombonista Clarence Banks. Scascitelli a fare da avanguardia ad una scena di jazzisti italiani nella Grande Mela che dagli anni Duemila ha assorbito nuove leve e che annovera tra le sue fila, tra gli altri, il batterista Luca Santaniello, bassisti come Joseph Lepore, Marco Panascia e Gianluca Renzi, la pianista Simona Premazzi e la cantante Laura Campisi. L’ultimo lavoro, “In Search Of Beauty”, album di piano solo registrato a Roma nel 2018 - e annunciato alla Casa del Jazz dove, una manciata di mesi prima, è tra i protagonisti del concerto di solidarietà del jazz italiano per Amatrice - vede Scascitelli trarre dagli 88 tasti della tastiera, in un dialogo intimo, una preziosa trama orchestrale: 14 brani in cui jazz e musica classica trovano quella fusione esplorata in una cinquantennale ricerca di sincretismi sonori e che trova la sua consacrazione nella suite Saraswati e nell’eleganza raveliana di “Triste Cancao”. Il futuro? Confida nel post-Covid. La pandemia ha costretto ad annullare concerti e master class che avrebbe dovuto svolgere alla Casa del Jazz di Roma ed al Conservatorio di Santa Cecilia. Dove, conclude, “non ho più suonato dopo il saggio finale con la classe di Gaslini, ma spero torni l'occasione”. Più che una occasione un tributo quanto mai necessario.

 (14 mar - 2022)

 

 

 

 

 

 

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